Le chiamano “bombe d’acqua”, sono precipitazioni intense quanto quelle di un anno intero e concentrate in un fazzoletto di poche centinaia di metri quadrati. Spianano le culture e sfondano i tetti delle costruzioni. Frequenti nelle aree subtropicali, abbiamo cominciato a fare la loro conoscenza nell’ultima alluvione nel Veneto. I meteorologi ci dicono che sono una conseguenza del fatto che l’aria calda trattiene più vapore acqueo di quella fredda. Scrive Bill Mc Kibben (Terra, Edizioni Ambiente, 2010): “Nelle zone aride aumenta l’evaporazione e quindi la siccità. Quando poi finisce nell’atmosfera, prima o poi l’acqua torna giù”. Ecco spiegato molto semplicemente il fenomeno per cui le precipitazioni totali su alcuni aree del pianeta sono aumentate di molto con eventi meteorologici estremi: temporali che in un solo giorno rovesciano decine di centimetri di pioggia. Ne sanno qualcosa le popolazioni dei comuni della pedemontana veneta da quindici giorni impegnati a svuotare cantine e riparare tetti. (Vedi i resoconti nel sito di Carta Estnord: due morti, migliaia di sfollati, decine di migliaia di case allagate, un miliardo di danni).
E’ incredibile come nemmeno di fronte ad eventi così evidenti non vi sia alcuna capacità (nei mass media e nelle forze politiche mainstream) di connettere i sempre più frequenti disastri “locali” alla catastrofe naturale globale in corso. Ci si azzuffa con “Roma ladrona” per ottenere qualche milione di risarcimenti, al massimo ci si lamenta per i mancati interventi di manutenzione delle opere di regimentazione delle acque, ma nessuno prende parola per denunciare lo scandalo di un governo che rema contro le pur insufficienti e balbettanti iniziative dell’Unione Europea sulle emissioni di gas serra. Sembra che gli ultimi negazionisti delle cause antropiche del caos climatico siano annidati nel Ministero dell’Ambiente italiano, oltre che in Polonia. Ma se ai polacchi possiamo concedere la giustificazione della necessità di sfruttare le miniere di carbone, per l’Italia la presenza dell’immarcescibile direttore generale Corrado Clini, plenipotenziario per i negoziati sul clima da Kioto a Copenaghen, dimostra che tutti i governi succedutesi di centrosinistra e di destra sono rimarti succubi ai voleri degli intoccabili padroni dell’energia: dall’Eni di Scaroni alla Sorgenia di De Benedetti, dalla Saras di Moratti agli inceneritori della premiata ditta Marcegaglia. Per non ricordare che gli italiani detengono i primati mondiali di produzione pro capite di cemento e di automobili in circolazione. Il nostro, cioè, è il modello industriale più energivoro che si possa immaginare. L’urgenza di una sua riconversione (variamente ricordata dagli scritti di Guido Viale e da pochi altri economisti) viene quotidianamente negata dalle politiche economiche governative e confindustriali. Questa è la prima ragione del declino economico e del disastro ambientale in Italia.
Anche per queste “peculiarità” nazionali, il percorso di avvicinamento a Cancun nel nostro paese deve essere più impegnativo; deve rompere il velo di ignoranza e di omertà calato sulle questioni climatiche. A questo scopo è nata una rete (Rigas) molto vasta di associazioni e comitati che prepara il contro-vertice di Cancun con varie iniziative, così come già successe lo scorso anno in occasione del precedente “incontro tra le parti” di Copenaghen.
Innanzitutto va richiamata l’attenzione sui rischi che l’umanità sta incorrendo. Il più accreditato climatologo del mondo, scienziato della Nasa, James Hansen (Tempeste, con introduzione di Luca Mecalli, Edizioni Ambiente, 2010) ci avverte che se dovessimo continuare a bruciare tutti i combustibili fossili che conosciamo - e che con tanto accanimento cerchiamo di estrarre in fondo agli oceani e tra le rocce bituminose - “le calotte glaciali si fonderebbero completamente con un innalzamento finale del livello del mare di 75 metri e gran parte di questo processo si svolgerà nell’arco di qualche secolo”. Spiega bene Mc Kibben: “Siamo all’inizio del cambiamento più vasto e profondo mai registrato nella storia dell’umanità, pari solo a quei grandi pericoli che abbiamo potuto leggere nelle tracce lasciate nelle rocce e nel giaccio (…) Non si tratta di un cambiamento transitorio, è la Terra che sta mutando (…) La calotta polare artica si è ridotta di 2,8 milioni di chilometri quadrati, più di quanto sia mai stato registrato nella storia (…) I tropici si sono espansi di due gradi di latitudine a nord e a sud, con la conseguenza che alla fascia climatica tropicale si sono aggiunti altri 22 milioni di chilometri quadrati. A conseguenza di ciò, le regioni subtropicali aride si spostano ora verso nord e verso sud, con gravi conseguenze per i milioni di persone che vivono in queste regioni aride di recente formazione (…) Le barriere coralline cesseranno di esistere come strutture fisiche entro il 2100, forse 2050”.
