Ancora sul silenzio assenso dello Stato riguardo, stavolta, all’appropriazione della Regione Toscana dei principi fondamentali in materia di governo del territorio (Spunto di riflessione sulla perdurante prassi regionale di non-approvazione degli strumenti urbanistici dei Comuni)
Con questo scritto, al pari di altri, voglio partecipare il mio pensiero sull’esistenza, riguardo alla materia urbanistica, di due Costituzioni: quella formalmente approvata e quella quotidiana “mercanteggiata” con i comportamenti di rappresentati regionali dei cittadini e di coloro – in sede statale – che sono istituzionalmente chiamati a vigilarne il rispetto.
Per comprendere in appieno quanto di seguito esposto, occorre riportare, come premessa, l’incipit della Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici – Divisione Generale dell’Urbanistica – Div. 23^, n. 3210 del 28 ottobre 1967 – “Istruzioni per l’applicazione della legge 6 agosto 1967, n. 765, recante modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150.”.
«La legge 6-8-1967, n.765, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 31-8-1967, n.218, ed entrata in vigore il giorno successivo a tale pubblicazione - cioè l'1 settembre 1967 - è intesa essenzialmente a sollecitare la formazione ed approvazione degli strumenti urbanistici comunali, ad assicurare che tali strumenti siano formati in modo rispondente all'interesse generale ed a garantire il rispetto della normativa urbanistica, che sinora è stata largamente e frequentemente violata.
«Come vedesi, la nuova legge si propone di agire, in maniera determinante, sulle componenti causali del disordine urbanistico, che possono così sintetizzarsi:
- la carenza di regolamentazione urbanistica;
- la frequente non rispondenza degli strumenti ai criteri di una sana e corretta disciplina del territorio, soprattutto per quanto riguarda la densità, gli indici di utilizzazione edilizia e la dotazione di spazi e servizi pubblici;
- e infine la generale inosservanza della normativa esistente.
Per raggiungere le finalità suindicate la legge prevede essenzialmente:
- la fissazione di termini perentori per gli adempimenti di competenza comunale;
- l'esercizio dei poteri sostitutivi degli organi statali nel caso di inadempienza del comune, perdurante anche dopo l'invito a provvedere rivolto dal prefetto al consiglio comunale;
- la disciplina dei poteri dell'amministrazione statale di introdurre modifiche di ufficio nei progetti comunali, con la rigorosa determinazione dei limiti di tali poteri;
- la regolamentazione delle lottizzazioni a scopo edificatorio, che vengono ad assumere il carattere di strumenti di attuazione dei piani regolatori generali;
- la determinazione ope legis di essenziali norme di salvaguardia (limiti di volume, di altezza, di densità fondiaria, ecc.) da osservare fino all'approvazione dei piani regolatori generali o dei programmi di fabbricazione;
- la determinazione di limiti e rapporti - da parte del Ministero dei lavori pubblici di concerto con i Ministeri competenti - per assicurare densità, spazi e servizi pubblici nell'ambito di una razionale sistemazione del territorio comunale, in misura adeguata alle esigenze urbanistiche, igieniche e sociali degli insediamenti umani;
- la limitazione dei poteri comunali di deroga soltanto agli edifici ed impianti pubblici e di pubblico interesse;
- una più efficiente articolazione dei poteri sostitutivi e repressivi dell'autorità statale nei confronti delle costruzioni abusive ed illegittime;
- il potenziamento delle sanzioni penali ed amministrative, nonché la previsione di sanzioni pecuniarie e fiscali a carico dei trasgressori.
«La nuova legge, nota ormai come legge urbanistica-ponte, comporta un notevole impegno di pubblici poteri - soprattutto a livello degli enti locali - al quale occorre far fronte con tutti i mezzi disponibili e con la decisa volontà di superare la situazione di "lassismo" nella formazione degli strumenti urbanistici, che tanti danni di carattere sociale, culturale ed economico ha arrecato finora all'assetto ed allo sviluppo delle nostre città.
