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Lodo Meneghetti
Urbanistica e paesaggio. Da dove veniamo?
4 Marzo 2005
Lodovico (Lodo) Meneghetti
Vezio De Lucia si augura una discussione

(29.1.05) sulla bellezza e il paesaggio dopo avere in precedenza contestato “la soluzione prevista dal nuovo, terrificante disegno di legge urbanistica nazionale della maggioranza che esclude dall’urbanistica la tutela, e quindi la bellezza, e quindi il paesaggio”. Anche altri hanno chiamato gli urbanisti a schierarsi. Accettando subito l’invito di De Lucia, Fabrizio Bottini ha scritto un articolo molto bello (Et in Arcadia…Lego, 31.1.05) che intende confortarci mostrando come “la forte integrazione fra urbanistica e tutela paesistica”, la percezione del paesaggio o degli elementi naturali con le loro modificazioni da parte dell’uomo fossero già interiori alla parte migliore dell’urbanistica italiana dagli anni Trenta. A proposito dei casi nazionali di prima o durante la guerra, mi par giusto aggiungere e riconoscergli uno speciale risalto, anche per affiancare “milanesi” a citati “romani”, il Piano regolatore della Valle d’Aosta (1936-37): passo intermedio fra i traguardi raggiunti, nel 1933-34, dal CM8 (il Piano di Como firmato appunto dagli “otto”, Bottoni, Cattaneo, Dodi, Giussani, Lingeri, Pucci, Terragni, Uslenghi) e dopo dal Piano AR per Milano (1944-45) quando gli Architetti Riuniti lavorarono mentre la città respirava appena dopo i pesanti bombardamenti e pensarono, pur partendo dal piano urbano, in termini di territorio vasto, di paesaggio regionale. Quanto alla Valle, sotto la guida di Adriano Olivetti sette architetti (Banfi, Belgiojoso, Bottoni, Figini, Peressutti, Pollini e Rogers), un ingegnere (Italo Lauro) e il direttore pubblicitario dell’Olivetti (Renato Zveteremich) produssero quegli Studi e proposte preliminari per il piano regolatore della Valle d’Aosta a cui in seguito venne riconosciuto un primato nel campo della ricerca e documentazione di analisi e di progettazione (450 le tavole, oltre ai diversi apparati) riferibili a un ambito esteso per il quale la questione della natura e del paesaggio rapportati al problema della pianificazione urbanistica e anche del progetto a scala pre-architettonica (V. i quattro piani particolareggiati) doveva erompere con forza dalla stessa realtà, non ancora massacrata e ridotta a campione di bruttezza dagli inconcepibili interventi urbanistici ed edilizi dal dopoguerra.

Non su questo, in verità, volevo indugiare. Leggendo De Lucia e Bottini pensavo alle fonti sopranazionali della modernità cui si sono abbeverate un’urbanistica e un’architettura sensibili alla presenza immanente del paesaggio, naturale, artificiale, agrario, terra e acque, anche in occasione del piano urbano ritenuta la meno favorevole. Da dove veniamo? Domanda a cui ho risposto da molto tempo e allo stesso modo di molti altri. Sicché ridurrò a una singola dichiarazione il pensiero (luogo) comune stampato e detto. In inciso, rivolgendomi a Bottini e scusando l’autocitazione: Et in Arcadia Ego di Nicolas Poussin (1639) è la prima delle illustrazioni di Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri.

Da dove veniamo? Per me, la vecchia fonte buttante allora dai torrenti del materialismo, zigzaganti fra le bandiere del rapporto uomo-natura piantate ad ogni ansa, è William Morris, soprattutto il suo lato mentale e corporeo meno esposto, meno illustre dal quale venne il saggio News from Nowhere. Non interessa la diatriba circa il suo utopismo, semmai ricordare la complessità della figura nella misura in cui radunò l’artista, il poeta, l’operaio-artigiano, l’architetto, l’urbanista, il socialista. Interessano le premonizioni in quel testo: la dilagante congestione della grande città “che inghiotte campi e boschi e brughiere senza pietà e senza speranza… il cielo fumoso e i fiumi torbidi… la campagna invasa da miserabili costruzioni”. Tutto vero per l’oggi. Ed è facile poi ricavare, perfino disegnare, il modello di organizzazione territoriale che denominerei il progetto di città e campagna. Una incredibile anticipazione: ricuperare un equo rapporto fra l’uomo e la natura nella società moderna vuol dire riequilibrare il rapporto molteplice uomo / lavoro / tempo libero / riposo, allo stesso tempo e modo che risolvere il divario fra città e campagna. Ne sorte la chiara rivendicazione tripartita – lavoro onorevole e appropriato, riposo per la mente e il corpo, ambiente confortevole e bello – coerente all’altra triade relativa all’intrinseco abitare, “buoni alloggi, ampio spazio, ordine e bellezza”. Infine, il convincente disegno di uno spazio ‘regionale’ avverso al moloch-città smisurata: potrebbe sembrare il medesimo che avremmo voluto si inverasse nel destino delle nostre metropoli, vale a dire un modello nettamente policentrico: centri urbani spaziati nella campagna, paesaggi urbani e paesaggi degli spazi agrari e naturali come due aspetti della funzionalità e bellezza di un unico paesaggio umano. Ma sembra che la storia non abbia insegnato nulla, se non a pochissimi, in questo disgraziato paese, “malpaese” secondo il bravo giornalista Valentini. Eppure tale fantastico sistema policentrico rappresentava la realtà che possedevamo tramandataci dalle vicende storiche, specialmente in Lombardia e nel Milanese. Lo hanno, l’abbiamo in gran parte distrutto, specialmente riguardo a Milano e largo circondario dove il progetto territoriale si è risolto al contrario della nostra visione lotta speranza. Le città immaginate da Morris, paragonabili alla miriade di centri milanesi e lombardi, una volta tutti piccoli e medi, separati da larghe e perfino vastissime fasce di campagna o di boscosa brughiera, sfruttano una potenzialità basata anche sulla bellezza dell’ambiente costruito storico: una risorsa che si esalta nel rovescio della “grande città divoratrice dei campi”. Alla nitida delimitazione urbana corrisponde un’organizzazione spaziale interna come concerto armonioso fra le parti edificate e i “giardini”, mentre la campagna “integra” addossata ai margini potrebbe collegarsi ai giardini interni attraverso idonei varchi e interstizi.

Invece oggi ci aggiriamo in uno spaventevole dilagamento dello spazio edificato, una disgustosa poltiglia di case e insensate strade, augéani non-spazi dove abbiamo perduto l’identità di noi stessi insieme all’identità di luogo.

… poi vennero gli altri, figli e nipoti e parenti e amici e conoscenti, persone singole o riunite in Movimenti. A loro, tutti o molti di noi amici in Eddyburg, ci siamo ispirati in qualche modo e in qualche tempo.

… e intanto si dipanava l’altro corso dove insegnava l’altro padre degli urbanisti e architetti moderni, Hendrick Petrus Berlage. Ne uscirono bravi architetti olandesi e no. Anche a noi tutti insegnò molto.

Per concludere rischiosamente: dico che i giardini dentro i grandi blocchi cooperativi del piano per Amsterdam Sud li vorrei collegare idealmente ai giardini urbani di William Morris. In fondo l’inglese, per data di nascita, avrebbe potuto essere padre giovane dell’olandese.

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