Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2017 (p.d.)
Siamo nel grande subbuglio americano. Adesso che Donald Trump si è voluto intromettere nella montante diatriba tra suprematisti bianchi e attivisti antirazzisti, coi suoi provocatori commenti e con la sua iper-provocatoria equidistanza dalle parti, la questione è divenuta di portata nazionale, con echi internazionali. Come se davvero solo ora, fuori tempo massimo, gli americani scoprissero la contrapposizione frontale destra-sinistra che in altri luoghi del dibattito politico è superata e archiviata.
L’oggetto del contendere non sfiora nemmeno la cosa sociale, né mette in discussione i principi del capitalismo americano e della piramidale distribuzione delle ricchezze. Il conflitto è interamente abbarbicato all’idea di razza, alle interpretazioni di diritto, sopraffazione e risarcimento, e a quel proposito di “salvare la vecchia America” su cui questo presidente ha trasformato un’incerta campagna elettorale in un prodigio. Questo confronto sempre più acre, acuito dalla partecipazione della traballante amministrazione-Trump, dimostra ancora una volta che la questione della razza in America non solo non è risolta, ma nemmeno anestetizzata. E che gli incidenti a sfondo razziale che hanno punteggiato l’ultimo biennio dell’amministrazione Obama, in particolare quelli che hanno messo sul banco degli accusati le forze di Polizia e il loro rapporto con la comunità afroamericana, erano solo il battistrada di un fronteggiamento che adesso sta scalando rapidamente i gradi del conflitto sociale.
Non è più questione di esplosioni ingiustificate di violenza a sfondo razzistico a opera di agenti indottrinati a produrre distinguo anticostituzionali nello svolgimento delle loro mansioni. A impadronirsi dello scontro è la piazza e le fazioni contrapposte di due visioni incompatibili dell’America d’oggi. Un’America autoprotezionistica, razzista e “chiusa” e un’America progressista e “aperta”, ora dai tratti insolitamente belligeranti. L’insofferenza tra le due parti è divenuta altissima e sono bastati pretesti, come il procedimento di rimozione di statue dei combattenti confederati nella Guerra Civile, per stabilire un’atmosfera di scontro sociale che aggrava il senso d’impotenza di cui l’America della politica ufficiale si sente investita. Quale degli eletti a Washington ha vere chances di parlare agli americani in turbolenza, con l’opportunità d’essere ascoltato? Esistono leader acclarati, in ciò che resta dei due grandi partiti?
Trump ha cominciato a etichettare quei dimostranti antirazzisti come membri di una frangia “alt-left”, parte di una sinistra alternativa fuori dagli schemi della politica tradizionale. Altrettanto, i “fascisti” presentatisi a Chalottesville, città della venerabile Università della Virginia, con torce e bastoni per urlare che l’America deve restare bianca, dai media vengono etichettati come “alt-right”, destra alternativa. Due “non appartenenze” politiche, due tribù aliene, che accendono uno scontro da cui la Washington del Congresso si sente estranea e nel quale non vorrebbe sporcarsi le mani. Ma nel quale, invece, un presidente in delirio ha preso ad affondare le mani, sull’onda del suo protagonismo. È spuntato il tono derisorio e paternalistico dei suoi tweet, i suoi ammiccamenti all’area grigia del razzismo e infine le lodi pronunciate da David Duke, vecchio leader del Ku Klux Klan, per la sua onestà e il suo coraggio.
È uno scenario di caos: un presidente instabile, disinformato, divisivo; un Congresso immobilizzato in un’impotenza votata solo al contenimento dei danni; uno slancio partecipativo popolare che percepisce questa situazione d’emergenza come un risveglio in cui schierarsi da una parte o dall’altra. Una destra estrema che prova a compattare i mille gruppuscoli locali e la crescente insofferenza di chi assiste a questo smantellamento dell’etica americana - non ultimo il drappello di Ceo delle corporation, ritiratisi precipitosamente dal comitato di consultazione attivato dagli amministratori economici di Trump.
La sensazione d’emergenza sale: l’America deve verificare i propri principi fondatvi, se un presidente ammicca a chi scende in piazza per rilanciare la questione che la stessa America bianca ha generato, allorché ha letteralmente inventato il problema della razza. Destra e sinistra alternative ora sono schierate per riesaminare l’interrogativo originale: cos’è l’America? Una repubblica multirazziale o un sistema maschilista, nel quale solo i bianchi hanno diritto a piena cittadinanza? Riaffiora la vecchia narrativa connessa al mito dell’innocenza e falsamente simboleggiata proprio da quelle icone confederate che gli scalmanati separatisti - e un benevolo presidente - provano a difendere. In questo scenario, venerdì è arrivata la cacciata di Stephen Bannon, stratega della campagna di Trump e architetto della sua visione, nella quale ha istillato i principi da ras dell’ultradestra e lo spregiudicato uso delle fake news di cui era l’orchestratore. Trump lo sacrifica a chi gli chiede un gesto di ragionevolezza. Inutile dire che l’immediato riposizionamento di Bannon sarà alla testa di quelle milizie della alt-right che puntano a destabilizzare la nazione. Almeno fin quando la crisi non finirà per sommergere la Casa Bianca.