«E' importante sottolineare che la legge nelle sue finalità è intesa non ad ostacolare ma ad agevolare lo sviluppo dell'attività edilizia, anche in relazione alle previsioni del programma economico nazionale ed alla necessità di predisporre le condizioni indispensabili per l'attuazione degli obiettivi di sviluppo indicati dal piano, che riguardano tanto la edilizia abitativa quanto quella di carattere sociale e le opere infrastrutturali.
«Pertanto, una corretta applicazione della legge presuppone, soprattutto da parte delle amministrazioni comunali, una interpretazione che, in considerazione degli aspetti sociali ed economici dell'attività costruttiva, ne agevoli lo svolgimento nel rigoroso ambito di una razionale impostazione urbanistica dell'espansione dei centri abitati e, più in generale, dell'assetto del territorio. (…).».
Al fine di superare il disordine urbano, lo Stato adottò il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 rubricato “Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, aisensi dell'art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765.”.
La prescrizione di reperimento di spazi pubblici in relazione agli abitanti insediati o da insediare nonché alle attività produttive fu subito osteggiata (e tale atteggiamento rimane ancor oggi analizzando le proposte di revisione della Legge Urbanistica) da “illuminati” docenti universitari che dall’alto della loro autorevolezza, spesso riconosciuta solo dal mondo accademico o elitario in cui sono soliti operare, criticano la fissazione degli standard poiché impediscono, a detta loro, modelli di città moderni.
A mio sommesso avviso, ben pochi riescono a vedere nel D.M. n. 1444/68 il non plus ultra della coniugazione di interessi – alle varie scale – di perequazione urbanistica e di tutela del paesaggio, senza che venga “espropriata” la funzione pianificatoria riconosciuta ai Comuni fin dall’istituzione del Regno d’Italia.
Una coniugazione che, se effettivamente rispettata, non lascia alcun margine di spazio a fenomeni di corruttela per la trasformazione di terreni in aree edificabili con operazioni spesso finalizzate al riciclaggio di denari di dubbia provenienza.
Il rispetto di tale coniugazione passa obbligatoriamente:
-da una ricognizione oggettiva dei vari tipi di zone territoriali omogenee;
- dal censimento del patrimonio edilizio esistente (compreso quello abusivo, come insegna la sentenza n. 3/2009 del Consiglio di Stato, Ad. Plenaria);
- dalla fissazione obbligatoria degli indici di densità territoriale, quale base della disciplina perequativa per la distribuzione degli effetti benefici della trasformazione territoriale;
- dal censimento degli effettivi spazi pubblici (verde e parcheggi pubblici, attrezzature di urbanizzazione secondaria) costituenti standard;
- dalla previsione e conseguente obbligo di realizzazione degli standard;
- dalla formulazione e rispetto dei programmi pluriennali di attuazione (art. 13 della Legge n. 10/1977).
Per apportare un contributo a distanza all’interrogativo posto dal Prof. Paolo Urbani che recentemente ha aperto il forum “Urbanistica e concussione: una possibile soluzione?” (sul proprio sito www.pausania.it), vengo a dire che sono della convinzione che se tali punti venissero effettivamente rispettati gli strumenti urbanistici non sarebbero più il luogo di azioni criminose.
Da studi conoscitivi della Magistratura inquirente è emerso che il territorio della Toscana è divenuto, negli ultimi dieci anni e forse più, particolarmente attrattivo per gli interessi della criminalità organizzata, sempre più desiderosa di valorizzare i proventi di attività illecite in operazioni immobiliari di trasformazione urbanistica in una cornice paesaggistica universalmente riconosciuta di particolare pregio.
Provo a dare una ipotesi di lettura su alcune concause che possono aver determinato un tale interessamento delle organizzazioni criminali, in particolare sul ruolo (spero inconsapevole) che può aver avuto la legislazione toscana in materia di governo del territorio, o meglio l’applicazione di tale normativa.
Correva l’anno 1995 e la Regione Toscana approvava la Legge 16 gennaio 1995, n. 5 con la quale eliminava l’approvazione del Piano Regolatore Generale comunale da parte della Regione nonché abrogava le vigenti leggi regionali in tema di programma pluriennale di attuazione. Il Governo della Repubblica era presieduto dall’On. Lanfranco Dini, subentrato al 1° governo Berlusconi. Il Presidente del Consiglio dei Ministri non impugnò la legge regionale innanzi alla Corte Costituzionale.
