Obama ha detto che il Sì al referendum sulla riforma costituzionale «può aiutare l’Italia a procedere verso un’economia più vibrante, verso un sistema più efficiente». Non solo. Il presidente degli Stati uniti ha voluto sottolineare che se, sfortunatamente, Renzi il referendum dovesse perderlo, «secondo me dovrebbe restare in politica». L’endorsment a stelle e strisce metterà le ali ai piedi del nostro presidente del consiglio, atteso a rapporto dai vertici di Bruxelles sui conti pubblici.
Non che in Europa gli siano mancati gli sponsor, da Merkel a Hollande a Moscovici, o che abbia da temere da chi, Osce, Fmi, JPMorgan, Ficht, governa la finanza internazionale. Ma certo il pieno, fragoroso sostegno americano, sul nostro mercato elettorale è un carico da novanta. Del resto già l’ambasciatore Usa in Italia aveva annunciato il convinto appoggio d’Oltreoceano.
Certo, quando Alcide De Gasperi, dopo la guerra, andò negli Stati uniti con il cappello in mano a ringraziare per gli aiuti del Piano Marshall, erano altri tempi.
Ma il vizietto di considerarci il fedele alleato da usare nel teatro europeo, e in quelli infiammati dalle guerre americane, non cambia. Forse, però, sono cambiati gli italiani, che hanno ben assaggiato i frutti avvelenati della grande crisi provocata proprio da chi oggi ci regala il suo Sì alla riforma costituzionale. Non avrebbe potuto scegliere giornata peggiore, Obama, per rallegrarsi delle riforme renziane. I dati sul fallimento del Jobs act, sulla ripresa dei licenziamenti, sul ritorno delle finte partite Iva, sui centri della Caritas frequentati più dai giovani italiani del Sud che dagli immigrati, ci tengono svegli anche di notte.
Questa mobilitazione internazionale a favore della rottamazione costituzionale dimostra, se ce ne fosse bisogno, l’importanza del voto del 4 dicembre. E forse non esagerava Rino Formica quando, in una recente intervista al nostro giornale, spiegava che il referendum e la battaglia tra il No e il Sì sarà importante come quella tra monarchia e repubblica.