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Alessandro Agostinelli
Venezia, il senso umido del guardare
20 Febbraio 2007
Vivere a Venezia
Si può scrivere di Venezia non solo per temi hard. Aiuta a comprendere anche lo sguardo leggero, sensibile e curioso, di chi cerca il bello nell’inconsueto. Come questo scritto, regalato a Stilos e a eddyburg.it. Al fondo, il solito mostro: il turismo “ormai avvinghiato alle fondamenta”

Quasi tutti gli scrittori che si avvicinano a Venezia scrivono che è indicibile, che è stata già raccontata da troppi, che i discorsi sulla città sono esauriti. Però ne parlano.

Con questo approccio sembra che Venezia sia come quel pilota di Formula Uno doppiato da tutti: se ne sta laggiù in fondo, gli altri lo sfiorano e salutano, perché lui ha un passo differente. È comunque in una posizione della pista altra, in una stravaganza del tempo, dalla quale tutti passano e se ne allontanano. Questo avviene per lo scrupolo di tanti scrittori che le si avvicinano con falsa modestia, amplificando i pericoli del raccontare.

Venezia, invece, è tutta un campiello, è tutta una chiacchiera, Venezia è da parlare più che mai, da raccontare in tutto e per tutto, qui, come dice un poeta, “la vita evolve secondo la logica del pettegolezzo”. È tutta un’intimea. Così si chiama la federa del guanciale in veneziano; così si dice di chi non si fa i fatti suoi e racconta a destra e a manca del prossimo suo, e anche di quello degli altri.

E se di Venezia ne hanno già parlato in troppi, chi se ne frega! Di cosa dovremmo parlare ancora? Delle villette a schiera del varesotto, o dello zen di Palermo? Parliamo di Venezia, che è meglio. Parliamone, prima che si arrivi all’anno della poesia di Anna Toscano: “venezia nel 2050/sarà una trave/sarà una ghianda/sarà un budello/con il mantello/una statua vacua/una gioconda errabonda/una luna piena/una pasta alla scogliera/una serenata ingrassata/una freccia stracciata/sarà una girandola ferma/una festa girovaga/una sveglia che non suona/una campana che non tuona/venezia nel 2050/sarà una finestra chiusa/una finestra aperta”.

Meglio parlare di Venezia, si diceva. Magari cercando i luoghi altri della città, un approccio laterale, come fa Predrag Matvejevic nel suo omaggio alla città lagunare, L’altra Venezia (Garzanti, 2003). Lo scrittore bosniaco parla con accuratezza dei fili d’erba tra le pietre e delle decorazioni murarie, cioè di due aspetti misconosciuti della città.

“La parietaria – scrive – detta anche erba muraiola proprio perché aderisce e si attacca ai muri e alle rocce, ci capita di vederla più spesso delle altre piante spontanee della stessa famiglia: lungo Rio Marin, alle Zattere, presso il Ponte Trevisan e sotto il Ponte della Maddalena, in Calle dei Ragusei, lungo Dorsoduro e ancora da qualche altra parte. Si attacca più che altrove ai ruderi, alle rovine. Si ignora in che modo e da dove nasca. Oltre all’umidità che penetra profondamente negli interstizi dai quali spunta, non ha quasi altro alimento o sostegno... Qui la muraiola è conosciuta anche sotto il nome di erba vetriola o viriola – perché messa in acqua calda, facilita la pulizia dei recipienti di vetro, perfino quelli delicati e preziosi di Murano... La tisana che una volta si otteneva facendo bollire i fiorellini della paritaria guariva il mal di gola... e infine la leggendaria triaca o teriaca, ritenuta un efficace rimedio contro svariati veleni. Dal suo nome, un tempo, le farmacie veneziane erano dette triacanti”.

E non mancano, nel libro, le descrizioni sulle vecchie pàtere, cioè le formelle, o sculture murarie, che stavano a indicare segni araldici minori, piccoli stemmi di famiglia, o insegne di vecchie associazioni sfasciate o di confraternite sciolte. In Calle delle Botteghe, sulla facciata di un’antica scuola di calzature, ce n’è una che rappresenta un’antica scarpa che sembra uscita da una commedia di Carlo Goldoni.

Vecchie formelle, glossario di una comunità minore, scolpite e applicate non certo da maestri d’arte di prim’ordine, ma da semplici muratori e tagliapietre.

Matvejevic parla di roba minima, di caratteristiche semplici, cose che la straordinarietà di Venezia e la sua posizione nel borsino del turismo mondiale faticano a mostrare. Lo scrittore parla dell’umidità e della ruggine, della marcescenza che avvolge ogni cosa. E parla anche di come nei tempi antichi si lavorò al respiro della città sull’acqua, ponendo la terracotta “in gran copia da un estremo all’altro della Laguna... I cocci hanno riempito e sostenuto le fondamenta, permettendo alle costruzioni di respirare e di resistere meglio”.

Ma Venezia non può accontentarsi di tali minimalia. Venezia è splendida splendente, e sa circuire l’occhio umano con abilità.