Tutti gli altri effetti sugli ecosistemi si possono trovare ben elencati e classificati nell’ultimo Living Planet Report del WWF 2010 (anno internazionale della biodiversità): l’indice del pianeta vivente continua a scendere mentre la pressione antropica sulla biosfera (impronta ecologica) continua a salire.
La rivista “Nature” ha pubblicato studi in cui si rivela che l’ultima volta in cui i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera raggiunsero i valori simili a quelli attuali (390 parti per milione) fu circa 20 milioni di anni fa; ma allora il mare salì di 20 metri e le temperature di 10 gradi centigradi.
Conclude Mc Kibben: “L’Olocene è ormai agli sgoccioli e l’unico mondo che gli umani hanno conosciuto all’improvviso vacilla”. L’Olocene è la nostra era geologica, il cui inizio è stato fissato 11.700 anni fa, all’interno della quale si è potuta sviluppare la civiltà umana ad iniziare dal neolitico, 7.000 anni fa.
Insomma, di fronte a mutamenti irreversibili così sconvolgenti, servirebbe una energia positiva inversa: una rabbia benedetta, una santa indignazione… una sollevazione morale capace di imporre l’obiettivo del rientro delle emissioni in atmosfera di CO2 nella soglia delle 350 parti per milione per contenere l’incremento della temperatura ad un grado massimo centigrado a fine secolo. A partire da questo obiettivo sarebbe possibile declinare una serie di politiche specifiche. Basti pensare che il settore agroalimentare (e della carne in particolare) genera da solo tra il 40 e 50% delle emissioni globali di gas serra. Pensiamo poi ai trasporti, all’edilizia, all’energia… Per ogni settore, in ogni parte della terrà sarebbe necessario calcolare i flussi di materie e di energie impegnati nei cicli produttivi e di consumo e pianificarne la loro riduzione; ricalcolare il “metabolismo sociale” (come dice Joan Martinez-Alier, L’ecologia dei poveri, Jaka Book, 2010) di ogni attività umana in funzione della sostenibilità ambientale e tenendo conto dell’equità sociale. Politiche ambientali e politiche sociali si devono sposare. Sono noti gli enormi squilibri nella produzione pro-capite di gas climalteranti tra i vari paesi del mondo e, al loro interno, tra le diverse classi sociali. Peggio ancora: nessuno calcola che in realtà la grande parte di emissioni di CO2 nelle “fabbriche del mondo” in Cina o India in realtà è dovuta alla produzione “delocalizzata” di merci che consumiamo in questo emisfero del pianeta e che quindi andrebbero correttamente addebitate a noi, non a loro (“emissioni per procura”). Vanno poi calcolati anche i debiti climatici accumulati dalle società del nord del mondo in secoli di saccheggio e di colonizzazione del sud.
A Cancun sappiamo già cosa (non) accadrà. Avremo la conferma che dall’alto, dai vertici, dalla governace mercatoria, nulla di buono può venire per i cittadini del mondo, per i commoners espropriati dall’uso dei beni comuni della terra: dopo il suolo, l’acqua e l’aria. Anche questa volta dovremmo cominciare dal basso, a “fare la rivoluzione” in casa nostra, a partire dal rivendicare piani energetici comunali che rispettino gli obiettivi di Kioto sul modello delle Transition Town, filiere agroalimentari corte, zero sprechi e zero rifiuti, acqua in caraffa, più piste ciclabili e aree pedonali, certificazioni delle abitazioni… insomma una vera e profonda riconversione ecologica dell’economia, degli stili di vita, delle istituzioni pubbliche.