Successivamente, la Regione Toscana ha approvato la Legge 3 gennaio 2005, n. 1 con la quale, in maniera equivoca (tanto che i Comuni continuano a comportarsi come in vigenza della legge n. 5/1995), reintroduce l’obbligo dell’approvazione della sola parte operativa del P.R.G. da parte dei Comuni (combinato disposto degli artt. 7 e 10 della l.r.t. n. 1/2005), senza niente disporre – per legge – in tema di programmi pluriennali di attuazione. Il Governo della Repubblica, all’epoca dell’approvazione, era presieduto dall’On. Silvio Berlusconi.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri non impugnò la legge regionale innanzi alla Corte Costituzionale riguardo all’assenza della previsione legislativa di approvazione della parte strutturale dei P.R.G. da parte della regione nonché riguardo all’assenza di disposizioni in tema di programma pluriennale di attuazione.
Orbene, come gli operatori del settore ben sanno, il potere-dovere di approvazione dei piani regolatori era riservato, inizialmente, allo Stato. Solamente con il D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8, rubricato “Trasferimento alle regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di urbanistica e di viabilità, acquedotti e lavori pubblici (…)” lo Stato ha trasferito alla Regione Toscana il potere-dovere di approvazione (per quanto qui interessa):
- dei piani territoriali di coordinamento previsti dall'art. 5 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni;
- dei piani regolatori generali; l'autorizzazione e la approvazione delle relative varianti, ivi comprese quelle soggette a procedimento speciale in quanto connesse agli insediamenti scolastici, universitari ed ospedalieri;
- la fissazione dei termini per la formazione dei piani particolareggiati, l'approvazione dei medesimi e delle relative varianti; l'adozione di misure per la compilazione dei piani stessi in sostituzione di quelli rimasti inattuati in tutto o in parte;
- l'approvazione dei regolamenti edilizi comunali e dei programmi di fabbricazione;
- il nulla-osta all'autorizzazione comunale dei piani di lottizzazione.
In base al combinato disposto dell’articolo 10 della Legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii. e dell’articolo 6 del D.M. n. 1444/68, la Regione ha l’obbligo di assicurare il rispetto degli standard minimi di qualità urbana prescritti dal decreto medesimo. Tale funzione propria è garantita dalla Legge Urbanistica con l’atto approvativo.
Così si è espressa recentemente la giurisprudenza amministrativa: La scelta di dimensionare e di allocare i servizi resta una scelta che rientra nella discrezionalità del pianificatore, in quanto tale discrezionalità deve rispettare gli standard minimi che sono previsti dalla normativa di riferimento, ma che – posto che maggiori servizi significano maggiore qualità della vita per i residenti dell’area in cui essi sono allocati – può portare il pianificatore comunale a decidere di garantire alla comunità locale anche una qualità della vita superiore a quella minima che deve essere garantita dal D.M. 2 aprile 1968 (che parla di dotazione “minima” di servizi, ma non prevede limiti massimi).” (TAR Lombardia, Brescia, n. 622/2011).
E’ evidente che il livello minimale di standard previsto dal D.M. n.1444/68 è ascrivibile alla competenza legislativa esclusiva dello Stato non solo riguardo alla formulazione dei principi fondamentali in materia di governo del territorio, ma anche riguardo alla materia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale [art. 117, comma secondo, lettera s) della Costituzione].
Invero, non si comprenderebbe – diversamente – quale sia il giusto motivo per il quale un Cittadino italiano debba vedere mutare il proprio livello di vita qualora decida di spostarsi da una città all’altra del territorio nazionale.
La determinazione degli standard urbanistici, come detto, passa obbligatoriamente da un’anagrafe edilizia del patrimonio esistente (vedasi sentenza n. 3-2009 del Consiglio di Stato, Ad. Plenaria) e pertanto la Regione, per doversi esprimere al fine di assicurare il rispetto degli standard minimali, non può che vagliare anche il censimento del patrimonio immobiliare che deve essere necessariamente contenuto negli strumenti urbanistici generali.
