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Vittorio Emiliani
Un'inchiesta sull'abusivismo a Roma
25 Dicembre 2009
Roma
Prefazione al libro di Chiara Lico, «Anni di cemento», (Viterbo, Stampa Alternativa, 2009) sull’abusivismo nella Capitale.

Fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, quando la popolazione della capitale è già più che raddoppiata rispetto a quella del 1870 e veleggia oltre il mezzo milione di abitanti, i borghi abusivi degli immigrati (manovali, muratori, scaricatori, popolo minuto) si chiamano “villaggi abissini”. Nei borghetti, ha scritto Mario Sanfilippo nel suo esemplare volume Le tre città di Roma, uscito da Laterza nel 1993, “si rifugiano i nuovi immigrati poveri, attratti dalla ‘febbre edilizia’, ma anche gli espulsi dalla città regolare e coloro che possono costruirsi soltanto un riparo di fortuna”. Sono gli effetti dei grandi sventramenti umbertini che Mussolini riprenderà potenziandoli, fra via dell’Impero, corso Rinascimento, Spina di Borgo, Augusteo e creando le prime borgate del regime, a cominciare da Primavalle. Nel 1911 si contano già almeno una trentina di insediamenti precari. È cominciata a Roma la lunga e dolorosa storia dell’edilizia illegale la quale ha per decenni, fino agli anni Settanta del Novecento, una radice e una ragione sociale profonda. Sulla capitale si rovesciano infatti masse di immigrati – anche centomila all’anno un quarantennio fa – che vengono dal Lazio interno misero e affamato, dal Sud, in particolare da Campania e Sicilia.

Nel 1938, quando Adolf Hitler viene in visita a Roma, il corteo ufficiale deve sfilare davanti al Verano, e allora le baracche abusive dei diseredati vengono celate da un grande pannello dipinto con pini a ombrello. Neppure il fascismo, la cui attività edilizia risulterà intensissima, riesce ad affrontare, pur coi grandi mezzi che Mussolini mette a disposizione della città-immagine dell’Impero tornato sui colli fatali, il nodo dell’abusivismo edilizio. Del resto proprio il duce ha fatto saltare i conti demografici della metropoli evitandole, caso unico, l’applicazione delle leggi fasciste contro l’immigrazione spontanea. Per emigrare, bisogna avere un lavoro e una casa e nessuno dei poveri che lasciano campagne e paesi ce l’ha. Così, rispetto al 1921, la Roma della Liberazione ha più che raddoppiato gli abitanti giunti al milione e mezzo di persone.

Nel dopoguerra, con le maggiori città ridotte spesso a macerie, il fenomeno dell’edilizia illegale dilaga in tutta Italia, anche nelle aree più sviluppate del Nord. Sono abusive intere “città della domenica” alla periferia di Milano, nei comuni della “cintura” settentrionale, come Limbiate e Paderno Dugnano, dove le chiamano “coree”, affollate di immigrati veneti, calabresi, siciliani, campani. Nel 1959 collaboro con Camilla Cederna (il fotografo è Ugo Mulas) a una inchiesta per l’“Espresso”. Passiamo attraverso incredibili periferie “spontanee” alle quali poi bisognerà portare tutti i servizi, primari e secondari. Il fenomeno, di proporzioni impressionanti, si riassorbirà, grazie all’azione dei governi e dei comuni di sinistra e di centrosinistra, soltanto negli anni Settanta. Lì come a Torino o a Venezia Mestre. Ma già sulle riviere liguri e lungo la costa romagnola o toscana l’abusivismo è diventato il grimaldello della speculazione edilizia, che fa saltare i piani regolatori e pone le basi per la cementificazione delle nostre coste. Di litoranea in litoranea, di lungomare in lungomare, dei 1240 chilometri di dune sabbiose in faccia all’Adriatico, ne sopravviveranno, alla fine del secolo scorso, appena 120, cioè meno del 9 per cento. Per la Liguria Giorgio Bocca conia sul “Giorno”, dove conduce inchieste informate e taglienti, due neologismi: “Lambrate sul Tigullio” e “rapallizzazione”.

