L’urbanistica del progetto di opposizione ai devastatori del territorio e volta al bene comune ha dovuto ritrarsi nelle catacombe delle città, nel freddo e nell’oscurità. Segue
L’urbanistica del progetto di opposizione ai devastatori del territorio e volta al bene comune ha dovuto ritrarsi nelle catacombe delle città, nel freddo e nell’oscurità; nella luce superiore vige un’urbanistica usurpatrice del nome per essere invece un’altra cosa in attesa del giusto titolo; forse DOCG?
Tutto – dopo cinquant’anni di cammino dell’Italia da Bel Paese a Malpaese [1] – ricominciò allo scorcio del secolo breve dischiuso al proemio del nuovo millennio. Un documento programmatico scritto da un collega per la giunta municipale di Milano (Documento di inquadramento…) annunciava che la costruzione della città deve basarsi sulla libera dinamica dell’imprenditoria fondiaria ed edilizia; con essa l’ente pubblico concerterà… che cosa? (dubitavo) se non la già avvenuta decisione o propensione comune di rifiutare un qualsiasi piano generale o, qualora ne esistesse uno vigente, di variarlo a morsi successivi in coerenza a un raccomandabile «gioco delle forze»?
Esemplare antecedente, giacché gli amministratori pubblici e la potenza imprenditrice si erano mossi d’intesa anni prima, caso stupefacente fra altri minori, la vasta operazione edificatoria alla Bicocca sui terreni liberati dall’insediamento industriale Pirelli [2]. L’espansione in-calcolata di Milano sarebbe avvenuta lì non sulla base, almeno, di un’idea generale di città manifestata e discussa, una scelta sostenuta da ragioni plausibili e più convincente di altre possibili, insomma una dimostrazione che gli interessi generali della cittadinanza, la miglior vivibilità della metropoli esigevano una vasta urbanizzazione proprio lì; ma perché l’indiscusso industriale, già autorevole rappresentante del profitto capitalistico che non aveva saputo far rivivere e fruttare secondo la doppia funzione, economica e sociale, era scivolato nel campo della rendita, presunto avversario storico del profitto. In ciò confortato da tre atti: consenso entusiasta di sindaco e assessori estranei a un sentimento nobile del progetto pubblico; glorificazione da parte di una borghesia votata a spericolati guadagni nella finanza, nell’edilizia e nel commercio; rispetto compiaciuto di una sinistra ossimorica definita liberale.
Troppo nota per indugiarvi se non per un rapido appunto, la vicenda urbanistica si dipanò in maniera coerente alla madre Pirelli di tutti i successivi ribaltamenti e tradimenti culturali: avvenimenti, storie, cronache… nuove legislazioni, personaggi accondiscendenti, parole di noto sputtanamento riscoperte e rilanciate come emblemi di modernizzazione (negoziazione, contrattazione, accordo di programma…) fino a concludersi in morte delle ultime due sopravvivenze: il famoso modello bolognese, capovolto nell’esagerazione masochistica dichiarata, ossia alienare la pianificazione e ogni progetto ai padroni della rendita e dell’edificazione intanto che l’ente pubblico anticipa il consenso e il supporto magari oneroso; il meno famoso ma adeguatamente propagandato nuovismo urbanistico toscano, pronto dopo una lunga gestazione per un’applicazione rispettosa del bene pubblico, respinto dai benpensanti consiglieri «licenziando» l’autore [3].
L’urbanistica «di lotta e di governo» (effettiva, non parolaia) sembra esseri esaurita con l’azione di coloro che l’hanno praticata negli anni Cinquanta e Sessanta. Pochi progettisti, giovani dediti a contrastare la proliferazione di un’edilizia privata affaristica e brutta, la pianificazione di comodo o la non-pianificazione, assumevano nei comuni di sinistra il compito di amministratori nei settori coerenti alle loro competenze. Non poteva bastare però la scelta di un’esigua solitaria minoranza a fermare, se non per qualche anno e per singole località, la rovina della città, del territorio libero, del paesaggio. Ma un segno di capacità politico-professionale alternativa, un’istanza di moralità furono trasmessi a chi volesse raccoglierlo.
Tuttavia i pazzeschi sconvolgimenti divenuti normale processo decostruttivo del territorio nazionale ebbero anche l’effetto di ricacciare quelle capacità e quelle istanze. La frana di Agrigento (19 agosto 1966) fu singolo evento che quei giovani-maturi videro come reductio ad unum di un intero universo di malefatte. La relazione al ministro Mancini di Michele Martuscelli, l’ingegnere direttore generale dell’urbanistica al ministero dei lavori pubblici, presidente della Commissione d’indagine sulla situazione urbanistico-edilizia di Agrigento, fu clamorosa, estesa com’era, fuor d’ogni localismo, alla denuncia di una particolare «gravità della situazione urbanistico-edilizia dell’intero paese che [aveva] trovato in Agrigento la sua espressione limite» [4]. Così essi presero la relazione Martuscelli come un altro emblema: della ritirata già avvenuta dell’urbanistica professionale dinnanzi alla perdurante devastazione del paese, quando non attrice deuteragonista in questa stessa.
