«». Contribuiamo ad ammazzare, ma intanto il PIL cresce. Altraeconomia , 16 agosto 2016 (c.m.c)
Fino a qualche mese fa Domusnovas -piccolo centro sardo di 6.300 abitanti in provincia di Carbonia-Iglesias- era conosciuto solo da qualche turista per le sue bellissime grotte carsiche. La presenza delle grotte di San Giovanni è ben segnalata già nei cartelli della statale 130, che collega Cagliari al paese, e arriva fino a Iglesias. Dallo scorso ottobre, però, Domusnovas è diventata nota per un’altra presenza: quella della fabbrica di armi della società Rwm Spa.
Nessun cartello sulla 130 la segnala nonostante anch’essa si trovi a pochi chilometri dal centro. Per trovarla è necessario chiedere a qualche passante, che appena sente il nome della fabbrica cambia espressione, salvo poi indicare la via dellocalità Matt’è Conti. Attraversando le campagne sulcitane si raggiunge un parcheggio antistante il caseggiato; se non fosse per le sbarre su tutte le finestre che si affacciano sul piazzale -e il filo spinato sopra ai muri- sembrerebbe uno stabilimento qualsiasi.
E invece dai cancelli della Rwm Spa sono partiti razzi, siluri e bombe verso varie destinazioni, tra le quali figura anche l’Arabia Saudita, come si legge nella Relazione sulle operazioni autorizzate di controllo materiale di armamento 2015 del governo. La fabbrica ha iniziato a comparire sulle cronache quando il deputato Muro Pili, il 29 ottobre 2015, ha pubblicato video e fotografie che davano conto del carico di missili in partenza dallo scalo civile di Elmas, denunciando il mancato adempimento delle norme di sicurezza che regolano il trasporto delle armi. Il carico era pronto all’imbarco poco lontano dalla pista di decollo degli aerei di linea.
Amnesty International, la Rete Disarmo e l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere di Brescia (OPAL) hanno chiesto conto al governo, mentre alcuni deputati e senatori appartenenti a vari schieramenti hanno presentato interrogazioni, soprattutto per quanto riguarda l’invio del materiale bellico a Paesi in guerra, in palese violazione della legge 185/90. A tentare di fugare i dubbi sulla sicurezza dell’esportazione è intervenuto l’Ente nazionale aviazione civile, cui ha fatto seguito -a proposito della legalità dell’operazione- la ministra della Difesa, Roberta Pinotti. Secondo il governo, la Germania sarebbe stata la responsabile ultima della decisione, vista l’appartenenza di Rwm Italia a un gruppo tedesco.
Tesi che è stata però smentita dalle risposte ufficiali di Berlino. “È chiaro che si tratta di una questione tutta italiana -ha spiegato a Francesco Vignarca, coordinatore della Rete italiana per il disarmo, Jan van Aken, deputato della Linke al Parlamento tedesco-, perché Rwm già produceva queste bombe prima dell’acquisizione da parte di Rheinmetall. E una richiesta formale di autorizzazione alla Germania deve essere fatta solo se c’è trasferimento di know-how. Nonostante ciò, dopo aver letto le notizie che rimbalzavano anche qui dalla Sardegna, abbiamo voluto una conferma ufficiale.
E la risposta è stata chiara”. Spiega Vignarca: «Il governo Merkel ha infatti risposto all’interpellanza di Van Anken dichiarando che ‘nessuna competente autorizzazione’ era stata emessa da Berlino per componenti riguardanti gli ordigni prodotti a Domusnovas» (è possibile leggere qui i documenti del governo tedesco, che Altreconomia pubblica in esclusiva).
Le esportazioni, in ogni caso, sono andate avanti. Ancora nel marzo 2016, OPAL ha dato conto di nuove partenze di bombe da Cagliari verso l’Arabia Saudita per 5 milioni di euro.
