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Francesco Erbani
Venezia salvata dalle acque
21 Agosto 2005
MoSE
Con un articolo sulla Laguna di Venezia Francesco Erbani conclude la serie di articoli sui paesaggi italiani, su Repubblica del 20 settembre 2003, dando voce (forse la prima volta) alle ragioni degli avversari del MoSE. In calce, un box che precisa “Le ragioni del MoSE”; certamente la prossima volta che il giornale fondato da Eugenio Scalfari parlerà dell’attività del Consorzio Venezia Nuova dedicherà un box anche alle “ragioni della Laguna”.

Non è frequente che un uomo del Sud, abituato agli orizzonti definiti da rocce e scogliere, si affezioni alla vastità senza confini di un paesaggio lagunare. Eppure Edoardo Salzano, napoletano, settantatré anni, urbanista, ex professore universitario e preside di Facoltà, vive da quasi trent’anni a Venezia e della laguna è appassionato. Ne è un custode perché a lungo l’ha studiata, a lungo ha affinato gli strumenti per tutelarla e per diffonderne la conoscenza. E a Venezia, di cui è stato anche assessore, alle sue isole, alla fauna e alla vegetazione della laguna, al suo disegno ramificato e venoso e alle minacce che gravano su di essa, è intitolata una delle sezioni più frequentate di un sito internet che ha aperto qualche tempo fa e che ormai è un repertorio ricchissimo di notizie, di commenti e di forum sul territorio, sul paesaggio e sull’urbanistica (l’indirizzo è www.eddyburg.it).

Agli occhi di Salzano la laguna è pregevole per le barene e per il gioco delle maree che le fa emergere e poi le sommerge. Per le isole maggiori (Murano, Burano, Torcello, San Francesco del deserto, Pellestrina, Sant’Erasmo), per il Lido o per le isole più piccole, sulle quali i veneziani costruivano conventi e lazzaretti e ci tenevano in quarantena le merci e i naviganti. Per le luci, che al tramonto salgono una scala che va dal rosa al rosso più intenso. Ma anche perché è un laboratorio. «È il risultato di un’applicazione intelligente dell’azione umana alla natura», spiega, «un’applicazione che usa strumenti come il tempo, il flusso delle maree, le fasi della luna. E che si serve di una costante manutenzione, costruendo assetti sempre diversi». Un caso esemplare, insomma. Modernissimo.

La laguna non è un elemento stabile. «È una fase transitoria, un momento di passaggio nel conflitto fra le acque che vengono dai fiumi, e che portano il limo, e le acque che vengono dal mare e che quel limo tendono a farlo uscire dal bacino. Se vince la forza dei fiumi la laguna diventa uno stagno, se vince la forza del mare, la laguna diventa mare». I veneziani volevano conservare la laguna per motivi economici. Serviva per costruire e per riparare le barche in acque tranquille. E con i suoi pesci, dava da mangiare.

«La Repubblica di Venezia ha mantenuto per secoli questo equilibrio. Giovanni Astengo, grande urbanista, citava sempre un canale detto "della scomenzera". Nel suo nome era iscritto un metodo: ogni volta che si "scomenzava", che si avviava un’opera in laguna, tutti osservavano gli effetti che si producevano. E solo se le conseguenze non erano dannose si andava avanti, altrimenti si ricominciava daccapo».

Da un certo momento in poi l’equilibrio è saltato. E il sintomo più appariscente di questa rottura è l’acqua alta, che, con particolari condizioni di clima, sommerge parte del centro storico di Venezia. La laguna ha mostrato un volto matrigno e ostile (terribile l’alluvione del 1966). Ma l’acqua alta non è una malattia che la città trascina con sé nei secoli, la patologia naturale con cui sconta la fragile convivenza fra le sue terre e il suo mare. L’acqua alta è una malattia storica, insiste Salzano. Fino al 1962 – sono dati forniti dal Consorzio Venezia Nuova, la cui mole di studi storici e di storia del territorio è imponente – l’acqua alta non era un fenomeno preoccupante: nel decennio che inizia nel 1953 sono 18 le volte in cui il livello della laguna supera i 110 centimetri. Dopo il ‘62 le inondazioni crescono vistosamente: 32 nel decennio fino al '72, 37 in quello successivo. Nel decennio 1993-2002 schizzano a 53.