Poiché la Regione Toscana – nonostante le dichiarazioni di principio sbandierate urbi et orbi, ad ogni pié sospinto, di eccellenza della propria azione amministrativa in tema di governo del territorio – non ha mai obbligato i Comuni a istituire una banca dati del patrimonio edilizio esistente, ecco che in occasione del recepimento delle direttive ambientali sullo sviluppo sostenibile ha unilateralmente eliminato dalla propria legislazione l’obbligo dell’approvazione regionale sugli strumenti urbanistici ottenendo l’effetto di non poter essere chiamata in causa per le trasformazioni urbanistiche comunali che non avevano (e continuano a non avere) alcuna dimostrazione in ordine al rispetto del principio della c.d. “opzione zero” nella fase di formazione degli strumenti urbanistici generali e precipuamente nella valutazione ambientale.
In sostanza, abbiamo avuto, dal 1995 ad oggi, piani regolatori informati sul consumo del territorio per fare cassa ed in danno della qualità della vita urbana dei Cittadini, in quanto ai Comuni è sconosciuta – a causa dell’assenza dell’anagrafe edilizia – l’effettiva necessità di utilizzo delle risorse essenziali del territorio.
Una siffatta particolare abilità nel trovare sistemi di far cassa attraverso l’incamerazione degli oneri di urbanizzazione trova, in me, giustificazione solamente nella visione dell’edilizia come “sistema” di finanziamento.
Invero, attraverso una distorta lettura della norma contenuta nell’art. 1, comma 43 della Legge n. 311/2004 (Governo Berlusconi) che “consente” ai Comuni di non destinare più – quale entrata a specifica e vincolata voce di bilancio comunale – l’utilizzazione dei proventi concessori per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, ritengo che gli Enti Locali siano stati utilizzati come strumento per ingrassare i bilanci.
La distorsione è avvenuta – e continua ad avvenire – considerando facoltà quella che, invece, è una mera eventualità consequenziale al presupposto rispetto del limite legale, contenuto nella disciplina urbanistico-edilizia, dell’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria (compreso il verde e i parcheggi pubblici) al momento del rilascio del permesso di costruire (art. 4 della Legge n. 10/1977, oggi art. 12 del D. Lgs. n. 378/2001).
Solamente dopo aver accantonato i denari afferenti ai fabbisogni per l’urbanizzazione primaria comunque da rispettare, i Comuni possono destinare le somme rimanenti ad altri scopi, pur rispettando – comunque – il programma pluriennale di attuazione degli strumenti urbanistici comunali (art. 13 della Legge n. 10/1977) che deve essere redatto in conformità al programma pluriennale delle opere pubbliche (che deve assicurare anche il raggiungimento degli standard di urbanizzazione secondaria nei minimi di legge).
Siccome occorreva la ciliegina sulla torta, ecco che la Regione Toscana – attraverso la circolare approvata con deliberazione di Giunta 10 febbraio 2003, n. 118 – dichiara che «In Toscana l’istituto dei Programmi Pluriennali di Attuazione (PPA) è abrogato …». Come se uno strumento istituto dallo Stato possa essere abrogato con disposizione regionale in assenza di norma delegante. Così non importa più nemmeno programmare le trasformazioni urbanistiche, i cui proventi servono per realizzare le infrastrutture pubbliche.
Che dire! Siamo in una Repubblica federale e non me ne ero accorto! E pensare che la Corte Costituzionale (nella sentenza n. 1033/1988) ebbe a statuire che le disposizioni relative ai P.P.A. di cui all’art. 13 della Legge n. 10/1977 e all’art. 6 della Legge n. 94/1982 sono norme di riforma economico-sociale che introducono questo strumento urbanistico che è diretto a modificare profondamente le tecniche del governo pubblico del territorio, in quanto, affiancando all’ordinaria pianificazione spaziale di vincoli o di scelte conformatrici della proprietà una programmazione temporale di attività, ne ha trasformato radicalmente il senso, convertendole da strumenti essenzialmente negativi e impeditivi a strumenti di impulso, che esigono un’interazione con le attività e i progetti dei privati.
