Caro Salzano, mi pare davvero utile ed opportuno che la discussione continui. Penso che un confronto critico aperto sia quello di cui più che mai c’è bisogno anche (in realtà sto pensando ‘soprattutto’) in campo urbanistico. A questo proposito, mi farebbe piacere accostassi queste poche righe alla nota di commento al mio libro che hai pubblicato su eddyburg. Non voglio certo entrare qui in una discussione di dettaglio (chi fosse interessato troverà sviluppi più ampi in un testo di prossima pubblicazione, a cura di De Luca, che anche tu richiami). Solo vorrei fare una precisazione e segnalare alcune cose.
Inizio dalla precisazione: resto convinto che ci siano differenze significative tra una posizione liberale classica (che cerco di riprendere e sviluppare) e le pratiche di governo che oggi alcuni definiscono neoliberali o neoliberiste, ad esempio le pratiche di governo di cui parla David Harvey nel libro Breve storia del neoliberismo, 2007. Lo stesso Harvey è costretto a fare acrobazie d’ogni tipo (come tanti altri del resto) per riuscire a criticare, in un colpo solo e sulla base di una presunta obiezione unitaria, la teoria liberale classica e la teoria neoliberista contemporanea, la teoria conservatrice e la teoria neoconservatrice, le pratiche illiberali più disparate dei governi più vari, etc. Sia chiaro: Harvey ha ovviamente diritto (e, magari, anche ragione) a criticare un insieme di posizioni e pratiche che trova indesiderabili, ma crea solo un’inutile confusione fingendo che stiano tutte sotto lo stesso ombrello. Il punto è che molte pratiche di governo presunte liberali (ad esempio, in Europa o negli Stati Uniti) sono in realtà totalmente illiberali per il loro spregio della rule of law (ossia, della ‘supremazia e certezza del diritto’), l’autoritarismo centralizzatore, l’esorbitante potere attribuito all’esecutivo, l’inclinazione protezionistica, l’idolatria della tradizione, l’opposizione alla sperimentazione di nuovi stili di vita. Continuo a pensare che una posizione quale quella difesa ne La città del liberalismo attivo, 2007 (e nel mio libro precedente: L’ordine sociale spontaneo, 2005) non solo non sia affine a queste pratiche di governo, ma possa utilmente contribuire a criticarle. Cercherò, in futuro, di rendere questo punto ancor più evidente. La confusione che continua a regnare in proposito (e che anche un autore del calibro di Harvey contribuisce purtroppo ad accrescere) mi pare renda la cosa indispensabile.
I punti su cui volevo richiamare l’attenzione, sempre assumendo una posizione liberale classica in senso stretto e radicale (e non quell’instabile miscuglio di neoliberismo e conservatorismo di cui confusamente discute Harvey), sono i seguenti.
In primo luogo, la tradizione liberale a cui mi rifaccio non si disinteressa dei deboli: anzi, ritiene che i deboli sarebbero protetti meglio proprio entro un quadro liberale. Le idee liberali di costituzione, checks and balances, diritti individuali, tolleranza, etc. hanno come obiettivo principale proprio difendere i più deboli della società. L’idea è che la più solida difesa dei deboli si ottiene garantendo le libertà negative individuali di tutti (ossia le libertà alla non-interferenza, da parte di chiunque, nella sfera personale di ognuno). Lungi dall’essere solo libertà ‘formali’, le libertà negative individuali sono infatti quanto di più sostanziale si possa immaginare in difesa proprio dei più deboli (“È solo la libertà al negativo, la rivendicazione di una sfera di non-impedimento, che sta dalla parte dei sottoposti e che non può ritorcersi contro di loro”: Sartori, Democrazia e definizioni, 1959, p. 209. “Il liberalismo è il principio di diritto secondo il quale il potere pubblico [...] deve limitarsi e fare in modo [...] che nello stato [...] possano vivere anche coloro che non pensano né sentono come i più forti o come la maggioranza. Il liberalismo – è necessario oggi ricordarlo – è la generosità suprema: è il diritto che la maggioranza concede alle minoranze ed è dunque il più nobile appello che sia mai risuonato nel mondo [...]” (Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, 2001, p. 105). Dunque, non solo il tema del potere dei forti (governanti compresi) nei confronti dei deboli non è assente dalla tradizione del pensiero liberale, ma è la sua vera ossessione: tutto l’armamentario istituzionale di derivazione liberale può essere riletto come un tentativo di garantire una sfera protetta per chiunque. (Oltre alla imprescindibile difesa delle libertà negative, in un’ottica liberale si possono prevedere anche trasferimenti di risorse in favore di chi di fatto si trova in una situazione di disagio materiale, preferendo però strumenti tipo ‘reddito minimo’ o ‘buoni per servizi’ perché si tratta di forme più efficienti e più facilmente garantibili tramite procedure impersonali. Tutto ciò evitando però di illuderci che si possano creare mondi in cui tutti abbiano accesso a tutto, ed evitando di rendere difficile proprio ai più deboli migliorare la loro posizione nel deleterio tentativo di creare tali mondi impossibili. A margine, ricordo che è ormai riconosciuto da tutti che i sistemi di welfare tradizionali hanno trasferito risorse enormi verso le classi medie e non certo verso gli strati più bassi della società. È anche per questa ragione che credo sia meglio tornare a concentrarci su un’idea di ‘povertà assoluta’ e abbandonare l’idea di ‘povertà relativa’: si vedano Moroni e Chiappero-Martinetti, "Spazi plurali di povertà assoluta. Elementi per una teoria normativa", in corso di pubblicazione su ‘Etica ed economia’, IX/2, 2007).
