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Rossana Rossanda
Venezia
20 Gennaio 2007
MoSE
Con questo articolo dedicato alla città dove visse da ragazza, la grande intellettuale della sinistra italiana conclude l’ampio dibattito sviluppato su il manifesto dal 20 novembre 2006 al 17 gennaio 2007. Con postilla

Con gli interventi pubblicati ieri si chiude, per quanto mi riguarda, la discussione aperta da un mio articolo su Venezia. Essa ha ribadito la divergenza fra le tesi, sostenute dal Consorzio Venezia Nuova e una serie di esperti, sulle paratie mobili alle bocche di porto (Mose), da poco approvate dal Ministero dei Trasporti, e quelle di chi vi è contrario, segnatamente la Assemblea NoMose, Rifondazione comunista, i Verdi, l'attuale amministrazione comunale. I materiali sono facilmente accessibili sui relativi siti.

Devo aggiungere che nessun mio articolo ha suscitato una così acerba contrarietà da parte di vecchi amici e compagni. Gira oggi per Venezia un foglio dell'Assemblea NoMose, o di chi per essa, che accusa coloro che non si oppongono al Mose, inclusa la sottoscritta, di essere pagati dal Consorzio. Sull'emotività di certo ambientalismo, sul quale si attesta a mo' di ultima spiaggia una parte della sinistra anticapitalista, converrà riflettere.

Avevo sollevato tre questioni che paiono connesse, prima fra tutte la precarietà di Venezia come insediamento cittadino, soggetto storico di lunga durata, forte di una idea di sé, un progetto dotato di una politica che lo persegue. Oggi Venezia ha un terzo degli abitanti che aveva quando vi vivevo. Nel dopoguerra erano 178.000, nel 1960 ancora 165.000, ne restano ora meno di 62.000, e di età media avanzata. Sui quali incombe un turismo che l'anno scorso ha contato 18 milioni di presenze: più di trecento volte tanto. Il complesso urbano più singolare e prezioso del mondo è diventato un gigantesco alloggio secondario, fatto di grandi alberghi e ristoranti di proprietà multinazionali e di affittacamere e trattorie minori, tutti esosi per chi vi mette piede o per gli studenti che vi devono soggiornare, mentre il nucleo residenziale si restringe come una lana mal lavata. Alcuni propongono di tassare i non residenti con un biglietto di ingresso - ma che altro è il già proibitivo prezzo dei trasporti? - specie le masse dei poveri, che passano «mordi e fuggi», non spendono e lasciano mucchi di rifiuti, mentre i ricchi lasciano quattrini.

Ma è l'inverso che va fatto: va rafforzato il nucleo residente. Rispetto a un insediamento stabile sempre più asfittico, ogni turismo diventa concrezione parassitaria. E' la città Venezia che va rivitalizzata, non il turismo che va impedito. Oggi, assieme alla fuga degli abitanti, è scomparso il tessuto riproduttivo di un agglomerato urbano normale. Ridotti i suoi negozi e i commerci e le relazioni stabili, è un'avventura cercare un negozio di frutta o una lavanderia. Venezia sta morendo. Auguravo lunga vita alle garzette, ma fra un paio di generazioni sarà più raro trovare un veneziano verace di quell'elegante uccello. Se non è questa la tragedia di un ecosistema, non so di che stiamo parlando.

Su questo punto nessuno ha risposto, salvo l'osservazione di Cesco Chinello sul tentativo, tardivo e fuori contesto, intrapreso dal fascismo degli anni Venti e Trenta (Volpi) di innestare malamente su Venezia il grande polo industriale di Porto Marghera.

Dico malamente perché basta guardare una mappa per rendersi conto di come esso agguanti per la coda, simile a una gigantesca chiave inglese, quel prodigioso pesciolino di pietre e mattoni che sorge dalla laguna. Mezzo secolo e già declinava, oggi è in gran parte spento, salvo una cantieristica più o meno appaltata a migranti. Anche noi difendemmo Porto Marghera per la sua gloriosa classe operaia, Cesco vi ha messo la vita e ha documentato come nessuno il sorgere, prendere coscienza e sparire della manodopera di fabbriche che sarebbero andate via via chiudendo quando anche non spandevano veleni o falciavano vite come il Petrolchimico. E' stato un processo parallelo al desertificarsi della città, che a sua volta non è dovuto solo alla devastante marea del 1966.

La domanda è che cosa doveva e poteva diventare l'ex repubblica marinara quando il suo ruolo veniva a fine, e dopo la parentesi militare dell'impero austroungarico, e infine con l'unità nazionale. La risposta doveva essere la premessa a qualsiasi intervento di «conservazione» della laguna e del suo comprensorio. Ma essa è mancata, sia sul piano nazionale sia su quello locale. Mi piacerebbe essere smentita.

