Il manifesto, 2 agosto 2014
Il fine ultimo della gestione della crisi economico-finanziaria sviluppatasi a partire dal 2008 e della gestione dell’austerità con cui, soprattutto inEuropa, si è preteso di contrastarla (copiando dagli Usa, che però quelle politiche le predicano ma non le applicano) era, ed è, una ulteriore riduzione delle quote di Pil destinate a lavoro, pensioni, sanità e istruzione e, soprattutto, la privatizzazione delle imprese e dei servizi pubblici, del territorio e dell’ambiente. Il tutto a beneficio della finanza internazionale, a cui era stato da tempo trasferito il diritto di creare denaro attraverso il cosiddetto «divorzio» tra Governi e Banche centrali.
In questo quadro si è sviluppata fino al parossismo una cultura di governo ragionieristica, attenta fino allo spasimo (politico) a centellinare le risorse dedicate al lavoro e al benessere delle popolazioni per proteggere i grandi interessi finanziari che hanno scatenato la crisi e che continuano a beneficiarne.
Quella cultura e quelle politiche da ragionieri, gestite dalle istituzionidell’Unione Europea di cui i Governi degli Stati membri, soprattutto nella zona euro, sono meri esecutori, hanno aperto una voragine tra l’ideale dell’Europa unita e la difesa, sempre più debole, delle condizioni di vita della maggioranza dell’elettorato. Ma ha reso anche assai meno attrattivo l’obiettivo di unirsi alla compagine europea per quelle nazioni che ne sono ai margini: vedere come l’Unione Europea strapazza il popolo greco, ma anche quelli italiano, spagnolo, portoghese, irlandese e ora anche francese (ma sempre più anche quelli degli Stati più forti) non è allettante.
Sfumata quella della Turchia, le richieste di nuove adesioni, come quella del Governo ucraino, nascono più per non rimanere schiacciati dai conflitti generati dall’espansionismo della Nato (cioè degli Stati Uniti, verso cui l’Unione Europea mostra sempre più la propria sudditanza) che dall’attesa di qualche beneficio. Ma quella sudditanza è la conseguenza della cultura ragionieristica con cui viene governata l’Unione, che la rende muta e impotente di fronte all’esplodere di conflitti sempre più gravi ai suoi confini: Libia, Siria, Ucraina, Iraq, Israele e Palestina.
Molti di questi conflitti, compreso uno nella stessa Israele, sono nati da rivolte popolari contro le politiche liberiste dei rispettivi governi, e sono poi stati schiacciati o assorbiti dalle guerre perché non hanno trovato in Europa una sponda adeguata. Ora, mentre si moltiplicano i vertici sui decimi di punto di sforamento del deficit da concedere ai governi di paesi ormai al collasso per via di vincoli ben più sostanziosi imposti da debiti e trattati insostenibili che non vengono messi in discussione (una riedizione del dibattito sul sesso degli angeli che impegnava i governanti di Bisanzio mentre i Turchi la stavano espugnando), i territori che circondano l’Europa si infiammano.
Le conseguenze non tarderanno a farsi sentire. Perché quei paesi in fiamme hanno molto peso nell’approvvigionamento energetico dell’Europa, e la potrebbero portare al collasso. Perché tutto il continente verrà investito sempre più da flussi di profughi di dimensioni bibliche: oggi si trova insostenibile l’arrivo di qualche decina di migliaia di derelitti, che pagano la loro fuga con un pesantissimo tributo di morte, senza rendersi conto che i profughi prodotti dalle guerre che ormai circondano l’Europa sono milioni; che milioni, e non migliaia, ne ospitano i paesi limitrofi: Turchia, Giordania, Iraq, come già Siria e Giordania ai tempi della guerra in Iraq; che prima o poi anche loro cercheranno un rifugio in Europa; e che i paesi a cui si vorrebbe affidare il compito di fermare quei flussi sono quelli che li alimenteranno sempre di più.
Perché una quota crescente della popolazione europea è composta da nativi di paesi sconvolti da conflitti che non tarderanno a ripercuotersi anche qui, intrecciandosi con conflitti sociali sempre più aspri. Perché guerra chiama guerra e senza strumenti per promuovere la pace (una politica estera di ampio respiro e risorse consistenti, umane, economiche e culturali) se ne finisce travolti.