In secondo luogo, il mercato non è una ‘divinità’ in un’ottica liberale quale la mia (se c’è una divinità, quella è il diritto). Il mercato è, semplicemente, la più efficace forma di organizzazione della vita economica che risulta compatibile con la garanzia di certi diritti individuali fondamentali e con la connessa idea della supremazia del diritto (come cornice impersonale e imparziale di convivenza). Di nuovo, non certo a esclusivo favore dei più ricchi. Per dirla con Mises, I fallimenti dello stato interventista, 1997, p. 365: “Un’economia di libero mercato non è un sistema raccomandabile dal punto di vista degli interessi egoistici degli imprenditori e dei capitalisti. L’interesse particolare di un gruppo o di singoli individui non ha bisogno dell’economia di mercato; è il benessere generale che ne ha necessità. Non è vero che i difensori dell’economia di mercato siano i difensori degli interessi egoistici dei ricchi. Gli interessi particolari degli imprenditori e dei capitalisti invocano l’interventismo, per proteggersi dalla competizione di individui più efficienti e maggiormente attivi. Il libero sviluppo dell’economia di mercato deve’essere tutelato non nell’interesse del ricco, ma nell’interesse di tutti i cittadini”. E ancora: “È largamente diffusa l’opinione che il liberalismo si distingua dagli altri indirizzi politici perché privilegia e difende gli interessi di una parte della società – dei possidenti, dei capitalisti, degli imprenditori – rispetto a quelli di altri ceti sociali. Ma si tratta di una supposizione del tutto infondata. Il liberalismo ha sempre guardato agli interessi generali, mai a quelli di un gruppo particolare qualsiasi [...]. Storicamente il liberalismo è stato il primo indirizzo politico attento al benessere di tutti e non a quello di particolari ceti sociali” (p. 33).
In terzo luogo, quando si parla di proprietà, credo sia utile distinguere tra ‘il diritto di detenere proprietà privata’ e ‘il diritto dell’individuo X di detenere la proprietà Y (ad esempio, il suolo Y)’. Il primo è un diritto basilare formale. Il secondo è un titolo giuridico sostantivo ad una cosa particolare (che sarà legittimo se sarà stato ottenuto nei modi previsti dalla legge: ad esempio acquistandolo liberamente da K, ottenendolo in eredità da Q, ricevendolo in regalo da H, etc.). È ovviamente il primo che i liberali (sottoscritto compreso) difendono come uno dei diritti individuali fondamentali: il fatto che tale diritto esista è infatti decisivo per chiunque, proprietario e non. La difesa di questo diritto non è perciò a favore dei proprietari effettivi di titoli a Y (o W), ma a favore di tutti. Con le parole di Hayek, Legge, legislazione e libertà, 1986, p. 151: “Gli attacchi… al sistema della proprietà privata sono riusciti a diffondere la credenza secondo cui l’ordine che in base a tale sistema… viene sostenuto è al servizio di interessi particolari. Ma la giustificazione del sistema della proprietà privata non si ritrova nella tutela degli interessi dei proprietari. Tale sistema serve sia gli interessi di coloro che momentaneamente posseggono una proprietà, sia quelli di coloro che momentaneamente non la posseggono, poiché lo sviluppo dell’intero ordine di azioni da cui dipendono le moderne forme di civiltà è stato reso possibile solo grazie all’istituzione della proprietà medesima”. Questo punto, effettivamente controintuitivo, è quello che da qualche secolo si continua a non cogliere; in buona parte dipende dal fatto che l’idea diffusa di proprietà è ancor’oggi retaggio di antiche forme di organizzazione sociale in cui i diritti individuali (a partire proprio da quello di proprietà!) non erano per nulla universali e il mercato non esisteva affatto in forma compiuta. Come osserva Heath, Citadel, Market and Altar, 1957, pp. 123-124, gli uomini godono normalmente dei vantaggi dell’esistenza dell’istituto della proprietà privata “anche se il loro concetto tradizionale ed emotivo della proprietà in generale – e della proprietà della terra in particolare – li spinge a vederla come un privilegio […] da cui l’umanità come tale è esclusa e nessuno che non sia il fortunato proprietario può goderne. È come se tutta la proprietà e la ricchezza fossero beni personali posseduti solo per essere consumati o distrutti a scopo di auto-gratificazione o per qualche sinistro progetto antisociale. Questo è il lascito persistente alla mentalità moderna del nostro passato remoto e totalitarista, quando non c’era una libera economia di mercato e ben pochi uomini liberi”. Ammetto di non aver approfondito la cosa nel libro come sarebbe probabilmente stato utile e mi ripropongo di tornarci (a proposito posso segnalarti un fatto curioso, ma, credo, interessante: tu mi accusi di aver dato peso eccessivo ed esclusivo alla proprietà nel mio libro, mentre Carlo Lottieri, in un intervento che finirà sempre nel volume curato da De Luca, mi rimprovera per essermi pressoché dimenticato di trattarne…).
