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Alberto Statera
"Venezia città abbandonata Benetton, batti un colpo"
30 Novembre 2005
MoSE
Per il sindaco-filosofo Cacciari, il problema di Venezia è trovare un mecenate e il MoSE non serve ma sarà fatto. Da la Repubblica del 29 novembre 2005

VENEZIA - «Dove sono i grandi mecenati, i Volpi, i Cini, gli Agnelli, o, almeno, per stare ad oggi, i Tronchetti Provera e i Benetton?» Massimo Cacciari, il più filosofo tra i politici e il più politico tra i filosofi, oscillante - come dice qualcuno - tra Marx e Nietzsche, lancia un grido di dolore e denuncia la mancanza di un mecenate, dopo la Finanziaria dei tagli agli enti locali che considera «l’ultima malefatta di Berlusconi».

Il taglio a Venezia affossa la salvaguardia, svuota le casse comunali, per puntare tutto sull’»opera di regime», il Mose, le dighe mobili che dovrebbero difendere la città dall’acqua alta, di cui il premier, dopo una diatriba ventennale, tra squilli di tromba, pose la prima pietra insieme al ministro Lunardi.

Sindaco Cacciari, è uno schiaffo alla miseria: possibile che una città come la sua, seduta su una miniera d’oro, si faccia dire dall’"Economist" che Venezia è il simbolo della decadenza dell’Italia, della "Dolce vita" perduta, e che un sindaco come lei, se permette dotato di rilevante autostima, abbia bisogno di un mecenate per sopravvivere?

«La città ha un livello di reddito reale secondo a poche altre, diciamo un miliardo di euro all’anno ufficiale derivante dal turismo, che piove su 25 mila addetti. Ma questi soldi sono dispersi in una miriade di piccole attività».

E allora? «Allora il Comune deve gestire una città di 80 mila abitanti, che in realtà col turismo ne ha 150 mila, senza ricavare alcun beneficio per la salvaguardia, la manutenzione, la pulizia. Sono solo costi».

Ma avete il casinò.

«Anche lì abbiamo una flessione del reddito, perché lo Stato ci fa una concorrenza spietata con giochi di tutti i tipi».

Per questo lei sente la necessità di un mecenate?

«Ci manca un interlocutore-leader. L’ultimo fu Raul Gardini, che è finito come è finito. Ci manca un grosso referente economico, finanziario, industriale, quello che per Torino fu Gianni Agnelli e che per Venezia furono Volpi e Cini».

Ma i tempi, sindaco, sono cambiati. Nessuno dà più niente per niente, in pura perdita, ammesso che sia mai accaduto.

«Prenda le fondazioni bancarie. Io vedo, per esempio, che la Cassamarca investe bei soldi su Treviso. Qui a Venezia la Fondazione della Cassa di risparmio è piccola, non ha una lira. Prenda Veltroni. Fa un festival del cinema e trova su subito 9 milioni di euro. A me ci vorrebbero 9 milioni di anni».

Teme la concorrenza cinematografica di Veltroni, finanziato da Regione, Camera di commercio e dal presidente di Capitalia Geronzi, ora che le hanno tagliato anche i fondi per la Biennale?

«Ma no, ne faccio una questione di crisi di classe dirigente. Il festival di Roma non è una minaccia, è una manifestazione popolare, non una mostra d’arte come la nostra. Da noi Truffaut, a Roma James Bond».

E allora il rimpianto per Volpi e Cini?

«Volpi e Cini nel bene e nel male. Le partecipazioni statali, alla fine, sono state un disastro, non hanno fatto crescere una classe economico-finanziario-industriale capace di affrontare le sfide di una città pazzesca. Ora forse qualcosa si muove con l’intervento dei privati su Marghera, l’aeroporto, il Lido, il palazzo del Cinema, l’Arsenale. Noi ce la mettiamo tutta, nonostante le penalizzazioni del governo, che ha eliminato ogni parvenza di autonomia, in onore forse alla pseudo-devolution di Bossi».

Dice che vi penalizzano perché siete politicamente disomogenei alla maggioranza di governo?

«Dico che al Mose hanno stragarantito una corsia preferenziale in modo che si pappi tutti i soldi della salvaguardia. Se la priorità del governo è quella, non si fa la salvaguardia».

Ha suscitato scandalo che lei abbia scritto una lettera di protesta bipartisan insieme al presidente forzista della Regione, Giancarlo Galan, che pure, diversamente da lei, al Mose è favorevole perché illustra le magnifiche sorti e progressive del governo Berlusconi.

«E perché? Il Mose è ormai un dato di fatto, anche perché è già costato un migliaio di miliardi di ex lire. Ma io dico che col Mose tutto il resto finisce in cavalleria».

E lei il Mose continua a vederlo come il fumo negli occhi?

«Non sono un ingegnere idraulico, ma non ci vuol molto a capire che se nell’arco di 30-40 anni il medio mare s’innalza di 40 centimetri, come dicono gli esperti, entro il secolo Venezia sarà comunque sommersa per quattro mesi l’anno. Stivaloni e sempre stivaloni. Allora che senso ha investire 8 mila miliardi di lire o quel che sarà in un’opera inutile entro una o due generazioni? Meglio allora il Ponte sullo stretto di Messina che, se mai si farà, durerà per secoli. E poi chi pagherà la manutenzione delle dighe che, sempre in lire, costerà 50-60 miliardi l’anno? Altro che la Finanziaria di quest’anno. Sarà sempre una guerra».

Quindi lei preferirebbe sollevare la città con iniezioni d’acqua o sollevando i palazzi con pali di ferro, calcestruzzo e martinetti?

«Voglio solo informare tutti i cittadini sui molti progetti alternativi. Rotterdam, con un problema analogo, ha fatto un concorso di idee. Così si fa in tutto il mondo. Non si va per progetti esecutivi».

Pensa che se il centrosinistra vincerà le elezioni sarà possibile una marcia indietro sul Mose?

«Non credo che il centrosinistra possa più stravincere. Il Cavaliere, stando fermo e senza colpo ferire, gli ha già inflitto una sconfitta di 3-4 punti. Quanto al Mose, deciderà il nuovo governo, io mi preoccupo del fatto che la salvaguardia di Venezia oggi non è più garantita».

Sindaco, se potesse scegliere il suo mecenate?

«Benetton».

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