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Salvatore Settis
Un tesoro che bisogna salvare
14 Marzo 2007
Beni culturali
Nell’intervista di Francesco Erbani, qualche ricetta di buon senso per i molti mali dei nostri beni culturali. E qualche proposta discutibile: vedi la postilla in calce. Da la Repubblica, 14 marzo 2007 (m.p.g.)

Il primo segnale di svolta è nel calendario. Negli ultimi cinque anni il Consiglio superiore dei Beni culturali si sarà riunito si e no quattro o cinque volte. Il nuovo Consiglio, presieduto da Salvatore Settis, storico dell´arte antica, direttore della Normale di Pisa, è convocato per il 29 marzo, ma sono stati già fissati altri otto appuntamenti da qui a dicembre. Nato nel 1907, esattamente cent´anni fa, il Consiglio serve, appunto, a dar consigli al ministro. Può essere un innocuo sinedrio di attempati accademici. Ma può anche diventare il luogo in cui si dà battaglia per rimettere in marcia una macchina invecchiata e mortificata, quella della tutela del patrimonio e del paesaggio italiani. Settis si è insediato nei giorni scorsi e ha intenzione di imboccare la seconda via. Ma deve fare i conti con una struttura ministeriale che emette sinistri scricchiolii e con un governo che tutto può fare tranne che programmarsi la vita per i prossimi quattro anni.

Un suo predecessore, Giuseppe Chiarante, si è dimesso quando si è accorto che l´allora ministro, Giuliano Urbani, non aveva alcuna intenzione di servirsi del Consiglio superiore.

Non è un precedente incoraggiante.

«Io credo che Francesco Rutelli abbia in animo di servirsi molto di questa struttura e di rilanciarla. Non avrei accettato se non fossi stato certo di questo».

Da dove pensa si debba partire?

«Le questioni sono tante, ma i punti centrali sono la riforma del ministero e i poteri delle soprintendenze. Queste ultime sono state messe nelle condizioni di non svolgere un corretto lavoro di tutela».

Funzionari mal pagati e spesso con le mani legate.

«Il problema più importante non sono i soldi. Nelle soprintendenze c´è anche chi svolge male il proprio compito, ma nella grande maggioranza il livello è eccellente, sia per il profilo tecnico-scientifico, sia per la dedizione. Sono persone che amano quel lavoro e che accettano persino di essere retribuite in misura inadeguata, purché non sia vilipesa la loro autonomia, e purché abbiano gli strumenti indispensabili».

E questo non accade?

«No. Nelle soprintendenze non si possono fare i sopralluoghi perché mancano i soldi per la benzina. Oggi l´età media dei funzionari è 55 anni. Negli ultimi decenni sono andate in pensione migliaia di persone e ne sono entrate poche centinaia. Non si svolgono concorsi».

Al ministero dicono che verranno assunti tremila precari.

«È una scelta che mi preoccupa molto. E che accomuna i Beni culturali all´Università. Per la salvaguardia del nostro patrimonio abbiamo bisogno di persone di indiscussa qualità, selezionate con criteri rigorosi e trasparenti. Qui sono in gioco studio e ricerca, questioni delicatissime. Nessun paese al mondo assume precari nel settore dei beni culturali: si scelgono i migliori ovunque essi siano. Non possiamo farlo proprio in Italia, dove abbiamo un patrimonio sterminato e soprattutto disseminato ovunque, un immenso museo a cielo aperto fatto di beni storici e artistici e di paesaggi».

Molti di questi lavoratori precari hanno comunque svolto compiti delicati di tutela, spesso sono stati selezionati già con concorsi.

«La via maestra è quella di bandire concorsi pubblici aperti a tutti, precari e non precari, riconoscendo ai primi un punteggio che attesti il lavoro svolto. Ma non è possibile immettere nell´amministrazione così tante persone ope legis. E poi, mi scusi, abbiamo creato un vero monstrum».

Quale professore?

«Il ministero dell´Università ha istituito decine di corsi di laurea in Beni culturali, dai quali escono migliaia di giovani. Ma il ministero dei Beni Culturali non indice concorsi per prendere i migliori fra questi giovani».

