Il Fatto quotidiano online, 18 agosto 2016 (c.m.c.)
«Il problema di fondo? Si pensa che i servizi siano un costo. E si finanziano solo se c’è denaro che avanza, come fossero un lusso. Invece, come ho cercato di spiegare a tanti ministri, si tratta di un investimento in capitale umano, in coesione sociale, in solidarietà. Un investimento che, se si vuol far ripartire la crescita, dev’essere sullo stesso piano di quelli nella banda larga o nelle ferrovie».
Le conclusioni del rapporto 2016 della fondazione Bertelsmann, che ha messo ancora una volta il dito nella piaga di un sistema di politiche sociali inefficiente nel mitigare povertà e disuguaglianza, non stupiscono la sociologa Chiara Saraceno, esperta di welfare, già docente alla facoltà di scienze politiche dell’università di Torino e professore di ricerca al Wissenschaftszentrum für Sozialforschung di Berlino, oggi honorary fellow al Collegio Carlo Alberto del capoluogo piemontese.
Il rapporto mette in evidenza debolezze storiche che sembrano impermeabili a qualsiasi riforma.
I nodi in effetti sono sempre gli stessi: il quasi esclusivo affidamento del welfare alla famiglia, cosa che contribuisce a riprodurre le disuguaglianze di generazione in generazione, l’esclusione pressoché totale da qualsiasi forma di protezione pubblica di chi non è ancora entrato nel mercato del lavoro o ne è uscito da troppo tempo e lo scarso sostegno ai nuclei familiari che sostengono il costo dell’allevamento e dell’educazione dei figli.
Negli ultimi anni si è messo mano agli ammortizzatori sociali e di recente il governo ha annunciato nuovi strumenti di lotta alla povertà. Non basta per modificare il quadro?
Renzi ha fatto qualche intervento, è vero, ma molto debole e di segno non univoco. La cosa più positiva è stata la riforma dell’indennità di disoccupazione che ha eliminato gran parte delle difformità nella protezione previste dal sistema precedente. Ma per definizione l’indennità va solo a chi un lavoro lo ha avuto e protegge di più chi ha lavorato per più anni. Questo già indebolisce la posizione dei giovani, che tendono ad avere lavori a termine e non continuativi. Le donne giovani, poi, sono penalizzate ulteriormente, visto che rispetto ai coetanei hanno più spesso lavori a tempo determinato o flessibile.
Continua invece a mancare un sistema di protezione che copra anche chi è fuori dal mercato del lavoro. A partire dai giovani.
Sì: finora ci sono annunci, come quello sul Sostegno di inclusione attiva (Sia) che partirà a settembre (peraltro già in ritardo di tre mesi), ma continua a non esistere un reddito minimo per i poveri e anche le nuove misure escludono i giovani: il Sia andrà solo a chi ha in famiglia almeno un figlio minore o disabile o una donna incinta. E questi paletti secondo me non dipendono da motivi ideologici, ma semplicemente dal fatto che non c’erano abbastanza soldi. Non a caso ci sarà una graduatoria e non tutti quelli che rispettano i parametri riceveranno il contributo di cui hanno bisogno. Sconta lo stesso problema il ddl delega che dovrebbe mettere a regime una misura contro la povertà più ampia: il finanziamento previsto è di 1 miliardo ma tutti quelli che hanno studiato la questione sostengono che a regime ne servirebbero 7. Anche lì, peraltro, si dice che si partirà dalle famiglie con figli. E’ ragionevole, intendiamoci, ma tutto questo fa sì che ai giovani meno privilegiati sia quasi preclusa la possibilità di farsela, una famiglia.
Di fatto oggi l’unica misura di sostegno individuale sono gli 80 euro. Li giudica utili?
A parte il fatto che vanno solo ai lavoratori dipendenti, il problema è che escludono gli incapienti. Con il paradosso che in una famiglia lo possono prendere anche in tre o quattro membri essendo una detrazione personale mentre chi è solo e guadagna pochissimo non lo prende. O, ancora peggio, se lo ha preso ora gli viene chiesto di restituirlo. Una follia che grida vendetta, non capisco perché si sia smesso di parlarne.
Secondo la fondazione Bertelsmann, comunque, anche i benefit per le famiglie sono insufficienti.
Il sistema è estremamente frammentato e poco efficiente: c’è l’assegno al nucleo famigliare, ma solo per i lavoratori dipendenti a basso reddito, quello per il terzo figlio che va solo alle famiglie con reddito Isee sotto una certa soglia e tre figli tutti minori, poi le detrazioni per i figli a carico che però escludono anch’esse gli incapienti, poi il bonus bebè… mille rivoli che aumentano le disuguaglianze, perché c’è chi li prende tutti e chi nessuno. La soluzione sarebbe usare tutte queste risorse per un unico assegno per i figli, magari decrescente al crescere del reddito, che tirerebbe fuori dalla povertà una buona quota di famiglie. Si pensi che stando agli ultimi dati lo scorso anno il 10,9% dei minori (1,13 milioni) era in povertà assoluta. E nella maggior parte dei casi parliamo di nuclei in cui almeno un adulto lavora ma il suo stipendio non basta. Per questo la vera soluzione sarebbe quella di favorire l’occupazione delle madri.
Perché allora non si è mai deciso di fare piazza pulita di questi contributi inefficienti, unificarli e in parallelo investire in nidi e altri servizi?
Sul primo fronte, indubbiamente annunciare singole misure come il bonus bebè costa di meno e forse fa più scena. Quanto ai servizi pubblici di cura non famigliare, ci sono diversi ordini di difficoltà: a volte gli enti locali, soprattutto nel Mezzogiorno, non spendono i soldi che hanno a disposizione, e allora dovrebbe intervenire lo Stato. Ma più in generale il problema è che sono considerati costi invece che investimenti nelle generazioni future e in particolare in quelle meno avvantaggiate. Molte capacità si consolidano prima dell’entrata nella scuola elementare, per cui far andare al nido i bambini meno fortunati, penso anche ai piccoli migranti che magari non parlano ancora bene la nostra lingua, è un modo per favorire il loro futuro accesso al mercato del lavoro. Un investimento, appunto.