il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2018. Il modo abile e spregiudicato in cui una potenza finanziaria si impadronisce di una città, di una regione e detta alcune importanti regole del paese. (a.b.)
“La società ha fatto un puro calcolo di investimento, dal quale si aspetta un ritorno, un beneficio”. I veneti avveduti sanno che questo principio, esposto dal direttore generale Giovanni Cantagalli nel 1995, si applica a tutte le attività della Benetton, a cominciare da quella cui Cantagalli si riferiva, investimenti immobiliari del gruppo a Venezia. Precisamente denunciate da un pamphlet di Paola Somma (Benettown, Corte del Fontego 2011), le speculazioni in Laguna hanno coinvolto i tre gangli vitali della città. La più antica (1992-97) coinvolgeva una vasta area di proprietà privata alle spalle di Piazza San Marco, nella ristrutturazione, a carattere prevalentemente alberghiero, erano previsti un cinema, un teatro e una libreria, ma i primi poi non si fecero e l’altra sopravvisse finché i locali non vennero affittati a Vuitton nel 2010. Le due più recenti invece hanno riguardato il patrimonio pubblico.
Si tratta del prezioso edificio del Fontego dei Tedeschi accanto al Ponte di Rialto, per anni sede delle Poste, e della stazione ferroviaria di Santa Lucia: il Fontego fu acquisito da Benetton nel 2008 per 53 milioni di euro, ed è stato trasformato in un megastore del lusso (ceduto in gestione nel 2013 per 110 milioni al gruppo Lvmh) secondo un progetto dell’archistar Rem Koolhaas, con tanto di rosse scale mobili interne e terrazza sul Canal Grande: tutte varianti prontamente approvate da una Soprintendenza compiacente e da un Comune supino.
La stazione è stata trasformata in un enorme centro commerciale: la superficie per ristorazione e negozi è aumentata da 2500 a 9000 metri quadri, secondo l’accordo del 2009 con Grandi Stazioni, dominata dal gruppo Benetton. Il tutto ai piedi del famigerato ponte di Calatrava e all’ombra dell’ex direzione compartimentale delle Ferrovie, comprata dagli stessi Benetton per 70 miliardi di lire nel 1999 e rivenduta sei anni dopo alla Regione Veneto (che vi alberga oggi i propri uffici) per 70 milioni di euro. Per non parlare dell’isola di San Clemente, acquistata dai Benetton e poi rivenduta subito dopo la trasformazione in albergo di lusso, o della partecipazione del gruppo nelle avventure speculative del Parco San Giuliano e del quadrante di Tessera. Tutte operazioni nate nell’alveo della missione di “privatizzare Venezia” (come recitava un profetico libro edito da Marsilio nel ‘95) portata avanti per anni dal sindaco Massimo Cacciari, allergico alla cultura “vetero-vincolista” e pronto a identificare proprio in Benetton l’imprenditore-guida, il mecenate di una città “proiettata nel futuro”. Il futuro – a posteriori – è quello di una città moribonda.
Al di là delle questioni estetiche o urbanistiche, la penetrazione del gruppo Benetton a Venezia ha seguito, nelle parole di Paola Somma, un iter che assomiglia a quello di cui oggi s’inizia a parlare in rapporto alle concessioni autostradali: “Ogni tappa della lunga contrattazione ha visto il prevalere delle richieste e delle pretese del privato; tale predominio si è trasformato da eccezione a regola di governo”. Il processo si è iscritto in quella mutazione genetica che – complici i rapporti con la politica e i salotti buoni da Generali a Mediobanca, e la prontezza nel rispondere ai governi (per esempio nella vicenda dei “capitani coraggiosi” di Alitalia) – ha trasformato il gruppo “da un’entità che operava su di un mercato competitivo in una, almeno parzialmente, legata al carro pubblico” (Vincenzo Comito); ma c’è da chiedersi se davvero, come sosteneva l’economista Francesco Giavazzi anni fa, questa evoluzione sia un sintomo di debolezza e di subalternità alle decisioni del governo centrale (come sulle tariffe), specialmente quando la si collochi in un contesto di aderenze bipartisan. Storicamente “progressisti” grazie alle provocatorie campagne di Oliviero Toscani e ai loro slogan di sostenibilità, ecologia, responsabilità sociale, pace e fratellanza, i Benetton hanno saputo mantenere buoni rapporti sul territorio anche con la Lega, nel 2010 hanno ideato – tramite la loro branca “artistica” di nome Fabrica – la campagna elettorale del candidato governatore Luca Zaia: talché le ultime scaramucce sul referendum per l’autonomia dell’ottobre 2017 (Luciano Benetton schierato contro, e Zaia a rimbrottarlo) o sulla recentissima pubblicità di Toscani con i migranti, molto sgradita al ministro Salvini, ma non realmente censurata dal governatore, scompaiono dinanzi a una comunanza d’intenti che passa per un posticcio recupero del mos maiorum (Zaia ha salutato con grande favore il “ritorno ai maglioni” annunciato dall’anziano patriarca Luciano nell’autunno scorso), e più concretamente, per una serie di cooperazioni e sponsorizzazioni; anche attraverso lo sci: Alessandro Benetton, marito di Deborah Compagnoni, è a capo del potente comitato organizzatore dei Mondiali di Cortina 2021. E siamo oggi in odore di Olimpiadi.
Le Olimpiadi i Benetton le conoscono bene, in quanto furono tra i principali fautori della candidatura di Venezia 2020 (degna erede di quella all’Expo 2000 voluta da Gianni De Michelis), poi fortunatamente naufragata. E tra una squadra di basket o di rugby in grado di vincere trofei, e una Fondazione culturale capace di ingaggiare una parte dell’intelligentsia accademica (la Storia del paesaggio, i Beni Culturali, la Storia del gioco, la Storia veneta), la famiglia ha saputo conquistarsi una centralità assoluta nel “modello veneto” a livello imprenditoriale e culturale, e ha saputo così occultare alcuni aspetti meno edificanti della propria ascesa, fatta anche di subappalti disinvolti dalla Sicilia al Pakistan, di decentramento della produzione e dei rischi, di inopinate delocalizzazioni, di rapporti poco amichevoli con i contoterzisti e i rivenditori monomarca. Di queste cose parla, con dovizia di esempi, Pericle Camuffo in United Business of Benetton (Stampalternativa 2008), un libro che racconta anche la fosca storia dell’espansione latifondistica del gruppo in Patagonia a spese del popolo Mapuche (chi oggi si sorprende dinanzi a certi comunicati di Atlantia dopo il crollo di Genova dovrebbe confrontare la protervia di altre note emesse dai Benetton in quella vicenda).
Ma la centralità non conosce confini, e vale anche nel senso più glocal, tra la spada e la tonaca: nell’antica Treviso, il vecchio colorato megastore degli United Colors ha presidiato per anni il fianco del Palazzo dei Trecento, antica sede del potere civile in Piazza dei Signori; e da pochi mesi gli headquarters della finanziaria Edizioni, che controlla tutte le attività del gruppo di Ponzano (comprese le concessioni autostradali), si sono trasferiti proprio davanti al Duomo, nell’edificio dell’ex tribunale, restaurato e riqualificato con tanto di galleria di arte contemporanea sul retro.