Il manifesto, 14 aprile 2015
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Può un paese, che ha appena ricevuto la condanna della corte di Strasburgo, permettersi di giocare sulle delicate materie elettorali e costituzionali affidandosi alla giuliva esuberanza di Boschi e di Renzi, che scommettono sull’adozione in ogni angolo del continente delle loro splendide riforme illiberali?
Per ora l’Europa, nel campo del diritto pubblico, ha ricevuto dalla politica italiana solo la riesumazione della tortura di Stato, la fioritura delle leggi ad personam, la comparsa della giustizia penale con ben scolpito un volto di classe. Un’ennesima legge elettorale di segno illiberale e completo sarebbe il quadro della deriva dell’ordinamento.
Al posto di tante chiacchiere di ministri e relatori incompetenti chiamati a redigere le nuove norme per il voto, il parlamento dovrebbe confezionare una legge elettorale non sulla base dei sogni di successo del leader attuale, ma avendo un qualche disegno di sistema. I calcoli di intascare una vittoria certa, manovrando a piacimento le tecniche elettorali, peraltro non portano bene.
Ne fece le spese già un De Gasperi minore, che pagò la forzatura illiberale della legge truffa (premio del 65 per cento dei seggi al “polipartito” coalizzato) con una sconfitta, che accelerò il tramonto di un leader.
In nome della democrazia protetta e dello Stato forte, aveva sospinto il paese nelle incertezze di un conflitto radicale (clima di stato d’assedio a Roma, incidenti alla camera, Ingrao fu manganellato dalla celere, i deputati d’opposizione abbandonarono l’aula cantando l’inno della repubblica). E anche la strana coppia Occhetto-Segni, che aveva ottenuto il permesso di scrivere la nuova legge elettorale sotto dettatura referendaria, uscì di scena con le prime consultazioni maggioritarie. All’ingegneria elettorale di Calderoli non andò meglio.
Una democrazia malata che scrive tre leggi elettorali in vent’anni, e che da dieci lustri convive con una formula giudicata dalla Consulta incostituzionale, dovrebbe muoversi con ben altra responsabilità e cultura delle regole.
Il tempo per un consenso allargato del parlamento dovrebbe essere un imperativo irrinunciabile. E invece il mestiere delle riforme è appaltato a politici dell’improvvisazione che pretendono, con il 25 per cento dei voti, di imporre ad ogni costo, al restante 70 per cento, la regola del gioco fondamentale, quella elettorale escogitata per vincere.
Qualche solerte giurista all’odor di regime incoraggia il premier ad affrontare lo scontro in campo aperto, non esitando a ricorrere al voto di fiducia, che sarebbe un passaggio legittimato dal precedente della legge truffa, quando peraltro il parlamento aveva altri regolamenti. E’ vero che De Gasperi in aula pose la questione di fiducia ma, con il suo gesto (si appellò a «impellenti ragioni di calendario» e a «circostanze straordinarie»), provocò una crisi istituzionale lacerante, che nessuno statista lungimirante può permettersi di scatenare. Lo stesso presidente del consiglio riconobbe che «la fiducia su un disegno di legge non appartiene alla procedura usuale». Il presidente del senato Paratore lo interruppe scandendo: «e non costituisce precedente!».
Colpito dalle accuse del governo, in merito ai suoi sforzi di mediazione, e anche ai suoi cenni di apertura all’ipotesi di un referendum ventilata da Togliatti (si avviò la raccolta di 500 mila firme per la richiesta del referendum, da abbinare alle elezioni politiche con la scelta affidata agli elettori tra l’attribuzione dei seggi secondo la nuova o la vecchia legge), Paratore rassegnò le dimissioni.
Secondo il governo d’allora, il senato avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto della legge che riguardava solo le modalità di elezione della camera dei deputati. Ma, come rammentò Umberto Terracini, i precedenti storici smentivano la fretta del governo. Nel 1881–82 il senato non solo discusse i ritocchi alla legge elettorale ma votò emendamenti di cui fu tenuto conto. Le opposizioni si scagliarono contro la pretesa dell’esecutivo centrista di stabilire una data per l’approvazione del testo.