Se è un problema storico e non dipende dalla fisiologia lagunare, l’acqua alta avrà pure delle cause. Una si trova nei libri di Luigi Scano, Venezia terre e acqua, scritto nel 1985, e di Piero Bevilacqua, Venezia e le acque, del 1995 (nuova edizione nel 1998). La storia inizia nel Cinquecento, quando Cristoforo Sabbadino, tecnico idraulico alle dipendenze della Repubblica, sostenne l’urgenza di una serie di interventi che restituissero alla laguna la sua massima capacità di funzione, evitando ogni opera che ne riducesse la capienza: il "sovracomun", come si chiamava l’acqua alta, non era dovuta – assicurava Sabbadino – all’"alciamento" del mare, bensì al restringimento del bacino causato dal sedimento lasciato dai fiumi che in essa sfociavano. Per questo motivo nei decenni successivi furono deviate le foci di molti fiumi fuori dalla laguna e rimossi tutti gli ostacoli che impedivano in essa l’ingresso e l’espansione dell’acqua. Misure rigorose, punizioni severissime vennero adottate contro chi interrava porzioni della superficie d’acqua per ricavarne terreni coltivabili o per arginature e bonifiche, o contro chi si azzardava a privatizzare dossi, barene e paludi per attrezzarvi una coltivazione di pesci.

«Venezia imparò a vivere in un ambiente vulnerabile. Accumulò sapienza e competenze, che divennero le basi della sua forza», ricorda Salzano. I suoi eroi erano tecnici idraulici, pescatori e boscaioli. E sui loro saperi si consolidò una classe dirigente che garantì alla città continuità di governo e ricchezza. «La condizione anfibia ha spinto Venezia ad attuare pratiche di salvaguardia naturale, senza strappi, pur ricorrendo alle "grandi opere" di quei tempi: la deviazione dei fiumi e la costruzione, nel 1744, dei Murazzi, una barriera di pietre che corre lungo il limite esterno della laguna».

Crollata, a fine Settecento, l’autonomia della Repubblica, Venezia imbocca un’altra strada. Nel corso dell’800 vennero interrati canali e rii nel centro storico, riducendo la capienza del bacino. Nel 1917, poi, iniziò l’avventura industriale di Porto Marghera che produsse tanti veleni, ma anche l’ulteriore interramento di altre porzioni di laguna. Secondo i calcoli di Scano, il bacino lagunare ha perso nei decenni 7 mila ettari, mentre altri 8 mila sono stati sottratti con gli sbarramenti delle valli da pesca: circa un terzo della sua superficie totale. Contemporaneamente si aumentava la profondità delle bocche di porto e si scavavano canali perché le navi potessero raggiungere il porto. A metà degli anni Sessanta, all’imboccatura di Malamocco, si arrivò fino a una quota di meno 57 metri per consentire alle petroliere di scaricare e caricare greggio nei depositi di Marghera.

Queste due condizioni - laguna più stretta, fondale più basso – sono sconvolgenti rispetto agli equilibri passati e accelerano l’ingresso del mare in laguna, spiega Salzano. E’ come se si aprisse un rubinetto al massimo e l’acqua finisse in un recipiente nel quale un burlone avesse sistemato tante pietre: l’acqua esce ed è così che Venezia finisce sotto.

Per contenere l’acqua alta si è avviato, alla fine degli anni Ottanta, il progetto del Mose (acronimo per Modulo sperimentale elettromeccanico), la cui prima pietra è stata posata da Silvio Berlusconi nel maggio scorso. Il Mose è un sistema di dighe mobili costruito alle bocche di porto del Lido, di Malamocco e di Chioggia. Sul fondale verrà sistemata una grande struttura in cemento sulla quale saranno montate delle paratoie. Le paratoie si innalzano quando il livello del mare supera i 110 centimetri, e restano erette tanto quanto dura il fenomeno e poi rientrano sul fondo.

Secondo i tecnici del Consorzio Venezia Nuova, il raggruppamento di imprese che ha messo a punto il progetto, l’uso delle paratoie sarà molto limitato. Si eleveranno, assicurano, fra le 3 e le 5 volte ogni anno: tante volte, infatti, l’acqua del mare ha superato mediamente negli ultimi anni il livello dei 110 centimetri (ma, informano le stesse fonti, nel solo dicembre 2002 si sono verificati 15 scavalcamenti di quella quota). Niente paura, giurano, per la vita della laguna che ha bisogno di un continuo riciclo d’acqua onde evitare di trasformarsi in un lago, il che ne certificherebbe la morte, e con la morte della laguna la morte di Venezia.

