Si vota! Sembra incredibile ma siamo riusciti a far esprimere il popolo sovrano su questioni fondamentali per il nostro futuro, senza la mediazione dei partiti e delle burocrazie politiche. Siamo riusciti ad aprire un dibattito serio nel paese e a proporre politicamente strumenti di azione ed un linguaggio nuovo, quello dei beni comuni, che esce dalle stanze degli addetti ai lavori.
Non è un traguardo da poco, né era scontato che saremmo riusciti a raggiungerlo. Un voto popolare per invertire la rotta rispetto ad un modello di sviluppo fondato sull'ideologia della privatizzazione e su un rapporto fra l'interesse pubblico e quello privato sempre più spostato a favore di quest'ultimo, non poteva che dar fastidio a molti. E i suoi esiti possono essere politicamente dirompenti, forse perfino costituenti di una fase nuova finalmente capace di superare in Italia il blocco del pensiero unico che paralizza ogni possibilità di uscita dalla crisi. Comunque, siamo riusciti a fermare il folle banchetto nucleare che pareva già imbandito quando, poco più di un anno fa, si siglavano gli accordi italo-francesi fra Edison ed Edf. Questo pactum sceleris poteva esser presentato, senza pudore, come un passo verso la modernizzazione sulle pagine dei giornali.
Adesso la Confindustria, che già aveva l'acquolina in bocca per i ricchi trasferimenti dal settore pubblico a quello privato, si agita vieppiù nervosamente perché rischia di veder sfumare anche il business dell'acqua, dei trasporti e della spazzatura. Infatti, se dovessimo vincere il referendum, organizzeremmo la gestione dell'acqua in modo coerente con la sua natura di bene comune: ne affideremmo la gestione ad un settore pubblico ristrutturato e democratico seguendo una logica ecologica e di lungo periodo. Troveremmo gli investimenti per un grande di intervento pubblico sul territorio, per ristrutturare le infrastrutture e prevenirne il degrado. Creeremmo così posti di lavoro garantiti come quelli che, sembra un secolo fa, avevano i cantonieri prima che Anas si trasformasse in un una agenzia di gestione di gare d'appalto. Perché il privato dovrebbe investire sul lungo periodo? Perché le gare dovrebbero essere trasparenti e meritocratiche? Perché non dovrebbero esserci soldi pubblici per una riconversione ecologica del nostro modello di sviluppo mentre ci sono (200 milioni al mese) per massacrare civili in Libia e Afghanistan, in brutale violazione della Costituzione?
Porre queste domande non è stato facile. Il governo ha iniziato inserendo addirittura nel preambolo del decreto Ronchi la grande menzogna per cui la dismissione a favore del privato del servizio idrico e degli altri servizi di interesse economico generale (trasporti e spazzatura) sarebbe stato obbligatoria sul piano europeo e quindi non sottoponibile a referendum. Questo argomento è stato il mantra ripetuto dai nostri oppositori (bipartisan) mentre noi raccoglievamo milioni di firme e iniziavamo un grande processo dal basso di alfabetizzazione idrica, ecologica ed istituzionale che, già da solo, ha reso l'Italia un luogo migliore. Poi la Corte Costituzionale ha accolto per due terzi il nostro impianto referendario, sbugiardando sul punto il governo, mettendo in chiaro i limiti culturali dell'impostazione dell'Avvocatura dello Stato, e riconoscendo l'importanza anche giuridica della nozione di beni comuni (poco dopo la nozione è stata elaborata anche dalle Sezioni Unite della Cassazione).
Da quel momento il governo avrebbe dovuto divenire "amministrazione", rispettando la Costituzione. Lungi dal farlo, il governo ha innanzitutto dilapidato 350 milioni (di quel denaro pubblico impossibile da trovare per riparare gli acquedotti) rifiutando l' "election day". Abbiamo puntualmente presentato ricorso contro questa autentica vergogna, ma né il Tar Lazio né la Corte Costituzionale hanno avuto il coraggio di opporvisi. Dal 4 aprile poi è scattata la par condicio, che ha reso tabù la discussione sui beni comuni mentre, nel frattempo, la maggioranza faceva melina in Commissione di Vigilanza per impedire che si emanassero i decreti necessari per assegnare gli spazi ai promotori.
Quando la terribile tragedia di Fukushima rende impossibile non parlare di questione nucleare, il governo, come un bambino beccato dalla mamma con le mani nella marmellata, mette a segno l'autogol per far saltare i referendum. Con l'approssimazione giuridica che contraddistingue una maggioranza che a furia di disprezzare la legge non sa più utilizzarla, il decreto omnibus, cerca di cancellare il voto sul nucleare.
Se per qualche settimana la confusione prodotta nell'opinione pubblica è stata totale, il tentativo di scippo goffo e maldestro dell' ultimo minuto ha scatenato nel corpo elettorale gli anticorpi dell' indignazione. La nostra energia si è moltiplicata, nuovi appoggi, fino a quel momento impensati, sono arrivati alla nostra compagine. Mentre il legame culturale fra il nucleare e l'acqua, declinato nella riflessione sui beni comuni faceva crescere lo spessore politico delle nostre analisi ed il significato del referendum, il mondo cattolico, mobilitato da quel grande campione di visione politica di lungo periodo che è Alex Zanotelli scendeva apertamente in campo.
In questo scenario sociale i referendum, con la rete di diverse decine di migliaia di attivisti per gran parte estranei ai partiti, paiono proprio il corrispondente italiano delle primavere arabe e degli indignados spagnoli. Fra poche ore sapremo se il nostro disegno di conferire forza politica costituente a un grande ripensamento dei rapporti fra pubblico e privato attraverso lo strumento dei quesiti referendari abrogativi sui beni comuni, sarà condiviso dalla maggioranza del popolo italiano. In caso affermativo, l'avidità per l'oro blu avrà sciacquato via, almeno in Italia, la fine della storia ed il pensiero unico.