Intanto era moribonda l’architettura umanista, già separata dall’urbanistica e, per questo, indebolita anziché rafforzata dall’autonomia come si era potuto credere. Agonizzava quale mestiere civile comunitario, negazione dell’individualismo sprezzante i contesti sociali e spaziali teso all’esclusiva esaltazione del sé – anche quando il risultato appariva irrimediabile errore e offensiva bruttura a chi esercitava i propri sensi e dunque sapeva riconoscere appropriatezza, utilità e bellezza,. Era ancora ventesimo secolo quando i giovani invecchiati potettero individuare un efficace simbolo di quelle edificazioni in forma neoliberista e ghiribizza di grattacielo, noncuranti del contenuto, che sarebbero proliferate nel Ventunesimo: era nato a Londra il gherkin di Norman Foster, l’architetto padrone di cento architetti-robot al suo servizio (“cetriolino” dissero gli inglesi, che poi è uno spaventevole cetriolone, o una supposta per King Kong centuplicato).
La resistente ricerca di un nuovo sentimento sociale ed estetico della costruzione rifiutava la sudditanza al mondo dell’impresa dominante. Ma non poteva scalfire l’orrore della montante edilizia ostile all’architettura, e doveva dividere lo scarso spazio culturale dimenticato ai margini del processo produttivo con la debole benché dignitosa architettura desunta da una riedizione di modelli d’antan. Frattanto sorsero le professional consulting interdisciplinari per rispondere alla domanda di progettazione a scala vasta, ma non durarono molto. Il passaggio al progetto industrializzato poi computerizzato doveva riconoscere il dominio non più soltanto del mercato economico stricto sensu e delle imprese imperanti [5], ma di un mercato politico-culturale nuovo, universale, potentissimo, a cui obbedire per poter edificare gli oggetti, quali quando dove come esso, un re, un moloch, li voleva. Qui si può chiudere il cerchio contornandone il gherkin e bollare la mania di grattacielo inchiodata nella mente di troppi architetti felici di soddisfare il moloch [6].
Note
[1] Ho nominato in diversi testi l’inventore di questo attributo: il giornalista di «Repubblica» Giovanni Valentini, nel 2003.
[2] Vedi in eddyburg il mio primo approccio a questo tema: Le Nuove Milano estranee. L’architettura servile, 30 ottobre 2004, poi in Parole in rete. Interventi in eddyburg, giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2005, p. 142.
[3] Per questi avvenimenti (Bologna e Toscana) vedi in eddyburg il mio articolo Storie locali. Morte della sinistra, strapoteri e omologazione, 7 maggio 2018.
[4] Chi, magari per ragione d’età, non conosce bene la vicenda agrigentina dovrebbe farlo mediante «Urbanistica», n. 48, dicembre 1966, che vi dedica la gran parte del fascicolo (peraltro preceduta da due brevi memorie sulle rovinose alluvioni di Firenze e di Venezia - 4 novembre dello stesso anno, cioè meno di tre mesi dopo il disastro agrigentino).
[5] Ad ogni modo anche gli imperatori cadono. I milanesi conoscono la storia di Salvatore Ligresti, della figlia Giulia (proprio ora ritornata in carcere) e altro. Decine di raggruppamenti di grattacieli per uffici (4÷8 ognuno per un totale di una cinquantina ) circondano le periferie, come a voler mostrare una formidabile capacità di controllo sulla vita della città. Fallimenti e ruberie, condanne e fughe. Ma quella corona di edifici dotati anche di due piani abusivi poi sanati inopinatamente svuotandoli e conservando le strutture e la copertura, rimane lì a svergognare non solo gli autori ma anche gli amministratori comunali degli anni ligrestiani trionfanti.
[6] La vicenda architettonica del concorso per Ground Zero, quanto vero o falso non si sa, è stata dominata da stolti esibizionismi personali, tutti sotto la bandiera del Guinness dei Primati e tutti mancanti di moderatezza espressiva. Ce lo aspettavamo, ha vinto il grattacielo più alto, di Daniel Lebeskind, che a Milano contribuirà alla costruzione di City Life – cosiddetta – nel luogo dell’ex Fiera Campionaria, dispensando insieme agli altri due progettisti, Arata Isozaki e Zaha Hadid, insensatezza e tristezza urbana.