Ebbene, la Toscana – violando palesemente la Costituzione ed appropriandosi anche della funzione legislativa per le riforme economico-sociali – ha stabilito che nel suo territorio non devono essere fatti i Programmi Pluriennali di Attuazione! Così facendo si eliminano alla radice:
- i problemi di utilizzazione degli introiti vincolati nel bilancio comunale (oneri di concessione);
- i problemi di dover far sottostare le iniziative private alla pianificazione pubblica, consentendo direttamente ai privati di poter proporre programmi d’intervento che facendo intravedere chissà cosa di vantaggioso per la collettività “convincono” gli amministratori locali ad abdicare dalla loro propria funzione pianificatoria.
Ecco, in sintesi ed a mio giudizio, quali sono gli inconsapevoli apporti della normativa regionale (manifestamente incostituzionale in parte qua) all’assalto del patrimonio paesaggistico toscano da parte di imprenditori senza scrupoli, spesso sponsorizzati da politici di scala nazionale, nonché da parte di organizzazioni malavitose che reinvestono capitali provenienti – così dicono i report delle indagini conoscitive della magistratura inquirente – anche da paesi esteri.
Oltre, ovviamente, al peggioramento della qualità della vita urbana dei cittadini, attraverso il riempimento di “vuoti urbani” già destinati o destinabili alla realizzazione di quelle opere di urbanizzazione primaria e secondaria che dovevano essere eseguite magari da oltre trent’anni e mai realizzate (nonostante siano milioni e milioni di euro le somme introitate a titolo di oneri di urbanizzazione dalla maggior parte dei comuni toscani) per mancanza di fondi, stante la loro distrazione per altri scopi!
Per questo ritengo sia fondamentale - se si vuol davvero perseguire le finalità indicate nella legge urbanistica – ristabilire il vigente ordine riguardo alla funzione di approvazione degli strumenti urbanistici comunali, affinché gli organi regionali tornino ad essere responsabili (anche sotto il profilo penale che erariale) del disordinato e/o disarmonico utilizzo del territorio.
Occorre iniziare ricordando quanto ha statuito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 26/1996:
«Non fondata è, invece, la censura proposta sotto il profilo che l'art. 6, comma 3 (in base al quale qualora il termine per l'assunzione della deliberazione comunale con le determinazioni sulla richiesta regionale di modifiche al programma integrato in variante agli strumenti urbanistici sia inutilmente decorso, le modifiche stesse sono introdotte d'ufficio dalla Giunta regionale), violerebbe gli artt. 5, 117 e 128 della Costituzione.
«Preliminare - nell'esame di questa censura - è il riferimento ai principi fondamentali della legislazione urbanistica in materia, in particolare all'art. 10, secondo comma, della Legge 17 agosto 1942, n. 1150, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 3 della Legge 6 agosto 1967, n. 765, il quale prevede diverse categorie di modifiche d'ufficio (in sede di approvazione) al piano regolatore.
«Esse, tuttavia, sono ammesse a condizione che rispettino un limite ben preciso: si tratti cioè di modifiche che non comportino sostanziali innovazioni, ovvero che non mutino le caratteristiche essenziali del piano ed i criteri di impostazione dello stesso. A ben vedere si tratta di un limite strutturale che è comune ad ogni tipo di modifiche d'ufficio nell'ambito di atto complesso, soprattutto in sede di pianificazione urbanistica caratterizzata dalla duplice competenza comunale (di iniziativa e adozione) e regionale (di esame, di valutazione e verifica della coerenza degli strumenti urbanistici e l'assetto degli interessi coinvolti). In caso di mancanza delle condizioni per le modifiche di ufficio la regione ha solo il potere di non approvare il piano e di restituirlo al comune ovvero di approvarlo in parte con stralcio e restituzione per le eventuali iniziative del comune.
«Di conseguenza la Legge regionale censurata deve essere interpretata e coordinata con i principi fondamentali della Legge statale vigente in materia di formazione e approvazione di strumenti urbanistici (art. 10, comma secondo, della Legge n. 1150 del 1942, nel testo vigente citato).
«Così precisati il senso e l'ambito di operatività della disposizione denunciata, essa resiste alle censure di illegittimità costituzionale, in particolare a quella - assorbente - relativa all'art. 117 della Costituzione, qualificandosi all'opposto, nel senso sopra specificato, in armonia con i principi posti dalla legislazione statale in materia, nel rispetto altresì dell'autonomia comunale.»