Ma intanto è accaduto un pasticcio. Un concorso per soprintendenti storici dell´arte è stato sospeso dal ministro, per il ricorso di alcuni dirigenti non ammessi all´orale. Però il Tar ha dato ragione a chi aveva superato la prova scritta e ha imposto che il concorso sia concluso.

«Non conosco i termini esatti di quella vicenda. Credo che il bando fosse sbagliato, perché non valutava anche i titoli: è importante scegliere un soprintendente anche per i libri scritti o per le ricerche in corso. Però quel concorso è stato avviato sulla base di quel bando ed ho sempre pensato che fosse giusto portarlo a conclusione».

Come si possono rimettere in moto le soprintendenze?

«In primo luogo potenziando quelle che fanno tutela sul territorio e ridimensionando le strutture centrali, cioè invertendo la rotta fin qui seguita. Esistono studi sul funzionamento di alcune soprintendenze, come quella ai beni archeologici di Roma. Si analizzino bene queste indagini e si veda concretamente cosa funziona e cosa no. Poi bisogna riformare il sistema delle direzioni regionali, nate con il precedente governo di centrosinistra».

Che cos´hanno che non va?

«Alcune funzionano bene altre meno. Ci sono ottimi dirigenti, ma non sempre succede. Mi sono battuto, e continuerò a farlo, perché non possano accedere a quei posti se non persone con competenze tecnico-scientifiche, storici dell´arte, architetti o archeologi, e non amministrativi, come accade in qualche caso. Ma, al di là degli uomini, in generale si sono rivelate un filtro burocratico fra le soprintendenze che operano sul campo e il ministero. E per far questo le direzioni regionali hanno ulteriormente sguarnito il lavoro sul campo».

Come le riformerebbe?

«Io proporrei per ogni regione una conferenza dei soprintendenti con uno di loro che svolga il ruolo di coordinatore. In ogni caso le soprintendenze devono riacquistare il massimo di autonomia e al tempo stesso chi le guida deve poter essere giudicato, perché si possano sanzionare omissioni o inefficienze».

Cosa propone per le soprintendenze ai Poli museali di Roma, Firenze, Venezia e Napoli?

«Sono stato sempre contrario a scindere la soprintendenza dei musei dal territorio. È un´incongruenza: i musei italiani sono il prodotto dei territori in cui si trovano, espongono i materiali provenienti da quei territori, non si possono gestire in maniera scientificamente seria sganciandoli da essi».

Questi sono tutti problemi organizzativi. Si parla da tempo di una riforma del ministero. Il ministro ha assicurato che entro l´estate sarà varata. Lei ne sa qualcosa?

«Circolano bozze diverse, alcune le ho viste. Ma aspettiamo che il ministro faccia conoscere le proprie intenzioni e poi il Consiglio esprimerà il suo parere».

Lei è stato un protagonista della battaglia contro la Patrimonio S. p. A. Che cosa ne è della vendita dei beni pubblici, compresi quelli che hanno rilievo storico-artistico?

«La politica voluta dall´allora ministro Giulio Tremonti ha avuto scarso successo e sembra abbandonata. Quella politica la stanno però adottando molti Comuni».

Può farmi qualche esempio?

«Che ne sarà della sede del Museo Geologico Nazionale a Roma, costruito negli anni Settanta dell´Ottocento, i cui lavori di ristrutturazione stanno ora terminando? Sarà venduto? A chi? Per farne cosa? Molta preoccupazione ha destato la decisione di vendere Villa Giustiniani Cambiaso a Genova. A Venezia sono stati messi in vendita in un colpo solo 13 palazzi, tra i quali Palazzo Nani e Palazzo Zaguri. Ma la cosa che continua a preoccuparmi è che nell´ultima Finanziaria si parla esplicitamente di "valorizzazione a fini economici dei beni immobili tramite concessione o locazione" e anche di "nuove destinazioni d´uso". È vero che la norma prevede il rispetto del Codice dei Beni Culturali, ma intanto ne mina uno degli assunti introdotti quando ancora era ministro Rocco Buttiglione e cioè che la valorizzazione va intesa "al fine di promuovere lo sviluppo della cultura", e non per fini economici».

Si parla da tempo anche di modifiche al Codice dei Beni Culturali in particolare per la salvaguardia del paesaggio.