Non avevo mai riflettuto sul narcisismo delle città, su quante ti sbattano in faccia la loro forma fisica modellata nel tempo. Venezia me ne ha dato lo spunto e Venezia vince su tutte. Ma non basta. Soltanto Venezia è una città dallo sguardo doppio. La città si lascia guardare senza freno, certo. Ma c’è un di più. Chi la abita si guarda in faccia come in nessun altro posto. A Venezia non ci sono automobili, non c’è rumore di traffico, a Venezia si cammina veloce e i piedi faticano molto. Eppure, mai come qui la gente si butta gli occhi addosso, mette in atto una pratica del guardare che contempla curiosità e malizia, attrazione e distacco. Un gioco del biliardo che tra rinterzi, virtuosismi di stecca, e fruscii sul tappeto mette in mostra un infinità di tracciati del desiderio che, a volte, fanno girare la testa.

Io sono toscano. Non sono abituato ai giri di parole. Gli artifici mi fanno perdere la pazienza. Così, per non leggere con sufficienza e snobismo queste pratiche che ho scoperto da detective delle geografie letterarie, cercavo nei libri una pezza d’appoggio. E l’ho trovata. Ne parla Josif Brodksij, nel suo libro forse più immediato che è Fondamenta degli incurabili (Adelphi 1991), quando dice: “...Venezia è quel tipo di città dove lo straniero e l’indigeno sanno in anticipo di essere in mostra... Perché questa è la città dell’occhio: le altre facoltà vengono in seconda linea, e molto distanziate... lo scopo comune di tutte le cose, qui, è sempre lo stesso: farsi vedere”.

Il poeta insignito del Nobel, ha scritto libri ben più densi di questo veneziano, dato su commissione. E, tralasciando le pagine dove alligna il suo malcelato stato di costante “interesse” verso tutto ciò che ha l’aria di una femmina, che poi è il modo di allontanare le donne, sembra che anch’egli non sfugga al dovere di esaltare la bellezza di Venezia: “nessun egoista può fare il divo per molto tempo in mezzo a questo servizio di porcellana posato su un’acqua di cristallo, perché il fondale gli ruba la scena”. Sono d’accordo. Sempre che i maledetti piccioni non si mettano di traverso...

Ma qui non si parlerà del fondale (tanto meno dei piccioni), perché sarebbe come cercare di mettere a fuoco l’universo, cioè un’impresa impossibile.

Che a Venezia ci siano i leoni alati e piazza San Marco con la basilica, e Palazzo Ducale e il ponte dei Sospiri, e il caffè Florian come l’Harry’s Bar è cosa arcinota (pure il libro di Arrigo Cipriani dedicato al suo bar è una delle più belle storie che abbia letto sulla città).

Che Venezia ospiti la Salute, Palazzo Grassi e la Guggenheim, che ci siano la Mostra del Cinema e la Biennale di Arte e Architettura, e i dipinti di Tiziano, dei Bellini, di Giorgione, di Tintoretto e di Canaletto è nozione ordinaria.

Qui si cerca un percorso laterale. Qualcosa che al tempo stesso sappia raccontarci la città profonda e quella della superficie indigena, quella della quotidianità.

Per fare questo si devono attraversare forse molti anni andando e tornando da queste parti. Bisogna avere soldi per le scarpe, e voglia di camminare. Serve tempo per perdersi e per innamorarsi, dimenticare lavori, responsabilità e impegni e affondare dentro se stessi. Soltanto allora, quando avremmo perduto la nostra capacità di controllo sulle cose, potremo toccare le pietre e le forme architettoniche di questa città con i nostri occhi, potremo calare il nostro stato in una vacanza dell’anima al tempo forte e tenera.

Come forti e tenere sono le crepe sui muri della Biblioteca Querini-Stampalia. Lunghe crepe che tengono in bilico enormi quadri a olio con putti, cherubini e donne languide e svestite, rapite, profanate o tristi per la morte vicina. Lunghe crepe che raccordano con tenacia il soffitto al pavimento, in una energica dimostrazione del fatto che il tempo è spesso un segno estetico migliore del proprio restauro.

Qui dentro ci sono vecchi scaffali di libreria, tavoli e sedie ottocenteschi, dove ogni giorno si appostano centinaia di persone per studiare. Questo luogo è più animato e speciale della Biblioteca Marciana. Qui alla Querini-Stampalia c’è anche una caffetteria e un book-shop ben fornito di titoli di architettura e di testi su Venezia e la sua storia. Alcuni sono libri che possono aprire veri squarci sulla città. Penso ai lavori di Alberto Toso come Venezia Enigma e Misteri della laguna e racconti di streghe (Elzeviro, 2004, 2005), oppure alla simpatica guida di Guido Fuga e Lele Vianello, Corto Sconto, itinerari fantastici e nascosti di Corto Maltese a Venezia (Lizard edizioni, 1997), o al bel libro illustrato di Miroslav Sasek, Questa è Venezia (Rizzoli, 2006) che non è solo un libro per ragazzini.