La drammaticità del momento, che si somma al collasso degli equilibri economici su cui avrebbe dovuto reggersi il progetto europeo rende evidente che ci troviamo non alla vigilia, ma già nel bel mezzo di una svolta epocale che ci impone di affrontare, dentro la prassi quotidiana e dentro le lotte in difesa delle proprie condizioni di vita, una profonda revisione dell’orizzonte entro cui ci muoviamo: una revisione che riguarda innanzitutto i concetti di democrazia e di lavoro.
Due entità congiunte, come peraltro prevede l’articolo 1 della Costituzione italiana, ancorché discusso e varato in un contesto del tutto differente. Occorre elaborare e poi contrapporre al pensiero unico, che esalta la competitività, l’individualismo proprietario, il consumo come motore dello sviluppo, il merito come sanzione di una presunta superiorità di chi si è affermato (e il servilismo, che ne è la diretta conseguenza) una cultura nuova, che promuova la solidarietà, la condivisione, la sobrietà, la cura del prossimo, della natura e del vivente: tutte cose che costituiscono l’orizzonte di una rifondazione integrale della democrazia.
Non è solo una battaglia culturale da affidare all’elaborazione teorica di pochi e all’intelligenza collettiva dei più; deve investire anche gli affetti e il vissuto quotidiano di tutti: là dove il pensiero unico è riuscito spesso a far breccia e ad annidarsi in ciascuno di noi senza che nemmeno ce ne avvedessimo. E’ un lavoro di scavo che richiede un reciproco interrogarsi e rimettersi in gioco, il cui esito non può che essere quella conversione ecologica di cui parlava Alex Langer.
Un processo che investe contestualmente il nostro sentire, le nostre convinzioni, i nostri atteggiamenti, i nostri comportamenti soggettivi e le forme della partecipazione e del conflitto sociale per trasformare la strutture del contesto in cui operiamo, a partire da quello economico: che cosa produciamo, per chi, con che cosa, come e dove. Perché o la democrazia riesce a investire anche l’ambiente economico, l’impresa, la sua organizzazione, il suo mercato, il suo rapporto con il territorio e chi lo governa, o, se resta ai margini o al di fuori di queste cose, non ha più modo di esistere.
È solo facendosi protagonista di una lotta politica e culturale per queste forme di democrazia integrale che l’Europa, cioè i suoi popoli, possono offrire al resto del mondo, e innanzitutto a chi abita ai suoi confini, una prospettiva di pace e di solidarietà che ne faccia un modello. E che prospetti una strada per sottrarsi a quello stato di guerra permanente in cui si traduce ormai da tempo la convinzione che dall’Europa così com’è, dai suoi modelli di vita e dalla ferocia che esercita verso i suoi stessi cittadini non c’è niente da attendere e niente da riprendere.
Ma democrazia e lavoro si intrecciano inestricabilmente. Non il lavoro nelle forme coatte in cui esso si esercita oggi in tutto il mondo; cioè emarginando e deprimendo salute, vita, desideri, capacità e creatività di chi lo svolge – così come si devasta la natura e il vivente per ricavarne solo la millesima parte, e la peggiore, di quello che potrebbero dare – ma potenziando al massimo, attraverso conflitti con cui recuperare gradualmente per tutti una capacità di autogoverno: sia sul territorio che all’interno delle imprese che sulle grandi questioni di indirizzo; in modo da rendere la creatività di ciascuno il vero motore di uno «sviluppo» radicalmente diverso.
In questa dimensione un reddito di cittadinanza universale è oggi non solo un obiettivo unificante per le lotte dei precari e dei disoccupati, giovani e anziani, come dei lavoratori non più protetti dall’articolo 18, ma una condizione per poter imporre scelte progressivamente sempre più libere su come e dove lavorare, e per quanto tempo, e se sotto padrone o per proprio conto, e per fare che cosa; cioè per trasformare il lavoro in un’attività più libera. Che è ciò che approssima maggiormente, in un contesto in cui partecipazione e conflitto si intrecciano senza soluzione di continuità, la società che vogliamo e che abbiamo il compito di proporre a tutti.