Salzano è un avversario del Mose (e con lui la gran parte del fronte ambientalista: Italia Nostra veneziana ha preparato un voluminoso dossier). Ai suoi occhi, a parte tante questioni tecniche, è un grande artificio che confligge con la storia di manutenzione naturale di cui Venezia può menar vanto. Ed è un’opera costosissima, aggiunge: 2 miliardi 300 milioni di euro per progettazione e realizzazione (3 miliardi 700 milioni, secondo altre fonti); 9 milioni di euro ogni anno per gestione e manutenzione. Inoltre, insiste, «non è detto che funzioni e con quei costi non possiamo permetterci una "grande opera" che non offra certezza assoluta di risultati» (Gli esami per il Mose iniziano a metà anni Novanta: voto favorevole di un collegio internazionale di esperti - luglio ‘98 - e della Regione - ottobre ‘98 -, voto negativo - dicembre ‘98 - da parte della Commissione Via, Valutazione di impatto ambientale, poi annullata dal Tar per vizio di forma).

La disputa sul Mose prosegue da anni, divide i tecnici e gli schieramenti politici (gli argomenti a suo favore vengono riassunti nel box qui accanto). Le dighe dovrebbero funzionare nel 2011. E fino ad allora Venezia dovrà comunque convivere con l’acqua alta. «Il cantiere avrà un impatto pesantissimo in laguna», aggiunge Salzano. «Sul fondale marino saranno sistemati enormi cordoni di calcestruzzo che interromperanno la continuità che sempre ha tenuto legata la laguna al mare aperto».

Un’alternativa vera al Mose non c’è. O almeno non c’è nulla di tecnologicamente così dirompente. L’alternativa rimanda a una diversa idea di Venezia, fonda le sue ragioni sulle cause dell’acqua alta, proponendosi di eliminarle o quantomeno di attutirne gli effetti. Già dalla prima giunta di Massimo Cacciari si sono avviate due operazioni (che proseguono ora con l’amministrazione di Paolo Costa): la pulizia e lo scavo dei rii, intasati da sedimenti e rifiuti e ormai otturati, per ripristinare la loro antica capienza e consentire all’acqua di espandersi con più agio; e l’innalzamento della superficie cittadina fino a una quota di 120 centimetri. Sono questi gli interventi di "cuci e scuci", come li chiama Salzano, di cui hanno bisogno Venezia e la laguna. Salzano cita il Laboratorio Grandi Masse del Cnr, secondo il quale queste e altre "piccole opere" (riapertura di parti di laguna occluse, rimodellamento dei fondali, ricostruzione del tessuto dei canali naturali, per esempio) potrebbero ridurre mediamente di 20-25 centimetri le punte massime di marea. «Ciò significherebbe», aggiunge Salzano, «che la frequenza delle acque alte si ridurrebbe a pochi giorni l’anno, così come è sempre stato da che Venezia è Venezia».

(4. Fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 23, il 28 agosto e l’11 settembre) La difesa

Le ragioni del Mose LA DIFESA del Mose si fonda su alcuni argomenti. Secondo i tecnici che lo stato realizzando, nel Novecento il suolo lagunare si è abbassato rispetto al livello del mare di oltre 23 centimetri. Ciò è dovuto alla crescita del livello del mare (eustatismo) e all’abbassamento del suolo (subsidenza). È questa, a detta degli stessi tecnici, la causa principale delle acque alte. Lo scavo del canale dei petroli è stato una delle cause del degrado della laguna, ma non avrebbe rilevanza sul fenomeno. Basti pensare, aggiungono, che quando vi fu l’alluvione del 1966 non era ancora stato scavato.

L’ipotesi che interventi come l’apertura delle valli da pesca e il "tombamento" del canale dei petroli possano ridurre i livelli di marea in laguna, secondo i tecnici del Mose, è stata sottoposta ad analisi. Ma i risultati avrebbero dimostrato che questi interventi non possono avere effetti sulle acque alte. Inoltre il sollevamento di intere parti di territorio non basta perché restano notevoli incertezze sia sui modi che sui risultati. Interventi di questo tipo, soprattutto, non sarebbero in grado di assicurare un sollevamento uniforme. Sono dunque improponibili in centri storici preziosi e fragili come quelli delle città lagunari.

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