Nel caso di Varese, che a partire dalla fine degli anni ’60 ha cominciato, senza riferimento al concetto originale, a proporsi come città giardino e come rimedio alle patologie della vicina metropoli lombarda, si tratta più che altro di un’idea che è sfuggita di mano. Arrivandoci da Milano, percorrendo i 50 km dell’autostrada A8 o viaggiando su di un treno in partenza dalla stazione di Porta Garibaldi, Varese si presenta come parte della veduta di Bernardo Bellotto denominata “dalla Gazzada”, che ha sullo sfondo l’omonimo lago e la catena delle Alpi innevate dove spicca il Monte Rosa. Dentro questo spazio si intuisce il piano inclinato che dalla sponda lacustre sale fino ai 1200 metri del Campo dei Fiori, la montagna che sovrasta la città e di cui è parte. E’ da lì che conviene guardare Varese, dalla montagna progettata un secolo fa per fare da scenario al sogno turistico prealpino, con l’abetaia piantata apposta per sembrare alpina, il Grand Hotel e le ville liberty.
In basso la città si mostra con la sua iconografia classica: il borgo centrale ed il settecentesco il palazzo con parco del governatore della Lombardia austriaca, i borghi minori delle “castellanze” costruite sui colli circostanti, e, tutto attorno, le ville ed i loro sontuosi giardini, edificate prima dall’aristocrazia milanese e poi dalla borghesia industriale. Su questo mix di ingredienti è stata plasmata l’identità di Varese come città giardino, titolo del libro che nel 1968 ne propagandò l’idea. Non una qualsiasi città satellite di Milano, non il centro industriale che aveva cancellato l’agricoltura ed inquinato le acque. Varese era una città dotata di servizi per le necessità di una popolazione che avrebbe potuto essere il doppio dei suoi 75.000 abitanti, ben collegata alla metropoli ma lontana dal suo caos.
Tra gli spazi verdi dell’antico luogo di villeggiatura, tra un parco e l’altro delle ville costruite tra il XVIII e la prima metà del XX secolo, sulle superfici dell’agricoltura abbandonata stava nascendo una nuova città, dove si potevano trovare scuole di ogni ordine e grado, ospedali, grandi magazzini, cinema ed altri “loisirs”. Il piano regolatore del 1954 aveva previsto un sistema di viabilità tangenziale che doveva snellire il traffico di attraversamento del centro urbano e servire all’accessibilità degli altri settori della città. La residenza diventava la nuova vocazione di Varese: più che le industrie ora la città doveva attrarre gli industriali stanchi di respirare l’aria inquinata della metropoli e, allo stesso modo, la classe media dei pendolari, con il lavoro a Milano e la famiglia ad abitare nel verde. Non importava che la storia fosse stata un’altra, che già durante la prima metà del XIX secolo la città avesse cominciato a riempirsi di industrie, che il corso dell’Olona fosse un susseguirsi di fabbriche alcune delle quali, come la cartiera, già attive agli inizi dell’800, che le concerie ne avessero fatto uno dei fiumi più inquinati d’Italia, e che, grazie alle altre produzioni manifatturiere sparse in altri punti della città, Varese fosse diventata uno dei luoghi più industrializzati d’Italia.
Parallelamente all’industrializzazione c’era stata la breve stagione turistica, iniziata durante i primi anni del ‘900 con la costruzione delle tramvie e del sistema di funicolari che collegavano i grandi alberghi liberty ed il complesso monumentale e religioso del Sacro Monte alla città, a sua volta raggiungibile da Milano attraverso due distinte linee ferroviarie. Da quel momento, e fino alla fine degli anni ’30, Varese ed i suoi dintorni si riempirono di ville ed il paesaggio prese a riempirsi, come l’immaginaria Brianza sudamericana de “La cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda, "di ville! di villule!, di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di rustici delle ville”. La stagione turistica varesina finì con il diffondersi dell’auto privata e con la possibilità di raggiungere mete più lontane grazie alle autostrade, ma diventò il modello insediativo per l’idea di città giardino apparsa sul finire del boom economico e della sua ubriacatura edilizia.
Negli anni ’50 vi era stato il tempo per la modernizzazione a tappe forzate, quando, la città aveva cancellato le tramvie, dismesso le funicolari, abbattuto il suo teatro settecentesco e dato vita alla più classica delle speculazioni edilizie. Tristi paesaggi urbani si palesarono anche a Varese e qualche angolo della città rischiò di diventare, secondo un articolo pubblicato nel 1959 da un periodico locale, “una qualsiasi Bovisa o giù di lì”. Tra il 1947 ed il 1976 furono costruiti i quartieri dell’edilizia popolare, un paio dei quali stigmatizzati come ghetti urbani. L’idea di città giardino si opponeva tanto ai “casermoni” costruiti dagli speculatori quanto alle concentrazioni di alloctoni nei quartieri popolari, dove avevano preso vita comunità separate in base alle provenienze regionali.
Gli “Attila del cemento” che, prima dell’introduzione degli standard urbanistici avevano ispirato un PRG da 700.000 abitanti, più che combattuti, andavano blanditi con la possibilità di costruire a bassa densità sui terreni abbandonati dall’agricoltura, sottraendoli così alla minaccia di esproprio per l’edilizia popolare. Il modello di città giardino dei probabili ispiratori del libro del 1968, probabilmente i promotori della varesinità dell’associazione per la difesa delle tradizioni locali “Famiglia Bosina”, si basava sullo scenario di crescita demografica del periodo industriale, peraltro superabile per mezzo della semplice sostituzione con il settore terziario. C’erano le banche, le assicurazioni, il commercio e le attività di servizio alla residenza ed alla persona a sostenere l’economia della città. Si profilava una finanziarizzazione dell’economia che avrebbe spostato altrove i problemi della produzione industriale, in primo luogo l’inquinamento che aveva quasi ucciso il lago di Varese e reso l’acqua dell’Olona un liquido maleodorante dal colore mutevole. La deindustrializzazione effettivamente arrivò, lasciò in città e lungo l’Olona gli scheletri delle fabbriche dismesse ed arrestò la crescita demografica che dal secondo dopoguerra era stata imponente.
