Credo che sulla polemica esplosa in seguito alla dichiarazioni di Camillo Davigo occorra un di più di riflessione politica, rispetto alle schermaglie formali, alle difese e alle accuse che abbiamo letto in questi giorni. Sotto la densa polvere che si è alzata occorre cogliere una sostanza politica di primissimo rilievo. Sono in totale disaccordo con quanto sostiene Anna Canepa, segretaria di Magistratura Democratica, a proposito delle posizioni di Camillo Davigo, nell'intervista concessa ad Andrea Fabozzi, sul Manifesto del 24 aprile. Sono in disaccordo non tanto per i contenuti in sé, che rientrano in logiche e schermaglie di corrente e che interessano a pochi italiani. Anche se nell'intervista vi si leggono banalità folgoranti del tipo: «Noi pensiamo che la corruzione non possa essere affrontata esclusivamente in termini repressivi». Un motivo di bassa retorica per depotenziare le posizioni di Camillo Davigo e ridurlo al rango del Grande Repressore.
Capisco bene quanto ha dichiarato ad Aldo Cazzullo, Reffaele Cantone, in un'intervista su Corriere del 23 aprile: «Mani Pulite ha fallito perché le manette non bastano». Certamente, le manette non sono bastate e non bastano mai, in nessun caso. Ma chi doveva far seguire alla repressione i fatti di una profonda trasformazione della macchina amministrativa, delle procedure giudiziarie, delle strutture della vigilanza e dei controlli? Chi se non i governi e il ceto politico? Chi non ha fatto seguire alla galera i fatti positivi di un profondo rinnovamento anche dello spirito pubblico nazionale? Chi, se non il potere legislativo e gli esecutivi? Sono costoro che sono mancati alla prova. Non certo i magistrati, che avevano svolto il loro compito e a cui spettano altri compiti.
Abbiamo già dimenticato? Noi siamo appena usciti da una fase storica in cui un avvocato, Cesare Previti, che faceva vincere le cause al suo padrone comprando i magistrati che lo giudicavano, è diventato ministro della Repubblica. Vigeva allora la barbarie giustizialista? Erano gli anni in cui il presidente del Consiglio, Berlusconi, con i suoi avvocati fatti eleggere in Parlamento, si faceva emanare le leggi che dovevano salvarlo dalla cause pendenti. L'intero parlamento della Repubblica asservito ai voleri, ai capricci, perfino alle bugie ridicole di un magnate. A questo giustizialismo allude Renzi? Sono anni di giustizialismo i nostri, in cui il parlamentare Denis Verdini, amico del presidente del Consiglio Renzi, e suo importante sostegno politico, con ben 6 rinvii a giudizio, è tranquillamente al suo posto e continua a onorare della sua presenza il nostro Parlamento? Ma perché Renzi scopre oggi l'urgenza del garantismo? Non è per caso che, avendo fondato il suo potere su una costellazione di appoggi, dal mondo imprenditoriale a quello finanziario - come ha ben scritto A.Floridia sul Manifesto del 14 aprile - teme che qualche inchiesta giudiziaria possa mandare in aria il suo traballante castello?
Ora, nel paese in cui si tende a guardare solo al dito e a non scorgere la luna, bisogna ricordare che Davigo ha anche fatto una affermazione importante, ripresa da pochi: «la classe dirigente, quando delinque, fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada, e fa danni più gravi». Ed è questo il punto, il vero punto da discutere. Perché la corruzione dominante nel nostro paese, non è quella dei ladruncoli di strada, ma delle classi dirigenti. E tra queste, lo si voglia o no, occorre metterci mafia, 'ndrangheta e camorra, sia per l'imponenza dei capitali che muovono, che per l'ampiezza dei territori che controllano. Tale corruzione non è solo rilevante per il danno economico che infligge al paese, com'è universalmente riconosciuto. Essa rivela in realtà una questione politica di prima grandezza, a cui la sinistra dovrebbe guardare con più attenzione.