Il senso illiberale della legge truffa, disegnata per arginare quelli che Scelba chiamava «i massicci partiti totalitari», lo colse in pieno il giurista Vittorio Emanuele Orlando che stigmatizzò un’arbitraria propensione del potere in carica, quella di inventare le nuove regole a ridosso delle consultazioni elettorali (il progetto di legge fu presentato solo il 21 ottobre del 1952, con elezioni previste nella primavera del 1953), che purtroppo farà scuola. In una lettera Orlando ammonì: «Considero come disonesta ogni legge elettorale che sia precedente immediatamente le elezioni». E aggiunse: «Ora siccome il governo attuale vuole questo atto disonesto, precede la mia ribellione su questo punto».
I riscontri storici mostrano che non può esserci il sospetto, in un sistema democratico appena decente, di scrivere le regole “disoneste” della contesa sull’abito delle convenienze del detentore congiunturale del potere.
Le riforme, soprattutto se varate da un parlamento illegittimo quanto alla sua composizione alterata dal premio di maggioranza, non si definiscono seguendo le sirene del trionfo annunciato ma ipotizzando anche argini alla banalità del male. In un sistema tripolare, con partiti liquidi e forze a vocazione antisistema, è segno di pura incoscienza contemplare la possibilità che dal ballottaggio esca con i galloni del comando una formazione con il 20 per cento o anche meno dei consensi.
Nell’attuale sistema tutto si è sciolto e non esistono le condizioni reali per una competizione bipolare. Per questo la trovata del ballottaggio di lista perde ragionevolezza, efficacia. Lo scivolamento plebiscitario del Pd, che invoca i presunti mandati imperativi scaturiti dai gazebo, rivela un deterioramento del quadro istituzionale.
Costituisce «un pensiero aberrante», ha scritto Gianfranco Pasquino, l’idea di invocare la disciplina parlamentare sulle riforme, come hanno fatto Renzi, Boschi, persino i giovani turchi. «La disciplina di partito –spiega Pasquino– può essere richiesta ai parlamentari esclusivamente sulle materie inserite nel programma che il loro partito ha sottoposto agli elettori».
Se non una deriva autoritaria, un grave clima di degenerazione dello spirito costituzionale è già operante. Non c’è specialista di sistemi elettorali che non abbia mostrato i limiti strutturali dell’Italicum. Anche tra i giuristi non ostili verso il riformismo di Renzi si riconosce che l’Italicum «è molto simile al Porcellum» e non supera «le obiezioni sostanziali» mosse dalla Consulta, che anzi nel quadro tripartitico «risultano forse aggravate» (A. Marrone, “Il Mulino”, 2014 n. 4, p. 555).
Senza partiti funzionanti, in grado cioè di censurare il leader, di sfidarlo alla pari e di non essere dei passivi nominati agli ordini di chi ha lo scettro, l’Italicum oscilla tra cadute assembleari e velleità cesaristiche. All’elezione diretta del capo di governo, il congegno aggiunge anche il controllo del 55 per cento della camera delineando così un premierato illimitato. Una postmoderna repubblica delle banane con la leadership creata dai salotti della tv.
In questo quadro, è indispensabile la vigilanza critica del Colle, che dovrebbe essere allertato dal costoso precedente della mancata censura preventiva che nel 2006 consegnò il Porcellum viziato dai guasti illiberali denunciati dalla Consulta.
Non si tratta della consueta arte di tirare per la giacca il presidente coinvolgendolo nel gioco politico.
E’ invece l’attesa della rigorosa copertura del ruolo tracciato dalla Carta e che implica l’esercizio del rinvio per regole che emanano il solo dubbio di incostituzionalità. Dinanzi alla volontà di potenza di un partito (diviso) del 25 per cento, che ripropone una legge con antichi vizi (nessuna soglia è prevista per l’accesso al ballottaggio), tocca al Quirinale ripristinare le condizioni minimali di un confronto democratico così gravemente alterato.