Il manifesto, 5 agosto 2015
La riforma della pubblica amministrazione è stata approvata ieri in maniera definitiva dal Senato grazie alle opposizioni. Il governo Renzi è stato graziato da Forza Italia che ha votato contro il provvedimento, garantendo il numero legale. Se i voti a favore sono stati 145, 97 sono stati quelli contrari, senza astenuti. Se qualcuno avesse voluto fare male a Renzi – che ieri dal Giappone ha esultato a modo suo «abbracciando i gufi» via twitter – sarebbe bastato votare contro e l’esecutivo si sarebbe schiantato contro il muro del numero legale: 150 i voti necessari. Così non è stato e il parlamento ha dato carta bianca al governo di fare quello che gli pare con le 15 deleghe contenute in una legge composta da 23 articoli.
Dentro c’è di tutto: al governo è stata delegata la riscrittura del testo unico sul pubblico impiego che interverrà sulla «responsabilità» dei dipendenti pubblici, cioè dovrà rendere concreta la possibilità di condurre a termine le azioni disciplinari; modificherà il ruolo dei dirigenti vincolandoli ancora più strettamente alla politica, resteranno in carica quattro anni, più due di proroga, e dovranno accettare il demansionamento a funzionari, all’occorrenza. In caso contrario saranno licenziati. La legge rafforza oltre modo i poteri di intervento della presidenza del consiglio nell’ambito delle contese tra le amministrazioni centrali che riguardano la tutela paesaggistica e la salute. Sarà il presidente del consiglio a decidere, sentito il parere formale del consiglio dei ministri. Poteri rafforzati anche sulla riorganizzazione degli uffici dei ministeri sui quali Renzi, o chi per lui, potrà intervenire.
Nei decreti delegati, che saranno presentati da settembre, il governo potrà intervenire su una voce importante della ex-spending review voluta dall’ex commissario Carlo Cottarelli: la riduzione delle partecipate. La decisione di ridurle da «8 mila a mille» verrà presa nelle segrete stanze di palazzo Chigi. Se sarà presa. Le prefetture saranno riorganizzate, e non ce ne sarà più una per provincia. Nascerà l’ufficio territoriale unico dello Stato. Continua nel frattempo l’opera di riduzione delle camere di commercio vagheggiata sin dai tempi di Monti: saranno tagliate da 105 a 60. Confermata la cancellazione del Corpo forestale che sarà assorbito in un’altra polizia, si ritiene dai Carabinieri. Tra i molti dettagli-spot di una legge-lenzuolo c’è il wi-fi obbligatorio per gli uffici pubblici, scuole e biblioteche. Dopo la chiusura, diventeranno hot-spot per la cittadinanza; la possibilità di pagare via app multe fino a 50 euro; stop a 113, 118 e 115, previsto un unico numero per le emergenze, il 112. Introdotto la profilazione per ogni cittadino che avrà una carta digitale.
Se dal lato Pd si festeggia la «modernizzazione» praticata dalla riforma (Piero Fassino, sindaco di Torino e presidente Anci), a dir poco critici sono i sindacati del pubblico impiego. Il fuoco della loro critica resta l’assenza di ogni riferimento al contratto di lavoro nazionale, e quindi alla qualità e alla retribuzione dei dipendenti. In una nota congiunta Fp-Cgil, Cisl-Fp, Uil Fpl e Uil-Pa, la «riforma anti-gufi» di Renzi viene definita «illusoria». Non è con nuove norme che si cambierà la P.A. In compenso la cosiddetta «riforma Madia» (dal nome della ministra deputata) «riduce gli spazi di negoziazione e inasprisce i controlli di merito e compatibilità economico-finanziaria dei contratti» Non investe sulle professionalità, ma le disciplina e pensa, eventualmente, a punirle. «Il governo mantiene una Pa autoreferenziale — scrivono i segretari di categoria Dettori, Faverin, Torluccio e Turco — volutamente disorganizzata. Vogliamo il rinnovo del contratto subito».
Dal fronte politico delle opposizioni, Loredana De Petris (Sel) approfondisce la critica alla conferenza dei servizi e al «silenzio-assenso»: «Questa riforma sacrifica la terzietà della P.A., la trasforma in una piramide la sacrifica al potere politico. è l’esatto opposto di quello che bisognava fare».