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Paolo Rumiz
Un uomo da marciapiede su quell’asse tra città e poderi
8 Agosto 2015
Beni culturali
La sesta tappa della traversata della storia e della geografia "alla ricerca dell’Appia perduta.«A Borgo Fàiti un buon albergo spezza l’incubo del rettifilo C’era già un punto di sosta 23 secoli fa e vi scorre accanto il fiume Cavata». La Repubblica, 7 agosto 2015

UN rettifilo di cinquanta chilometri, il più lungo d’Europa. Roba da far uscire pazzi gli automobilisti, che infatti si schiantano. Ma al pedone va peggio. Diventa un miserabile, un rifiuto dell’umanità, un uomo da marciapiede. Fra Cisterna e Terracina, dobbiamo affrontarlo questo velodromo senza misericordia e senza il diversivo di un saliscendi. Non c’è scampo, perché la via Appia nuova è costruita integralmente sul terrapieno di quella vecchia, che già tagliava gli acquitrini dell’Agro pontino. La “colpa” è di papa Pio VI, che nel Settecento volle riattarla all’uso viario e riportò in luce il mirabile manufatto — argine, pietre miliari e lastricato — inclusi “li ponti, che furono giudiziosamente costruiti da’ nostri maggiori per dare passaggio alle acque”. Peccato che tutto fu ricoperto e in gran parte demolito per lasciar posto alla strada nuova.

Figurarsi cosa accadde quando nel cielo d’Italia apparve l’uomo che diceva “Noi tireremo dritto”. Vide l’Appia e uscì di testa. La Linea era il simbolo della romanità ritrovata, il nesso del destino con la via Emilia presso la quale egli era nato. Ma era soprattutto l’asse su cui innestare il reticolo ortogonale delle bonifiche littorie. Le quali estirparono la malaria, diedero lavoro ai contadini, ma portarono all’estremo la geometria ossessiva dello spazio pontino. L’era delle tangenziali, dei Tir e dei Rottweiler ai cancelli, completò la disumanizzazione. Unica salvezza, i pini marittimi, che ai tempi di Roma non esistevano (le legioni dovevano poter guardare lontano!) e oggi offrono al viandante un po’ d’ombra e una minima corsia erbosa di salvataggio.

… Proviamo col bus, una deroga sofferta al cammino, per soli 20 chilometri, fino a Borgo Fàiti, l’antica Forum Appii.
Al botteghino ci guardano strano.
«E che ci andate a fa’ sull’Appia? Non ci abita nessuno».
Inoppugnabile. L’Appia è solo un asse, perfora il vuoto. Le fattorie, le città e i poderi sono tutti ai lati. Per andare a Borgo Fàiti dovremo deviare per Latina e aspettare la coincidenza. Facevamo prima a andare a piedi.
«Aò, a ‘ndo vanno quelli?», sento dire di noi.
«Se fanno ‘a Franciggena».
«Ma chi je lo fa fà».

Partiamo. Ma è tremendo lasciare la Linea. Il Gps va in tilt e nel gruppo serpeggia lo spaesamento, mentre la corriera divaga e ci depista, sguazzando nella toponomastica littoria — Montello, Podgora, Bainsizza, Borgo Piave, via Enrico Toti — con la Grande Guerra che ci insegue anche qui, fra campi di kiwi e grandi nubi abbacinanti.

A Latina Mussolini incombe con architetture squadrate, ma tira un’arietta polverosa, texana. Bullotti a zonzo tra le pensiline dell’autostazione, con le locandine dei giornali che invocano “Pistole per i vigili urbani”. C’è la cosca dei Casalesi che spadroneggia e risale la via di Appio Claudio verso Roma.
...
A Borgo Fàiti un buon albergo sulla strada, unico punto di sosta a spezzare l’incubo del rettifilo. Ce n’era uno già 23 secoli fa, e, come allora, vi scorre accanto il fiume Cavata, che irrompe, fresco e verde, giù dai Lepini per infilarsi sotto l’Appia con un robusto ponte antico e formare un canale parallelo sul lato Sud della via. La soluzione furba per continuare ci sarebbe: un paio di canoe. Ad averle, arriveremmo senza sforzo a Terracina in favor di corrente. Esattamente come i Romani, che qui potevano proseguire su chiatte agganciate a muli o cavalli.
“Fastidiose zanzare e rane palustri allontanano il sonno”, racconta Orazio del suo imbarco notturno in questo punto. E prosegue: “ Il traghettatore e un passeggero, sbronzi di vino andato a male, cantano a gara l’amica assente, finché il viandante stanco inizia a dormire e il marinaio, pigro, lega a una roccia le briglie della mula per mettersi a russare” anziché iniziare la navigazione, per la quale ha già incassato il denaro. Ma dopo un po’ un passeggero imbestialito afferra una verga e mena il malcapitato per farlo ripartire sul far dell’alba. ...
Si prova l’affondo con passo legionario. Basta chiudere i boccaporti col mondo esterno, e attivare i tamburi del verso spondeo, il p iù martellante della metrica latina. Un-duetre un-duetre. Ma i Suv si sorpassano strombazzando a 150 orari e i camion provocano spostamenti d’aria tali da farmi volare il cappello. Un mattatoio. E non c’è ombra di polizia. Che disperato atto d’amore è questo nostro viaggio.
Esausti, ci buttiamo a mangiare la nostra frutta a margine di un campo, e da una casa esce subito, allarmato, il padrone col figlio.
«Ragazzi, dovreste chiedere per fermarvi qui».
«Ma siamo sul bordo e facciamo solo merenda. E poi non si sa mai, se mi avvicino vi allarmate di più. E magari avete pure il cane ».
«Ma no, siete gente civile. Piacere, so’ Franco Molina, maestro di ballo, via Appia chilometro 74».
«La gente corre troppo», gli dico.
«Qui veniva Taruffi a fare il chilometro lanciato. Ma almeno chiudevano la strada. Adesso so’ tutti Taruffi. E sull’Appia se more».
«C’è nessuno che fa il canale in barca?».
«Colla barchetta ce passano i rumeni per andà a rubà».
«E allora cosa ci consiglia?».
«Prendete l’argine, è tutto pulito fino a Terracina. Se arriva dritti dritti».
Noi lo prendiamo l’argine, sul lato opposto, e dopo un po’ finiamo in un inferno di rovi. Alex perde pezzi della macchina da presa e tutti, al primo ponte, escono dal ginepraio sporchi e graffiati da capo a piedi, in cerca di un altro bus sullo stradone maledetto. Già, ma le fermate dove sono? Andiamo a tentoni, senza cavare un ragno dal buco. Qui tutto è aleatorio, orari, direzioni, punti di sosta segnalati. Alla fine, fermiamo un bus alla disperata. È quello giusto. Al tramonto siamo in vista di Terracina.
(6 - continua)

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