Poi, in questo spazio, che è la reale biblioteca della città, si può venire a leggere fino a mezzanotte, che è decisamente un orario di grande civiltà. E ancora, di tanto in tanto, a mesi prestabiliti, viene organizzata una rassegna chiamata Raccontami una storia a cena, dove scrittori italiani che abbiano capacità affabulatorie, sono invitati a leggere o raccontare una loro storia inedita di fronte a un pubblico raccolto, in un’atmosfera conviviale. Sono già stati qui, tra gli altri, Tiziano Scarpa, Antonella Cilento, Marco Franzoso.

Proprio quando toccava a Roberto Bianchin raccontare la sua storia, siamo venuti qui con l’amico Gigi Scano, nel vecchio cortile, restaurato da Mario Botta e sottratto alla pioggia con un tetto di vetri da cui vedere il cielo del nordest. E – devo dire – abbiamo avuto fortuna già con l’aperitivo: ci hanno prenotato per quattro; noi siamo due; abbiamo quattro pinot, quindi beviamo due bicchieri a testa.

Per spiegare meglio. Prendete una grande scatola. Una scatola rettangolare. Un parallelepipedo col soffitto alto e metteteci dentro una ventina di tavoli. L’ambiente è di classe – non si fanno sconti allo stile a Venezia, tanto meno alla Querini-Stampalia. Mettete un leggio e un microfono a un angolo della stanza. Ecco fatto. Gli amici della Fondazione e chiunque abbia prenotato per tempo alla Caffetteria Barbarigo, assistono a un racconto di un’ora circa e poi cena tutti insieme. Un modo piuttosto serio di conoscere uno scrittore e certo un saggio di impegno e serietà da parte di quest’ultimo, quello di scrivere un testo appositamente per la serata, un racconto che il pubblico ascolta in esclusiva, prima che venga stampato per conto della Querini-Stampalia e venduto nel book-shop.

Zone franche come questa ce ne sono molte a Venezia. Sono luoghi nascosti, fuori dal giro consueto, come molte città trattengono al loro interno, in una sorta di pudore o di gelosia della propria natura. Perché chi ha a che fare con i grandi numeri difficilmente resta autentico, se non mantiene in sé un riserbo ulteriore. Lo diceva Elias Canetti che alla fine, una persona ha solo pochissimi modi di essere intimo e questo credo debba dare valore all’amore come allo splendore di ciò che non è evidente. Questi minori sono i percorsi da fare a Venezia, ma si incrociano soltanto con la costanza e qualche sbaglio. Pure vale la pena di muoversi in questa direzione.

Allora, forse, sarà possibile avvistare, come Brodskij, la straordinarietà della “luce invernale in questa città”, sempre che tale indugio non ci abbia reso impossibile l’impresa impervia di cenare fuori dopo le dieci, sempre che non ci abbia distolto la cacca di un piccione spruzzata a dovere sul giaccone appena uscito dal lavasecco.

Allora, forse, verso sera, traghettando sopra l’acqua, sulla gondola di San Tomà, imbacuccati dentro una sciarpa amica, se avremo la grazia di guardare verso ovest, quel bagliore rosa e celeste, scopriremo un affresco, un sentimento urbano, quasi un racconto di grande forza evocativa, che raccoglie, dal materiale umano affacciato là sopra, figure e forme che addensano paesaggi e malinconie, esistenze e fantasie.

Venezia è stata un’epoca, non solo una città, ed è una città d’acqua. I canali, i rii sono linee di contatto e di separazione che segnano la fisionomia di un territorio, dandogli respiro. In mezzo a questo respiro ci sono alcune sospensioni che armonizzano ancora meglio il ritmo: sono i ponti di questa città. Ponti che sono ceppi, condizione umana, stasi e attraversamento, bellezza del non essere, dolcezza nel ricordo di memorie altrui, voglia di nuovo e di sincerità.

Di solito attraversiamo i ponti nella calca giornaliera, ma se abbiamo coraggio Venezia ci aiuta. Guardando meglio, usando un punto di vista ricurvo, Venezia, nella sua diversità fisica, ci apre di fronte la consapevolezza che l’ordinarietà delle cose giornaliere, più che relegarci all’abitudine, ci imprigiona nella dimenticanza dei nostri sogni più profondi. Il vero misfatto di ogni vita non è la routine quotidiana, quanto la deviazione dal desiderio più intimo che ognuno di noi aveva di se stesso.

Ci aiuta Venezia a questo lavoro di rinascita dalla rimozione, perché il suo racconto urbano non è un urlo, né il disagio sommesso dei poeti intimisti. La sua direzione contempla l’attesa dell’alta marea che rigenera la laguna.

Dentro questa città si può figurare la salvezza con l’arrivo di qualcos’altro, dell’acqua e di altri residenti. Come tutti gli esseri umani cercano l’amore, cioè l’altro da sé, anche Venezia aspetta che arrivi qualcosa o qualcuno a travolgerla, a strapparla dalle sue catene che il borsino del turismo internazionale gli ha ormai avvinghiato alle fondamenta.

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