Riassumendo, la Corte Costituzionale ha stabilito che:
L’approvazione regionale dello strumento urbanistico comunale costituisce principio fondamentale della materia urbanistica (oggi governo del territorio).
La competenza nella formazione dello strumento urbanistico comunale è duale (Regione e Comune), con specifici limiti della Regione per quanto concerne poteri di modifica d’ufficio del contenuto del progetto di piano regolatore comunale.
Riguardo all’approvazione degli strumenti urbanistici comunali, lo Stato – mediante l’art. 1, comma 2, lettera d) del D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8 – ha trasferito alle Regioni la funzione amministrativa di approvazione dei piani regolatori generali comunali (art. 10 della Legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii.), ma non l’ha soppressa.
Di conseguenza, persiste l’obbligo dell’approvazione degli strumenti urbanistici comunali da parte della Regione, tenuto conto – peraltro – che, come detto dalla Corte Costituzionale, il P.R.G.C. è atto complesso a competenza duale.
Alcuna influenza sul riparto delle competenze e sul trasferimento delle funzioni amministrative statali può avere la modifica del Titolo V della Costituzione ad opera della Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
A tal proposito si ricorda che all’indomani della riforma del Titolo V della Costituzione, le Regioni credevano che la materia dell’urbanistica, in quanto non più nominata nell’art. 117 Cost., fosse divenuta – in via residuale – di loro competenza legislativa esclusiva.
Il Giudice delle Leggi, tuttavia, ebbe modo di statuire (cfr. sentenze n. 303/2003; n. 307/2003; n. 362/2003; n. 196/2004; n. 343/2005) che l’urbanistica rientra nella materia denominata “Governo del Territorio” nella quale lo Stato ha la competenza legislativa esclusiva per ciò che concerne i principi fondamentali.
Può essere utile richiamare anche un passaggio della sentenza n. 343/2005 della Corte Costituzionale, che ha carattere più generale: «La materia edilizia rientra nel governo del territorio, come prima rientrava nell'urbanistica, ed è quindi oggetto di legislazione concorrente, per la quale le regioni debbono osservare, ora come allora, i principî fondamentali ricavabili dalla legislazione statale. ».
Inoltre, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 376/2002, riguardo al rapporto tra le competenze legislative tra Stato e Regioni ebbe già modo di statuire che: «Anche tale questione deve essere valutata alla luce delle norme costituzionali, invocate dalla ricorrente, come risultanti dal testo anteriore alla riforma del Titolo V, Parte II, della Costituzione recata dalla Legge costituzionale n. 3 del 2001. L'eventuale incidenza delle nuove norme costituzionali, in termini di modifiche delle competenze rispettive di Stato e regione, sarebbe infatti suscettibile di tradursi solo in nuove e diverse possibilità di intervento legislativo della regione o dello Stato, senza che però venga meno, in forza del principio di continuità, l'efficacia della normativa preesistente conforme al quadro costituzionale in vigore all'epoca della sua emanazione (cfr. sentenza n. 13 del 1974).»
La riconosciuta qualificazione di principio fondamentale all’approvazione – da parte della Regione – degli strumenti urbanistici comunali porta ad affermare, anche in relazione all’obbligo della Regione di osservanza dei suddetti principi (cfr. sentenze già citate n. 343/2005 e n. 376/2002), che in mancanza – come oggi sono assenti – degli specifici atti di approvazione regionale TUTTI i Regolamenti Urbanistici dei comuni della Toscana, di cui viene attualmente data asserita applicazione, non si sono mai formati.
Ciò che è stato approvato dai vari Consigli comunali sono atti giuridicamente inesistenti, in quanto non essendo oggetto del concorso della volontà di entrambi gli Enti (Comune e Regione, che deve assicurare il rispetto degli standard) non sono mai venuti ad esistenza. Atti inesistenti sono improduttivi di effetti giuridici.