Quando vengo, nel 1974, a lavorare a Roma, al “Messaggero”, mi occupo molto e molto liberamente di urbanistica. Vado in Umbria e lì l’assessore regionale alla partita, il comunista Ottaviani, mi garantisce che l’abusivismo edilizio, da loro. è ormai del tutto sconosciuto. È così anche al Nord che ho appena lasciato, tranne i “punti neri” di alcune riviere. A Roma invece va avanti come una fiumana: le inchieste giornalistiche del tempo fissano in 800 mila il numero dei romani i quali risiedono in case illegali. Sono quindi 800 mila stanze abusive, non allacciate alle fognature, fra l’altro, e che quindi determinano un inquinamento terribile delle marane, delle falde idriche e del Tevere. Una sorta di anti-città che viene ben descritta nel volume-inchiesta che Giovanni Berlinguer e Piero Della Seta dedicano alle Borgate di Roma, dove si dimostra, fra l’altro, che autentiche “colonie” di immigrati si sono fermate – e formate – all’ingresso delle vie consolari a Roma: campani sull’Appia, abruzzesi sulla Prenestina, marchigiani e umbri sulla Flaminia e così via. Sono gli anni dell’epos drammatico e populista dei pasoliniani Ragazzi di vita (1955) e di Una vita violenta (1959). Di quegli stessi anni è il film Il tetto di De Sica e Zavattini, uno dei più deboli forse e però da ricordare come documento cinematografico delle “case della domenica”, dell’autocostruzione nel decennio Cinquanta nella capitale, e non solo. Ma, accanto alle case, ai borghi e ai borghetti abusivi, si cominciano a sviluppare intere lottizzazioni non meno abusive che, sulla pelle dei più poveri, della stessa micro-borghesia e del Comune, si ramificano nell’Agro cementificando intere zone verdi e lucrando profitti enormi. Come testimoniano le inchieste e le fustigazioni continue di Antonio Cederna, sul “Mondo” e poi sul “Corriere della Sera”, le campagne dell’“Espresso”, di “Paese Sera” e dell’“Unità”, e i libri del sociologo Franco Ferrarotti, come Roma da capitale a periferia. Ci vorrà lo sforzo enorme delle prime amministrazioni di sinistra dopo tanti anni di sgoverno (Argan, Petroselli, Vetere) per sanare, a carissimo prezzo, la ferita immane dell’abusivismo e per dare forma di città a quella anti-città.

Nel 1984, nell’imminenza di nuove elezioni amministrative comunali, facciamo svolgere, al “Messaggero”, una inchiesta sull’abusivismo edilizio affidandola al Censis di Giuseppe De Rita. Cosa ne emerge? Che l’abusivismo “sociale” o “di necessità” è ormai poca cosa rappresentando il 4,5 per cento dell’edilizia illegale a Roma. Ecco emergere quindi i protagonisti del nuovo abusivismo romano: speculatori i quali imboccano la solita scorciatoia per costruire villoni da quattro appartamenti almeno, uno per sé, uno per gli altri membri della famiglia e due almeno da vendere o da affittare. Tutto rigorosamente in “nero”. E spesso con finanziamenti facili che venivano dal racket, dalla malavita. Ma cosa fanno i notai, le aziende pubbliche dell’elettricità, dell’acqua, del gas? Nulla di nulla.

È, per l’appunto, il nuovo abusivismo romano che viene raccontato in questo importante libro, scritto in presa diretta come una cronaca vera e viva, dalla giornalista Chiara Lico, e che ha come protagonista positivo Massimo Miglio, titolare per molti anni dell’Ufficio comunale antiabusivismo, esposto a minacce, attentati, initimidazioni e però sempre sulla breccia quando le amministrazioni di centrosinistra s’impegnano a fondo. Un dirigente essenziale, prezioso, per competenza e coraggio che invece la giunta di centrodestra guidata da Gianni Alemanno ha praticamente sollevato dall’incarico e che, per fortuna, ha trovato nuovi spazi d’azione e di tutela dell’interesse generale presso la Regione Lazio su di un territorio devastato da abusi di ogni tipo, ovunque arrivi un po’ di sviluppo, dalle città dell’interno al litorale, campo di esercitazione prediletto. Anni fa lo scrittore Alberto Moravia espose una sua insolita teoria: l’abusivismo diffuso nasceva, a suo dire, soprattutto dalla totale assenza di cultura urbana che caratterizzava immigrati meridionali i quali – gli abruzzesi in particolare – erano in origine pastori nomadi. Non so quanto fondamento avesse. Certo esiste una “cultura dell’abuso edilizio e urbanistico” che, negli anni Settanta, riguardava essenzialmente la grande area da Roma alla Sicilia e che oggi, dopo i condoni edilizi del 1984, del 1994 e del 2003 (governi Craxi, Berlusconi 1 e 2), è risalita anche al Centro-Nord dove risultava quasi estinta o comunque limitata a piccoli abusi (lo stenditoio, che diventa, ad esempio, mansarda). Una autentica tragedia nazionale. La quale ha concorso a estendere le ramificazioni del crimine organizzato, sotto forma di racket o di “assistenza” interessata.

