il Fatto Quotidiano,
A cent’anni di distanza, non c’è nulla di più attuale del primo libro dedicato da un grande intellettuale italiano alla disfatta per antonomasia della Grande Guerra: Viva Caporetto, opera prima di Curzio Malaparte, fu scritto tra il 1918 e il ‘19, uscì nel ‘21, e per la sua violenza verbale fu sequestrato e ristampato subito in forma riveduta e con un altro titolo, La rivolta dei Santi maledetti (da cui cito), anch’esso peraltro sequestrato prima nell’Italia liberale del tardo 1921 e poi in quella fascista del ‘23. La tesi di fondo è semplice, anche se discutibile: Caporetto non è stata una vergognosa ritirata, ma anzi il momento culminante di una rivoluzione sociale mossa dal popolo delle trincee, quel popolo misto che un’élite politica e militare cialtrona e corrotta aveva mandato allo sbaraglio, e che con il disobbedire, col sabotare, col denunciare le inutili stragi, l’assurdità degli ordini e l’assenza di strategia, già prima della ribellione operata “gettando lo scudo” nell’ottobre del ‘17, si era esposto a ritorsioni, fucilazioni sommarie, o come minimo alla pesante accusa di disfattismo.
“Dire la verità è fare del disfattismo” pare abbia detto un giorno del ‘17 il generale Di Robilant, comandante della IV armata. La verità era che il sentimento patriottico nel Paese non lievitava, e che col passare dei mesi si approfondiva il solco di incomunicabilità e diffidenza tra le classi dirigenti (molti gli interventisti da salotto, non di rado imboscati; i pacifisti, loro, mantenevano agli occhi di Malaparte almeno una dignitosa coerenza) e le masse dei combattenti, sempre più insofferenti dei “lustri e sdegnosi ufficiali di cavalleria, dei panciuti e pettoruti ufficiali superiori”, di Cadorna “chiuso nella sua lucente armatura di princìpi e di tradizioni, alto nella sua aristocratica fierezza”. “Non amo un generale alto, che sta a gambe larghe, / fiero dei suoi riccioli e ben rasato. / Uno basso ne voglio, con le gambe storte, / ma ben saldo sui piedi, e pieno di coraggio”: forse memore della nota satira del greco Archiloco, il colto Malaparte constata la sostanziale sfiducia di Cadorna nei confronti delle sue truppe (un errore di valutazione e di ethos su cui torna oggi lo storico Marco Mondini nel fresco saggio Il capo, che tiene dietro all’imprescindibile La guerra italiana del 2014, sempre per i tipi del Mulino), e salva solo gli ufficiali di trincea, i “pastori di genti” (omericamente, i “poimènes laòn”) i quali compartivano con le reclute l’insensatezza degli ordini e l’orrore della carneficina. Quegli stessi che, passata la catastrofe, il generale Diaz mise al centro del suo piano di rivitalizzazione di un’armata destinata alla riscossa.
Interventista della prim’ora e precoce volontario in Francia, dove poi nel ‘18 fu gravemente ferito ed ebbe i polmoni corrosi dall’iprite, Malaparte non accusa però solo la “confraternita di unti dal Signore” abituati a lambiccare strategie in una concezione astratta “che risentiva molto delle ville venete, non del fango e del sangue delle trincee”. Il suo disgusto – che è quello degli antichi combattenti per nulla convertiti all’antimilitarismo – si estende al “bosco elegante ed umanitario” delle crocerossine, ai giornalisti superficiali o prezzolati, alla retorica vuota e gratuita in cui si bagna un Paese di ciurmadori e politicanti, il Paese dell’ “armiamoci e partite”. Un Paese che (come aveva ricordato, in altro senso, l’interventista Apollinaire – amico di Malaparte al “Lapin agile” di Montmartre – nell’ode All’Italia del 1915) più degli altri dovrebbe sentire responsabilità dinanzi agli uomini quando il dilemma si pone fra civiltà e barbarie: “L’Italia, dove il diritto è nato, è fra i paesi più incivili del mondo: vi manca assolutamente, cioè, il senso del diritto. Chi si sente cittadino, fra noi? Chi rispetta lo Stato?”.
La realtà della barbarie della Grande Guerra è oggi nota da molti studi; e si guarda ormai più sobriamente alla reale portata della “dissidenza” dei soldati rispetto a tale barbarie e a chi la ordinava. Tuttavia, a cent’anni di distanza, Viva Caporetto è un libro notevole per almeno due ragioni: da un lato esso aiuta a cogliere i primi germi di un sentimento di odio sociale tra il “popolo” e la “casta”, a conoscere dunque quella humus di risentimento e di insoddisfazione che portò molti reduci di ogni colore ad aderire al fascismo – un approdo cui giunse lo stesso “socialista rivoluzionario” Malaparte, per la sorpresa di Gobetti e degli ordinovisti con cui collaborava; e fu un’adesione ricca di ombre e di incomprensioni. D’altra parte, l’opera prima del giovane scrittore toscano colpisce per il coraggio di un’analisi che non aspetta le “bocce ferme” (come farà Emilio Lussu con Un anno sull’altipiano, uscito nel 1938, e a Parigi: ne fu tratto, con palese forzatura antimilitarista, Uomini contro di Francesco Rosi), ma si sobbarca a un’operazione di verità “in presa diretta”, esponendo l’autore ad attacchi e persecuzioni nei primi tempi del Ventennio. Al netto delle sue derive nazionalistiche e irrazionalistiche, e al netto di una diagnosi a tratti volutamente provocatoria, un Malaparte polemico e non ancora surrealista (né passibile della taccia di opportunismo, che spesso l’accompagnerà), pianta il cuneo in quello scollamento fra propaganda e realtà, fra narrazione delle classi dirigenti e vita dei “soldati semplici”, fra retorica e concretezza, che anche in tempo di pace resterà uno dei principali problemi del nostro Paese.