Mi piacerebbe che solo un centesimo dei fiumi d’inchiostro versati sulla questione Meier-Ara Pacis fosse dedicato a ciò che sta succedendo sull’altra sponda del lungotevere, un po’ più giù, all’angolo tra via della Lungara e piazza della Rovere. Qui si è da poco impiantato un cantiere ed è già stato demolito il piccolo manufatto costruito su un relitto del nefasto sventramento con cui erano state a suo tempo tagliate via Giulia e la Lungara e che valeva solo per il frontocino baroccheggiante che lo sovrastava. Poi, in uno dei punti focali più in vista del centro storico, sorgerà un moderno palazzo di sei piani con relativo scavo per interrato e fondazioni. Siamo vicino al bastione e alla porta del Sangallo, di fronte a San Giovanni dei Fiorentini e all’elegante “confetto succhiato” della sua cupola, sulla testa del rettilineo che un tempo si chiamò anch’esso Via Julia, perché voluto da Giulio II in simmetria con la prestigiosa via sull’altra sponda del Tevere, sulla strada di Palazzo Corsini, della Farnesina e dell’Orto Botanico. Siamo anche sul terreno che separa il fiume dalla domus imperiale, detta “di Agrippina”, scoperta durante i discussi lavori giubilari per la rampa del Gianicolo. Insomma, tutto dovrebbe portare a grande attenzione e cautela prima di procedere a qualsiasi opera. Sarebbe in primo luogo necessario uno scavo archeologico per esplorare una possibile estensione verso la sponda del Tevere della domus e dei suoi affreschi.
Segnalai già questa necessità nella riunione della Commissione edilizia che si riunì eccezionalmente in sessione plenaria per esaminare il progetto nel giugno 2001, quando ci fu un’accesa discussione perché esso era stato prima respinto da una Sezione della Commissione stessa nel marzo 1999 e poi approvato a maggioranza in un’altra, nel febbraio 2001. La Commissione, che si poteva pronunciare solo sulla qualità architettonica dell’intervento e sul suo inserimento nel contesto urbano, manifestò diverse posizioni, ma concordò comunque su un punto: quello di trovarsi di fronte a “un momento importante della storia della città”. Ora vorrei sapere se le varie soprintendenze hanno aggiornato i propri pareri, visto che a quel tempo esistevano solo quelli espressi su elaborati precedenti alla scoperta della domus e dei suoi affreschi. In secondo luogo mi chiedo, e chiedo, se un intervento del genere possa realizzarsi solo sulla base della rispondenza o meno alle norme tecniche e non anche su una piattaforma culturale condivisa per il centro storico cittadino, che vede improvvisamente riaprirsi con un fatto compiuto la discussa e lungamente accantonata questione dei suoi cosiddetti “buchi”, da riempire o meno con edilizia contemporanea.
Mi piacerebbe, appunto, che la vasta nomenclatura che si è cimentata col progetto Meier si pronunciasse più in generale sulla legittimità culturale e sulla presenza o meno del moderno in centro storico, anche se posso già immaginare le varie posizioni. Ci sarà infatti chi invocherà la Rinascente di Albini, i vetri bronzei dell’hotel Jolly di Corso Italia o le sopraelevazioni di Ridolfi e ci sarà la pressione degli architetti per “lasciare il segno” nel centro, non accontentandosi di tutto il resto della città. Ma si potrà anche sorvolare sul pericolo di un’edilizia del tipo palazzo dei Monopoli dietro piazza Mastai e altri fattacci del genere, passati o possibili futuri. A mio giudizio l’intervento alla Lungara, che lo si consideri qualificato o meno, può dare l’avvio a molti episodi pericolosi per il delicato cuore della città. Sono rimasto colpito da un recente giudizio di Benevolo, alla presentazione del suo ultimo libro riguardante San Pietro e la spina dei Borghi, sull’inadeguatezza dell’attuale normativa per il centro cittadino e degli strumenti di cui l’Amministrazione dispone e sono anche perplesso sulla pur affascinante proposta del professore di ricostruire quella spina, proprio per l’inadeguatezza che egli denuncia e per quella piattaforma culturale condivisa che credo non ci sia. E per quanto riguarda i famosi “buchi” credo che eventualmente valga molto di più progettarli come vuoti che come pieni e che sia da riprendere la metodologia che Insolera propose nel 1969 partecipando provocatoriamente al concorso per piazza del Parlamento non col progetto architettonico di un nuovo edificio, ma con una soluzione urbanistica di quello spazio e dei suoi dintorni.