A un futuro fordista dell'ex repubblica veneta hanno creduto ancora i diversi piani, statali e locali, seguiti al disastro del 1966, rimasti e perlopiù non realizzati, salvo l'intervento sul canale dei petroli (che a quel fragile tessuto urbano ed acquatico dovesse fare capo un polo petrolifero è stata una follia, col rischio, verificatosi ma sottaciuto alcuni anni fa, che una fuga da una tubatura coprisse di quel liquido malefico le pavimentazioni della città, a cominciare dalla basilica). E' questo vuoto che si sta precipitosamente pagando da meno di mezzo secolo a questa parte.

Davvero non c'era altra sorte per Venezia che diventare un polo produttivo fordista o un albergo diffuso? Era stato detto che no, che sarebbe cresciuta come un centro di ricerca. Ma dove sta in Italia, a fronte di un capitalismo avido quanto miope, una ricerca incentivata dallo stato e dagli enti locali? Venezia è come Napoli, via la fabbrica c'è il deserto. A Napoli tutto infiltrato da traffici camorristici, a Venezia lasciato a turisti, cioè gente di passaggio.

Penso solo a proposte che conoscevo: chiuso l'ospedale psichiatrico di San Servolo, che conservava le prime cartelle cliniche d'Europa, l'isola non doveva diventare, auspice Hrayr Terzian, l'Archivio internazionale della follia? Invece è stata in gran parte ceduta. Non dovevano essere centro di ricerca e incontri scientifici i Mulini Stucky dal curioso profilo nordico? E invece, opportunamente mandati in fiamme, diventeranno un albergo a cinque stelle. Tutto si perde per strada: la Marciana, ormai soffocata, non doveva andare ai Magazzini del Sale? La Fenice, che non è fra i più bei teatri d'Italia, andava rifatta tale e quale? Mah.

Intanto, scomparsi negozi e commerci che servono la normale riproduzione dell'esistenza, le librerie e i cinema, dilagano botteguzze di finte maschere, merletti e vetri fatti a Hong Kong dedicati ai turisti poveri e di bocca buona, mentre calle Larga San Marco è stata sconciata dalle grandi marche e uno stupidissimo emporio Ferrari occhieggia agli sciecchi subito dietro la Torre dell'orologio.

In verità, si parla tanto di produzione immateriale, ma una sua alta specie non ha trovato in Venezia il suo luogo d'elezione. Eppure quell'enorme complesso di storia, arte, architettura, scienza nautica, prima mondializzazione del commercio, ne sarebbe il luogo ideale. Un'attività di studio, elaborazione, produzione di sapere ne farebbe uno degli insediamenti più attraenti e invidiati del mondo.

A me pare che anche le misure di difesa delle e dalle acque restino accessorie a questa premessa. Invece sono, sotto la specie del Mose, il solo punto che eccita gli spiriti. Eppure è persuasiva l'argomentazione sviluppata dall'ingegner Andrea Rinaldo al convegno tenuto lo scorso novembre dall'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti: è in termini non di mera conservazione ma di interazione che va visto il rapporto fra ambiente «naturale» - neppure esso è immobile e in una laguna meno che mai - e l'insediamento umano che vi si colloca. A Venezia non si è trattato di adattare l'uomo all'ambiente, ma viceversa: è stata, direbbe Sloterdjik, una eccezionale «domesticazione» del terreno.

E le scelte sono state sempre in senso proprio «politiche», rispondenti a quel che la città voleva e poteva essere, a quanto era disposta a spendersi e fare. Rendendosi conto, più o meno, che c'era un limite nell'intervento, non semplice da definire neanche sotto il profilo scientifico. Per cui tutto il comprensorio lagunare - Venezia e le sue bellissime appendici, dalla vivente Chioggia alla spenta Torcello alle declinanti Murano e Burano - è il risultato secolare di misure sagge o avventate, di occasioni afferrate o perdute, di intuizioni preveggenti e di (mi scuso) cazzate.

Ma da quando la città si è azzittita come soggetto dotato di un presente e di un futuro per sé, riducendosi a passaggio di folle effimere, e quattrini di incerta destinazione, le scelte di fondo sono mancate e le vicende «naturali» sono incerte e minacciose. Soltanto un'idea forte di sé, e proiettata nel futuro, potrebbe sottostare sul serio a interventi che sennò restano dei frammenti di salvaguardia, ammesso che il termine sia ancora corretto. Ma questa idea forte dove sta? Non sono una competente, ma mi pare che se dopo l'inondazione del 1966 si dovevano affrontare interventi di ampio respiro (conservare o modificare il polo industriale, rispettare le priorità del lavoro ma riqualificandolo, dare sempre più posto alla navigabilità o procedere a una colmatura dei fondali, offrire o no un secondo ingresso in città dall'entroterra) nessuno di questi progetti è stato realizzato: tutto è stato lasciato a una lenta deriva e la gente se ne è fluita via.