In quarto luogo, mi sembra utile ribadire che il diritto di detenere proprietà privata (di beni), pur fondamentale in una prospettiva liberale, non è certo l’unico diritto basilare cui si riconosce importanza in tale prospettiva; i diritti alla libertà di espressione, coscienza, culto, associazione, etc. hanno anch’essi una chiara origine e matrice liberale (ed io li ritengo, ovviamente, della massima importanza: tanto che sto completando un altro libro ove al centro di tutto sta il diritto di associazione). Ragion per cui – e concludo questo punto – il liberalismo è anche il fondamento etico-giuridico necessario e imprescindibile della democrazia. (Per citare ancora Sartori, 1957, p. 28: “A forza di dire soltanto, per brevità, democrazia… quel che resta innominato viene dimenticato, o, comunque, viene posposto e subordinato: finisce che la democrazia – vocabolo espresso – sta sopra. E che il liberalismo – vocabolo sottinteso – sta sotto. Il che è esattamente il contrario della verità”. In modo analogo – e per citare un altro insospettabile – si esprime Bobbio, Il futuro della democrazia, 1984, p. 6: perché si dia democrazia è necessario che siano prima garantiti “i cosiddetti diritti di libertà, di opinione, di espressione della propria opinione, di riunione, di associazione, etc, i diritti sulla base dei quali è nato lo stato liberale ed è stata costruita la dottrina dello stato di diritto in senso forte, cioè dello stato che non solo esercita il potere sub lege, ma lo esercita entro i limiti derivati dal riconoscimento costituzionale dei diritti cosiddetti inviolabili dell’individuo… Dal che segue che lo stato liberale è il presupposto non solo storico ma giuridico dello stato democratico”).
In quinto luogo, non credo sia difficile ammettere che la pianificazione urbanistica tradizionale è stata spesso utilizzata per difendere proprio gli interessi immobiliari (non il ‘diritto generale a detenere proprietà privata’, ma ‘le proprietà specifiche di alcuni’). Certo, si può sostenere che questo è dipeso da politici e amministratori che sono colpevolmente venuti meno ai loro obblighi e da imprenditori dediti a pratiche fraudolente, ma penso sia lecito sollevare il dubbio che possano esserci stati dei problemi strutturali: la possibilità di differenziare le singole posizioni tramite zonizzazione di dettaglio, prevista e avvalorata dalla pianificazione urbanistica tradizionale, può ad esempio essere riconosciuta come responsabile principale del crearsi di pressioni e collusioni di vario genere. (Come scrive Nozick, Anarchia, stato e utopia, 1981, p. 288, “l’uso illegittimo di uno stato da parte d’interessi economici per scopi economici si basa su un preesistente potere illegittimo dello stato di arricchire alcune persone a spese di altre. Se si elimina quel potere illegittimo di dare vantaggi economici differenziali, si elimina o si riduce drasticamente il motivo per desiderare influenza politica”).
In sesto luogo, può darsi che i diritti previsti dalla tradizione liberale (anche nella forma aggiornata e integrata in cui la ripropongo) non siano sufficienti; questo è un punto d’attacco rilevante della tua critica (direi il più importante), solo vorrei sottolineare che estenderli non vuol dire riconoscere ‘diritti comuni’, vuol dire, semplicemente, riconoscere altri ‘diritti individuali’. Di fronte alla possibilità di allungare la lista dei diritti, è comunque sempre il caso di chiedersi se ne vale la pena (ossia, se nel farlo non stiamo per caso mettendo a rischio altri diritti cui maggiormente teniamo o dovremmo tenere) e se saremo in grado di ottemperare all’impegno (ogni volta che aggiungiamo ‘diritti positivi’ serviranno infatti risorse da impiegare in modo efficiente per garantirli effettivamente e non sarà sufficiente proclamarli). Hai comunque totalmente ragione ad invitare ad approfondimenti e discussioni su questo aspetto cruciale.