In trent’anni dal 1951 la popolazione era cresciuta del 70% e nel 1981 aveva superato i 90.000 abitanti, ma nel 1991 per la prima volta la tendenza si invertì e la città perse 5000 abitanti. Appena fuori dai confini comunali, in un raggio di 10 km dal centro cittadino, stava prendendo forma una città più grande, dove vivevano 100.000 persone. Dieci anni dopo la città perdeva ancora 5000 abitanti mentre il suburbio ne guadagnava 5000. Oggi i varesini sono circa 82000, grazie soprattutto all’apporto dell’immigrazione straniera che rappresenta il 12% della popolazione totale, ma il suburbio ha più di 120.000 abitanti. Varese ha una superficie pari ad un terzo della sua area urbana ed il 40% dei suoi abitanti. Secondo uno studio promosso nel 2001 dal Rotary, è necessario avere “consapevolezza della nuova consistenza/dispersione della città reale”; bisogna prendere coscienza del fatto che Varese è una “città-territorio”, dove i centri storici non esercitano più nessun condizionamento, le aree periferiche sono l’elemento di saldatura di territori comunali nei quali nessuno più si identifica, dove svanisce il senso di appartenenza e la residenza è indifferente al luogo.
Nel 1999 il Comune di Varese, attraverso la sua associazione “Varese Europea”, decise di dar vita alla redazione del Piano Strategico dell’Area Varesina, strumento finalizzato “ad individuare percorsi di sviluppo in grado di aumentare innanzitutto l'attrattività e l'accessibilità” dell’area urbana di Varese. Quest’ultima, pur senza una perimetrazione esatta, veniva riconosciuta come “un unico sistema economico, territoriale ed ambientale, comprendente un ambito di espansione residenziale, produttiva e commerciale continuo e dinamiche socio-economiche relativamente omogenee”. E’ la presa d’atto della dispersione della città al di là dei suoi limiti amministrativi.
L’idea di Varese città giardino sembra essere sta introiettata, anche se non esplicitamente, dal PRG entrato in vigore nel 2000, che prevede misure di preservazione di quelle fasce di agricoltura periurbana che costituiscono una sorta di discontinua cintura verde assimilabile a quella presente nell’idea originaria di città giardino. Tre anni dopo però l’amministrazione comunale mette in discussione le scelte del piano adottando il Documento d’Inquadramento per i Programmi Integrati d’Intervento. In esso si afferma che il PRG ha senz’altro favorito il recupero del patrimonio edilizio esistente ma, limitando le nuove edificazioni, ha contribuito all’innalzamento dei valori immobiliari delle poche aree residue.
L’aspetto più fallimentare del piano sono le zone di riqualificazione e trasformazione, che di fatto avrebbero dovuto costituire il motore per l’attuazione del PRG e che riguardano anche gli ambiti produttivi dismessi, sulle quali hanno avuto maggiore applicazione i più flessibili Programmi Integrati d’Intervento cui si riferisce il documento del 2003. La Varese da rilanciare, con questo tipo di piani attuativi basati sulla “sinergia” tra pubblico e privato, è però ancora la città giardino e la strategia per farlo consiste nel riscoprirne l’antica vocazione turistica. Tuttavia il vero obiettivo è “contrastare il costante fenomeno di espulsione dal territorio comunale generando anche attrattività per attività che abbiano i requisiti e la necessità di localizzarsi al limitare di un importante conurbazione come è la nostra città”. Varese città giardino quindi non è che lo slogan pubblicitario per attrarre un fantomatico turismo veicolato da Malpensa e dalla vicinanza con il Lago Maggiore mentre il problema da risolvere, lo svuotamento della città da parte della sua area urbana, richiede una visione di area vasta che il documento del 2003 non ha.
La vocazione turistica di Varese ha mostrato tutta la sua debolezza durante i mondiali di ciclismo del 2008, quando la città si è svuotata dei suoi abitanti, i turisti non sono arrivati ed i commercianti hanno perso il 30% del loro usuale giro d’affari. L’amministrazione comunale, che dal 2006 è impegnata senza esito nella redazione del Piano di Governo del Territorio, scommette ancora su l’idea di Varese città giardino per il proprio settore di promozione turistica anche se i risultati consiglierebbero di cambiare strategia. E’ dei giorni scorsi la notizia della chiusura di un certo numero di alberghi della città e dell’enorme passivo accumulato dall’esercizio di una delle funicolari, rimessa in funzione qualche anno fa per collegare il Sacro Monte che nel frattempo è diventato un sito UNESCO insieme agli altri sacri monti prealpini. Evidentemente la realtà è cosa ben diversa dalla propaganda.
Sull’antica piazza del mercato della città, scempiata da un intervento di riqualificazione di fine degli anni ’80 con il quale è stato costruito un centro commerciale, sono apparsi qualche giorno fa una ruota panoramica ed un piccolo luna park, come a ricordarci che tra Varese ed il suo suburbio le differenze si stanno assottigliando. L’altro lato della piazza, sul quale cade a pezzi una vecchia caserma dismessa da decenni, attende di essere riqualificato a sua volta.