A tal proposito si evidenzia come il Consiglio di Stato abbia già affermato che:
1. «Prima dell’approvazione tutoria regionale, nelle forme previste dalla legge urbanistica, il piano regolatore non si può dire ancora perfezionato, perché l’atto di controllo regionale non è condizione di efficacia, ma ha un effetto costitutivo, per cui lo strumento urbanistico è espressione tanto del Comune che l’adotta che dell’ente che lo approva e che, quindi, partecipa alla relativa formazione nell’interesse di un adeguato governo del territorio, onde il piano stesso è un atto complesso.» (Sez. V, 13 dicembre 1999, n. 2106).
2. «Che difetta il presupposto legale sul quale parte appellante poggia la propria rivendicazione di edificabilità dell’area per le ragioni che seguono:
- per un verso, non è neppure controverso tra le parti (come deducibile dalle stesse argomentazioni svolte con i due ultimi profili di contestazione della sentenza impugnata) che la variante urbanistica adottata con la delibera consiliare n. 45 del 7 novembre 2002, che ha attribuito la destinazione di zona S2B all’area in questione, non è mai divenuta definitiva per non essere stata approvata dalla Regione;
- per altro verso, il Collegio non può condividere la tesi che anche la semplice adozione dello strumento urbanistico possa comportare l’applicazione della norma di cui all’invocato comma 1 dell’art. 4 della Legge n. 291 del 1971, avuto presente il principio giurisprudenziale secondo il quale, finché lo strumento urbanistico non abbia favorevolmente superato non soltanto la fase costitutiva, ma anche quella integrativa dell'efficacia, l’area interessata deve ritenersi sprovvista di una disciplina di pianificazione, con l'ovvia conseguenza che, nel frattempo, devono osservarsi le limitazioni all'edificabilità dettate dalla disposizione qui rilevante dell’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001.» (Sez. IV, 29 settembre 2011, n. 5414).
Nemmeno può essere invocato qualsivoglia forma di silenzio assenso della Regione, in quanto il Giudice delle Leggi, con la sentenza n. 408/1995, ebbe a stabilire che:
«In base al sistema – è questo il significato sotteso alla richiamata sentenza n. 393 del 1992 - la previsione del silenzio-assenso può ritenersi ammissibile in riferimento ad attività amministrative nelle quali sia pressoché assente il tasso di discrezionalità, mentre la trasposizione di tale modello nei procedimenti ad elevata discrezionalità, primi tra tutti quelli della pianificazione e programmazione territoriale, finisce per incidere sull'essenza stessa della competenza regionale. Il venir meno nella normativa statale della previsione del silenzio-assenso per effetto di detta sentenza e le implicazioni che possono desumersi da essa denotano attualmente l'esistenza nella Legge statale, specifica per la materia, di un principio fondamentale opposto, che ritiene indispensabile una valutazione esplicita da parte degli organi regionali nei procedimenti che necessitano del "diversificato contributo degli organi e uffici competenti coinvolti nella procedura.» (sent. n. 393 del 1992).
Ecco, quindi, che in Toscana – quella Toscana tanto decantata a modello di buona amministrazione – tutti i Comuni, attualmente, danno attuazione ad inesistenti strumenti urbanistici generali, che ledono – di conseguenza – i diritti civili dei cittadini di poter validamente ottenere dalla loro P.A. quel livello minimo essenziale di qualità urbana previsto dalla legge statale che deve essere assicurato dalla Regione in fase di approvazione dello strumento urbanistico generale, ma da quest’ultima non riconosciuto in nome di una “Costituzione materiale” contrastante con quella formale.
Un federalismo di fatto che rende taluni italiani figli di un Dio minore. Con il silente consenso dello Stato che – inducendo ad ipotizzare l’esistenza di un’interessata intesa politica bipartisan – ha “autorizzato” la modifica extra-parlamentare della Costituzione in parti del territorio nazionale particolarmente vocate per la valorizzazione.
Si consideri, parimenti che l’assicurazione degli standard avrebbe l’effetto collaterale di fermare l’incontrollato consumo di territorio per effetto della necessaria formazione della presupposta anagrafe edilizia che, se formata, sarebbe in grado di svelare – come nella favola de I vestiti nuovi dell’Imperatore – che il Re è nudo: ossia che non vi è più bisogno, ormai da tempo, di costruire ex novo, essendo più che sufficiente, per i fabbisogni prossimi e futuri, recuperare a funzionalità e a sicurezza il patrimonio edilizio esistente.