Un’ultima osservazione: ho visto che è apparso sul sito anche un lungo, interessante intervento critico di Camagni sul mio lavoro; pubblicherò una risposta estesa all’intervento di Camagni sulla rivista ‘Scienze Regionali’ (volta a mettere in luce, da un lato, come l’economia normativa mainstream si sia sviluppata in una prospettiva etica totalmente diversa da quella liberale classica – senza, apparentemente, accorgersene – e, dall’altro, come essa venga troppo spesso inopportunamente spacciata come un esercizio di puro ragionamento tecnico). Qui vorrei limitarmi ad osservare che, diversamente da quanto Camagni sostiene, non ho mai affermato che il liberalismo (in senso classico) sia incompatibile con la pianificazione: lo è se quest’ultima pretende di essere la forma di coordinazione principale delle attività private (come buona parte della tradizione urbanistica ha sempre richiesto); non lo è se diventa lo strumento di coordinazione esclusivamente di certe attività pubbliche (come io propongo). In termini generali, il punto centrale del mio libro non è un’idea idilliaca del mercato, ma una concezione realista delle istituzioni. A questo proposito, faccio mia questa osservazione di Caldwell, Hayek’s Challenge, 2004, p. 397, relativa alle ripetitive critiche rivolte alla prospettiva hayekiana e a quelle affini: “Hayek’s critics employ a strategy that is both familiar… and suspect. In economics, the strategy begins by assuming that Hayek was trying to prove that market always work efficiently… The critic then provides examples of cases in which markets fail to function properly. Hayek is, thus, supposedly refuted (and, in the process, revealed as an ideologue). This line of attack fails, however, because the initial premise is demonstrably false: Hayek never claimed optimality for markets… Hayek insights are more evident when one reads him as investigating alternative institutions rather than as constructing proofs of optimality. What are the alternative institutional forms that might be used in structuring society?”.
Grazie come sempre dello spazio, dell’attenzione e degli spunti critici su cui continuerò a riflettere, Stefano Moroni
Caro Moroni, non ho tempo di formulare una replica più ampia alle tue note, e mi limito a un paio di battute. Mi sembra che le teorie che esponi non abbiano nessun riferimento concreto con la realtà nella quale viviamo. Il liberalismo attivo del quale discetti è molto molto più lontano da me, e dalla cocncretezza del mondo, di quanto non non lo siano i caciocavalli appesi con i quali Benedetto Croce illustrava alla sua cuoca le idee alloggiate nel platonico iperuranio. La tua riflessione teorica sul “liberalismo attivo”, dato il terreno delle azioni al quale vuole applicarsi, non mi sembra abbia molto senso se non si connette alla concretezza del mondo attuale, così come è stato formato anche da quel complesso di ideologie delle quali il liberalismo, con tutte le sue inflessioni e modulazioni (compresa quella minore di von Hayek) è stata parte egemonica. Ed è proprio su questo piano che la tua riflessione mi sembra fuorviante.
Ad esempio, dici:”la tradizione liberale a cui mi rifaccio non si disinteressa dei deboli: anzi, ritiene che i deboli sarebbero protetti meglio proprio entro un quadro liberale”. Ma il mondo che è stato foggiato e celebrato dalla “tradizione liberale” è un mondo del quale la povertà è un portato ineliminabile: ne è il necessario prodotto. Ha senso immaginarsi un “liberalismo attivo” caritatevole nei confronti della povertà, come del resto è stato il liberismo ottocentesco, se non ci si domanda quali sono i meccanismi del sistema economico-sociale che provocano, in tutto il mondo e perfino in Europa, la crescita della povertà?
E ha senso ragionare, in modo certamente raffinato e colto, sulla distinzione tra “ diritto basilare formale” e ” titolo giuridico sostantivo” in relazione alla proprietà, se si dimentica che in nessuna immaginabile situazione a tutti può ugualmente essere attribuito il “titolo giuridico sostantivo” della proprietà, cioè il concreto e “libero” possesso dei mezzi che garantiscano un adeguato livello di benessere e di felicità?
Ma io credo che la distanza massima tra noi è segnata dal diverso ruolo che attribuiamo ai “diritti comuni”. Per te sono semplicemente una espansione dei diritti individuali. Per me sono la garanzia che, tra i principi che regolano la vita dell’uomo e della società, esiste anche quello dell’eguaglianza, e che tra le prospettive assegnate alla nostra civiltà ci sia quella di non essere costituita da una massa di individui ma da una società.