In questo libro, utile in sé e per sé, frutto di una ricerca sul campo penetrante, è decisamente interessante l’analisi della natura dell’abusivismo romano, delle sue diverse fasi storiche nonché la descrizione dei vari tipi umani che ne sono stati o ne sono i protagonisti: l’abusivo semplice, “storico”, e cioè quello della “casa della domenica” a blocchetti di tufo; l’abusivo speculatore, i cosiddetti “speculatori mediani” che diventeranno spesso famosi come i furbetti del mattone; l’abusivo scientifico, quello che fa leva sul condono del 2003, con intenti speculativi molto mirati godendo di assistenza legale e tecnica continua (e che magari ha nel centro storico uno dei suoi terreni privilegiati di azione illegale); l’abusivo arrogante che si avvale anche di appoggi e di omertà decisamente allarmanti, di segno malavitoso. Ma non mancano pure casi stupefacenti di abusivismo “istituzionale” legato ad alcuni centri di potere politico-istituzionale che pensano di fare, più o meno, quello che vogliono. Certo è che, indebolitesi ormai le tracce di una “necessità sociale”, l’abusivismo sceglie i propri nuovi insediamenti nelle aree più pregiate della capitale, ai margini delle zone archeologiche o di grandi parchi, quello di Veio, in specie, che “entra” dentro Roma. Ma senza trascurare naturalmente l’Appia Antica dove tante sono state le demolizioni, specialmente sotto la presidenza di Gaetano Benedetto. Nel libro fanno impressione cifre da capogiro, capannoni da tre-quattromila metri cubi.

Un fenomeno che non si riesce a estirpare, anche per la progressiva riduzione (fino alla sparizione) dell’edilizia pubblica, in specie quella sociale in un Paese che è di nuovo finito ai primi posti di una classifica europea della vergogna. Un fenomeno del quale, anche per stanchezza (oggi è un po’ troppo facile, in verità), l’informazione si interessa a cicli, a ondate, senza fare il suo mestiere di scandaglio continuo, incessante, di ogni legalità, a partire da questa che somma illegalità urbanistica, edilizia, occupazionale, contributiva, fiscale, con ripercussioni negative sull’intero arco dei beni primari di una città e di un Paese. L’augurio è che una ricerca come questa – che fra l’altro contiene una cronistoria di casi di grande leggibilità e pertanto ancor più scioccante – concorra a risvegliare le coscienze intorpidite, a porre le basi per una ripresa dell’impegno civile e democratico per la legalità in generale e contro un groviglio micidiale di illegalità, di abusi, di mafiosità. Davvero in questa battaglia – che è una battaglia di civiltà – non possiamo mollare, non possiamo rassegnarci a subire il corso delle cose. Siamo sempre più i peggiori dell’Europa sviluppata e avanzata, retrocediamo agli ultimi posti. Stiamo stuprando, imbruttendo e dissipando, oltre tutto, un patrimonio di bellezza paesaggistica e ambientale che dovremmo invece conservare con la massima cura, anche soltanto per ragioni economicistiche, di tipo turistico-commerciale. Siamo stupidi e ciechi. Ma stiamo pure appannando una identità culturale nazionale, subendo quei “profani e scelerati barbari” dei quali Raffaello, primo soprintendente alle antichità dell’era moderna, denunciava nel 1519 i guasti orrendi. A forza di edilizia legale e illegale, in questi “anni di cemento” (e di asfalto), abbiamo consumato tanta buona terra agricola o a bosco e a pascolo dell’Agro Romano da far retrocedere il pur vastissimo comune di Roma dal primo al terzo posto (dopo Cerignola e Foggia) nella classifica dei comuni agricoli italiani. E senza aver affrontato seriamente l’emergenza-casa che si ripropone e che sposta i problemi della città oltre il gran raccordo anulare, addirittura oltre i confini della stessa provincia di Roma. V’è di più, in regioni ipersviluppate, come la Lombardia e il Veneto, la libertà di ogni pianificazione fondata sulla salvaguardia dell’interesse pubblico sta diventando tale che, paradossalmente, non ci sarà neppure più bisogno di costruire abusivamente. Il rapporto passa già, direttamente, fra i comuni e i maggiori detentori di aree, con la cancellazione di quella conquista di civiltà che erano stati, con la legge-ponte del 1968, gli standard urbanistici coi quali si prescriveva la dotazione, nei piani regolatori, di una certa quota per abitante di verde, di scuole materne e primarie, di strutture culturali, di quanto insomma fa della civile Europa, dalla Svezia all’Olanda, alla Germania, la civiltà dell’abitare di un popolo. Noi regrediamo ad un tale imbarbarimento urbanistico che edilizia legale e illegale finiscono praticamente per confondersi. E con un presidente del Consiglio tragicomico che, di fronte alle macerie del centro storico dell’Aquila, straparla per giorni di “new town” (poi, al solito, smentirà), pensando non a quelle volute, tanti anni fa, dai laburisti inglesi, ma alla “sua” Milano 2.

Roma, giugno 2009

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