Qui a Domusnovas, però, la questione più rilevante è quella occupazionale. La Rwm Spa con sede legale a Ghedi (BS) ha un capitale sociale di 2 milioni di euro interamente detenuto dalla Rheinmetall waffe munition Gmbh (Rheinmetall Defence), occupa in Sardegna 74 addetti, e nel 2015 ha fatturato 54,5 milioni di euro. Lo stabilimento sorge negli stessi spazi dove nel 1933 nacque la Società Esplosivi Industriali Spa (SEI) per fare fronte alle richieste dell’industria mineraria, allora settore trainante del Sulcis. Ora non produce più esplosivi per miniere e il gruppo cui fa riferimento, Rheinmetall Defence, è un colosso da 25mila dipendenti e un fatturato consolidato che nel 2015 ha superato i 5 miliardi di euro.
L’attenzione mediatica da queste parti non è affatto gradita. Le persone che accettano di parlare pretendono i microfoni spenti. I dipendenti, poi, potrebbero incorrere nelle sanzioni del “codice etico” aziendale, che all’articolo 22 prevede il licenziamento per la diffusione di informazioni riservate. Chi spera di trovare lavoro nella fabbrica, invece, preferisce evitare i giornalisti. Qui tutti contano un parente o un conoscente impiegato alla Rwm e la preoccupazione è che anche questa fabbrica possa chiudere o decidere di delocalizzare la produzione.
Dal punto di vista occupazionale questo è un territorio già molto provato dalla dismissione delle miniere e dalle vertenze Carbosulcis, Alcoa, Euroallumina e Portovesme Srl per le quali ancora si sta cercando una soluzione alternativa al licenziamento. La chiusura dell’ennesimo stabilimento sarebbe un’altro duro colpo all’economia della zona. Gli ultimi dati Istat dicono che qui la disoccupazione è al 17% con quella giovanile che supera il 60%, e se nel 2014 il Pil procapite del Sud Italia era di 16.761 euro -circa la metà rispetto a quello del Nord- nel Sulcis è di soli 8.800 euro.
I giovani rappresentano il 30% della popolazione e questa, insieme a quella di Oristano, è la zona che ha perso più abitanti nell’ultimo anno, per lo più giovani e qualificati, alla ricerca di qualche opportunità, soprattutto all’estero. Anche perché alla riconversione non crede più nessuno. Alcuni qui a Domusnovas si dichiarano sì contro le guerre, ma sono anche convinti che se chiudessero la Rwm le armi continuerebbero ad essere prodotte da qualche altra parte, mentre certamente loro perderebbero il lavoro.
La questione più controversa però rimane quella etica. Da ottobre scorso ad oggi ci sono state tre manifestazioni davanti alla fabbrica, sempre per chiederne la chiusura e lo smantellamento. All’ultima, nel maggio scorso, hanno partecipato un centinaio di persone. Il comitato “No bombe” parla di ricatto occupazionale: «Sappiamo perfettamente che le multinazionali fanno i migliori investimenti nei Paesi con più difficoltà economiche, non per ultimo in Sardegna, dove il lavoro non è mai stato un’opportunità bensì un ricatto. La possibilità di perdere alcuni posti di lavoro in un territorio devastato economicamente e socialmente crea ansia, lo possiamo capire, ma non per questo accettare». Quello stesso giorno, gruppi antimilitaristi tedeschi hanno manifestato a Berlino durante l’assemblea generale degli azionisti della Rheinmetall Defence.
Franco Uda è il coordinatore della Tavola della Pace Sarda, una rete di 30 associazioni. È convinto che sviluppare un conflitto tra lavoratori sia inutile. Insieme alla Rete italiana per il Disarmo la Tavola inviato a 10 Procure di tutta Italia, comprese Cagliari e Brescia, un esposto contro il governo italiano per la violazione della legge 185/90 che è quella che regola l’export di armi.
«Nel passato questa norme veniva aggirata attraverso le triangolazioni -ricorda Uda-, per cui l’Italia vendeva armi all’Egitto e l’Egitto poi le vendeva all’Arabia Saudita che era in guerra contro lo Yemen. Mentre ora, anche questo elemento di pudore viene completamente saltato. Oggi l’Italia vende direttamente all’Arabia Saudita che è in guerra con lo Yemen». Per Salvatore Drago, dell’Unione sindacale di base, l’unica soluzione è dare alternative -come la riconversione della fabbrica-, anche se è convinto che spetti ai lavoratori assumersi delle responsabilità.