Il vorace turismo e il richiamo di esposizioni (in verità sempre più approssimative, Biennale a parte) fungono da schermo alla realtà. Almeno si dicesse che Venezia non può essere che un museo con servizi turistici annessi, una Disneyland per colti.

E' su questo sfondo incerto che giudicherei gli interventi detti di salvaguardia, salvo quelli di vera e propria manutenzione, come la ripulitura dei canali, i rifacimenti e i rialzi di alcune fondamenta (più o meno rispettosi dei materiali originari), il rinsaldamento di alcuni dei murazzi a mare. Ma quelli più ambiziosi si possono misurare soltanto sul voler essere della città: penso alla proposta di spostare sul Lido tutti gli accessi via mare, che implicano la fine non solo di Marghera ma, credo, della Marittima.

La qualità maggiore del Mose mi sembra, paradossalmente, la precisione e il limite dei suoi intenti: proteggere Venezia dai più grandi afflussi delle maree, che il surriscaldamento del clima renderà più incombenti. E il suo minore impatto sullo scambio delle acque - la reversibilità dei flussi essendo nel suo dna. E infine l'essere un'opera di alta tecnologia, con una non enorme ma stabile e qualificata manodopera.

Un vecchio amico, Cristiano Gasparetto, mi rimprovera il danno che ne deriverebbe al profilo di una spiaggia vicina: ahimé, confesso che la priorità di un intelligente manufatto, dotato di funzione e senso, su uno scenario «naturale», non mi spaventa. Sono, mi accusa Pecoraro Scanio, una di vecchia cultura industriale. L'Olanda mi piace moltissimo.

Per ultimo, avanzavo la questione di metodo: chi decide e quando. Dico per ultimo, visto che mi pare di dover rimandare ogni scelta seria al futuro d'un insediamento che oggi è in precipitosa diminuzione. Anche quando un progetto ci fosse, c'è un tempo e ci sono delle regole per decidere.

La messa in atto del Mose non è stata disposta, diversamente da come ho letto in alcune lettere, fuori dai tempi, dalle istanze e dalle regole. Non ha fatto, a quanto pare, l'unanimità. Ma sul punto della correttezza, la verifica del ministro Di Pietro (da me non prediletto come magistrato) fa sicuramente testo. Di più, quando si trattava dell'affidamento delle opere della «salvaguardia» a quel Consorzio Venezia Nuova che oggi è il bersaglio principale dei «NoMose», non mi risulta che le forze politiche, cui i «NoMose» si richiamano, si siano battute risolutamente contro. Risultato, l'opera è messa in atto da alcuni anni, e da qui è giocoforza partire, anche per chi, a differenza di me, la considera negativa.

L'opposizione è il sale della democrazia e va esercitata in tempo utile, se non vuole essere solo fonte di malumori. Confesso di non capire la condotta ondivaga del Comune. Confesso di non vedere finora un'alternativa convincente. Ripeto, salvaguardia di Venezia in senso pieno non ci sarà se non iscritta nelle premesse di cui sopra. Tutto qui. Il resto è tecnica e calcolo dei costi, frammento più o meno discutibile, e in ogni caso fuori della mia portata.

Le valutazioni positive di Rossana Rossanda sul progetto MoSE di Venezia avevano aperto un dibattito molto ampio e ricco, nel quale le critiche sull'intervento del Consorzio Venezia Nuova, che da anni circolano semiclandestine in Laguna, erano state ripresentate da molti. Chi si aspettava che nel concludere il dibattito Rossanda intervenisse nel merito è rimasto deluso. Vuol dire che il dibattito riprenderà presto: tenendo conto che difficoltà di comunicazione con gli interlocutori ci devono essere, se ancora non si è riusciti a far comprendere a persone intelligenti e prive di paraocchi che il progetto MoSE non è mera tecnicità, ma è dannoso, rischioso, costoso per l’ambiente, negativo per l’economia, distorcente per la società. Per non parlare del dispregio della legalità, rispetto al quale Di Pietro non sembra un garante attendibile.

Sul Mose c’è una cartella molto ampia; vi segnalo in particolare un saggio scritto per cercar di spiegare che cos'è la Laguna (pochi lo sanno davvero, fuori), la relazione negativa della Commissione per la Valutazione d'impatto ambientale, e le critiche al Mose espresse nei documenti di Italia Nostra e negli eddytoriali dedicati a questo argomento. Ma per comprendere guardate anche le altre cartelle dedicate a Venezia: Terra, acqua e società, La metropolitana sublagunare, Vivere a Venezia.

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