«Questo è il fronte sul quale la tutela mostra le maggiori debolezze. Abbiamo assistito a un progressivo slittamento delle competenze dallo Stato prima verso le Regioni e poi da queste ai Comuni. Il Codice ha ulteriormente ridotto il controllo statale perché ha tolto alle soprintendenze il potere di annullare, come si dice, "a valle", le autorizzazioni edilizie dei Comuni. Possono solo partecipare alla redazione dei piani paesistici: "possono", dice il Codice, non "devono". Per cui i Comuni alla fine hanno mano libera e le conseguenze sono che il geometra di un piccolo municipio toscano, come Pienza, si trova a fronteggiare la forza di immobiliaristi decisi a saccheggiare Monticchiello».

Cosa fare, dunque?

«Intanto bisogna rendere obbligatoria e non più facoltativa la partecipazione delle soprintendenze alla redazione dei piani paesistici. La vecchia politica dei vincoli non basta più, le soprintendenze devono poter progettare l´assetto dei paesaggi. Ma il rischio è che non possano progettare e neanche mettere vincoli. La mia idea è che bisogna ricostituire una rete di tutela di cui facciano parte lo Stato centrale, le Regioni e altri soggetti. La guerra di logoramento fra centro e periferia non avrà né vincitori né vinti, ma ha già le sue vittime: il nostro patrimonio e il nostro paesaggio, che anziché essere concepiti come un prezioso bene comune diventano la posta di un defatigante conflitto, di una specie di "fuoco amico" fra i poteri pubblici».

Postilla

Le parole del nuovo presidente del Consiglio superiore dei Beni Culturali ribadiscono posizioni da lui incessantemente riproposte in questi ultimi anni e, nell’assunto generale, condivisibili. Lasciano qualche dubbio, casomai, alcune affermazioni che paiono derivare da un certo attardamento politico culturale.

Ad esempio laddove si criticano le direzioni regionali in quanto causa del depotenziamento delle soprintendenze: in realtà l’accertato svuotamento di quelle strutture è piuttosto il risultato del progressivo depauperamento, in termini di personale, risorse e mezzi (non solo materiali), costantemente e quasi scientemente perseguito negli ultimi 10-15 anni da parte degli organi centrali del Ministero e delle politiche (a)culturali degli ultimi governi. Le direzioni, al contrario, potrebbero rappresentare un presidio più efficace, in quanto istituzionalmente più “forte” e coordinato, nei confronti degli altri interlocutori che agiscono a vario titolo sul territorio: pubblici e privati. Questi ultimi, soprattutto, spesso dotati di ben altri mezzi e capacità di intervento.

Quanto al problema dell’autonomia dei nostri principali musei, è ormai riconosciuto dalla maggior parte di museologi ed esperti del settore che questo rappresenti, in molti casi, solo un primo, ma indispensabile passo per trasformare un’istituzione culturale che ha subito negli ultimi anni uno stravolgimento progressivo delle funzioni originarie da elitario luogo delle muse a strumento comunicativo davvero efficace e finalmente inclusivo in senso cognitivo e sociale.

E infine preoccupa questa reiterata ansia di modifica del Codice dei beni culturali del paesaggio a neanche un anno dall’entrata in vigore della ultima versione emendata. Alla versione attuale sarebbe forse più opportuno concedere una sperimentazione effettiva “sul campo” di qualche consistenza maggiore rispetto ai proclami fin qui sbandierati in occasioni mediaticamente molto strombazzate di accordi ecumenici Stato-regioni (v. ad esempio il protocollo d’intesa Mibac-Regione Toscana, sul quale, da ultimo, l’eddytoriale n.100).

Ad una analisi non pregiudiziale che tenga conto anche del suo percorso storico, il Codice si pone come l’evoluzione, con qualche sbavatura, ma non al ribasso, del testo unico del 1999 e, salendo per li rami, della spesso rimpianta 1089. Strumento non inadeguato ad esigenze di tutela che, rispetto al 1939, qualche mutamento lo devono pur aver subito.

Il problema, adesso, non è modificare il Codice, ma adeguare le istituzioni che dovrebbero attuarlo (il Ministero in primis) ai nuovi compiti: in senso strutturale, e forse soprattutto culturale. (m.p.g.)

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