Gliultimi venticinque anni dovrebbero aver insegnato che la trasformazioneartificiale di minoranze in maggioranze finisce solo col costruire giganti coni piedi d’argilla – forti in Parlamento, deboli nella società». il manifesto,31 maggio 2017
Gliopposti veti incrociati stanno facendo convergere i partiti verso una leggeelettorale ispirata al modello tedesco, sia pure con negative modificazioni:sicuramente l’esclusione del voto disgiunto, che mira a concentrare i voti suipartiti maggiori; più difficilmente l’introduzione di un premio di maggioranzaalla lista che supera una certa soglia (il 40%).
Perdare un giudizio ponderato occorrerà, dunque, aspettare la definizione delladisciplina nei dettagli, ma a sinistra le prime reazioni sono già di segnodiverso. A quanto si legge sui giornali, mentre Sinistra italiana e Articolo 1guardano con interesse a quel che sta accadendo, Campo progressista manifestauna posizione nettamente critica. Coerentemente con la posizione favorevolealla revisione costituzionale renziana, Pisapia è ostile all’evoluzione inatto, perché – dice – la legge alla tedesca «condurrà molto probabilmente a ungoverno di larghe intese». Il governo di coalizione – l’inciucio! – eraesattamente lo spauracchio agitato da Renzi a sostegno della revisionecostituzionale che, unitamente all’Italicum, avrebbe finalmente dovuto dare alPaese un governo «la sera stessa delle elezioni».
Losforzo maggiore compiuto da chi, nei lunghi mesi della campagna referendaria,si è impegnato ad argomentare un voto consapevole in favore del No è statoproprio combattere la fallacia di questo argomento. Partendo dallaconstatazione oggettiva di una società divisa in tre grandi orientamentipolitici (Pd, M5S, destra), tutti oscillanti intorno al 30% delle preferenze,in ogni occasione si è ripetuto quanto risulti sterile «gonfiare», attraversomeccanismi maggioritari, un consenso elettorale minoritario facendolo diventaremaggioranza in Parlamento. L’antica ascendenza magica del diritto continua evidentementea farsi sentire, se in tanti, anche a sinistra, continuano a credere che unaformuletta (la formula elettorale) possa realmente trasformare una minoranza inmaggioranza: vale a dire, una cosa nel suo opposto.
Gliultimi venticinque anni dovrebbero aver insegnato che la trasformazioneartificiale di minoranze in maggioranze finisce solo col costruire giganti coni piedi d’argilla – forti in Parlamento, deboli nella società – privi dellacapacità di creare consenso popolare intorno alle decisioni imposte dentro ilPalazzo. Se guardiamo alla storia repubblicana, emerge con evidenza che ilmomento di massima governabilità – cioè il momento in cui la politica ha saputotrasformare la società più in profondità – si è avuto quando massima è stata lacapacità di rappresentare le articolazioni dell’elettorato. Dalla riforma dellascuola media (1962), alla istituzione del Servizio sanitario nazionale (1978) –passando per la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962), la previdenzasociale (1969), l’abolizione delle gabbie salariali (1969), i diritti deilavoratori (1970), il divorzio (1970), la legislazione sul referendum (1970),le Regioni (1970), la progressività fiscale (1974), il diritto di famiglia(1975), la legge urbanistica (1977), l’aborto (1978), la chiusura dei manicomi(1978) – si è assistito a provvedimenti assunti sempre allargando l’area dellamaggioranza, dapprima nella prospettiva dei governi di centro-sinistra, poi inquella del compromesso storico. Per individuare il momento in cui la storiarepubblicana imbocca la parabola discendente, occorre guardare al Congresso Dcdel 1980, con il noto preambolo che, riesumando la logica dell’esclusionepolitica, chiudeva l’esperienza voluta da Moro e Berlinguer e trasformava ilcentro-sinistra nel pentapartito.
Oggila società è divisa come, se non più, che nel dopoguerra. Le diseguaglianzesono profondissime: nonostante l’Italia sia ancora una delle dieci maggioripotenze economiche del mondo, è oramai al terzo posto in Europa per numero dipoveri. In questa situazione occorre riscoprire la valenza profonda dellafunzione parlamentare, che è far dialogare i diversi, non metterne uno incondizione di prevalere sugli altri. La legge deve tornare a essere il fruttodi una discussione volta a costruire il massimo consenso possibile intorno allesoluzioni prospettate, non l’imposizione – magari a colpi di decreti-legge – diuna parte sulle altre. Solo così si può sperare di riuscire a incidere davverosull’esistente.
Oggi,questa consapevolezza per molti è andata perduta. Una legge elettorale checostringa i diversi a dialogare può contribuire a farla riemergere. Per questoci siamo battuti, perché il 4 dicembre non si affermasse un sistemaistituzionale definitivamente basato sulla contrapposizione e sull’esclusione.
Ora,è il momento di iniziare a ragionare nella logica del dialogo edell’inclusione. Il cambio di paradigma culturale è sempre difficile, ancheperché difficilmente i risultati arriveranno a stretto giro. Ma chi fa politicadovrebbe sapere che seminare oggi è condizione per poter raccogliere domani.