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Anna Alberto; Marson Magnaghi
Un territorio da lupi
11 Giugno 2006
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“Un commento alla nuova legge urbanistica nazionale e alcune proposte alternative”. Un notevole saggio in corso di pubblicazione sul n. 3-2005 della rivista Democrazia e Diritto. Anche il testo scaricabile in .pdf

PREMESSA

La cosiddetta “legge Lupi” è il nuovo disegno di legge nazionale intitolato “Principi in materia di governo del territorio”, approvato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005 e ora iscritto al Senato con il n. 3519. Il testo votato è destinato a sostituire buona parte delle leggi urbanistiche vigenti, dalla legge 1150 del 1942 a quelle che negli anni ’60 trattano dell’interesse pubblico nelle azioni urbanistiche, prevedendone l’abrogazione diretta[1] o la decadenza ove le Regioni emanino normative sui medesimi oggetti[2].

Il disegno di legge risulta dall’unificazione di otto disegni di legge diversi, presentati da gruppi di deputati che vanno da AN e Forza Italia a Margherita, DS, Verdi e Rifondazione, e da numerosi emendamenti approvati alla Camera prima del voto sul provvedimento complessivo. Oggetto di un voto segreto parzialmente bipartisan[3] difficilmente comprensibile, spiegabile forse soltanto con la scarsa cultura urbanistica e dei beni comuni che caratterizza gran parte degli attuali deputati[4], è caduto nell’assordante silenzio[5] della stampa, occupata a fornirci quotidianamente notizie il più possibile inessenziali.

Lo scandalo non sta tanto nei voti della sinistra a una legge di destra, al di là del fatto che questi termini abbiano ancora un significato in molte scelte relative al rapporto tra pubblico e privato, ma nell’ampia approvazione data a uno strumento il cui impianto e i cui contenuti, malgrado dichiarazioni sfacciate che l’hanno definito “una delle riforme più importanti per la modernizzazione del nostro paese”[6], sono assai arretrati e confusi rispetto alle discipline in essere nei principali paesi occidentali avanzati, senza neppure costituire una legge quadro che riorganizzi l’intera materia in modo sistematico. La legge in effetti si limita a disciplinare la sola materia urbanistica[7], non affrontando né la definizione di governo del territorio né gli altri temi che la sostanziano: paesaggio, ambiente, assetto idrogeologico, ecc.[8].

Le valutazioni politiche più sobrie evidenziano la confusione di ruoli tra soggetti pubblici e privati[9]; il riferimento ad alcuni contenuti di leggi regionali già vigenti anziché l’elaborazione di principi adeguati a una legge nazionale, quali la partecipazione democratica dei cittadini alla formazione degli atti di governo e la sostenibilità ambientale[10]; l’intrusione del governo nazionale in materie delegate alle Regioni, la scarsa innovazione e l’eccessiva flessibilità, l’assenza di contenuti relativi alle funzioni settoriali proprie dello Stato e alla loro necessaria integrazione nelle azioni di programmazione e pianificazione, la mancata soluzione della dipendenza finanziaria dei Comuni dall’ICI e quindi la loro condanna a perseguire immotivate politiche di espansione dell’urbanizzato per far quadrare il bilancio[11] in una perversa alleanza con le forze immobiliariste.

Dei diversi contenuti del disegno di legge tentiamo un commento il più possibile ragionato, con l’augurio di vederlo pubblicato e letto prima del voto in Senato.

Per poter dare una valutazione non tattica del testo normativo è tuttavia necessario delineare per sommi capi il contesto in cui esso interviene, caratterizzato da profondi cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni: a quali problematiche relative alle trasformazioni territoriali occorre far oggi riferimento? Quali nuovi ruoli può giocare il territorio nelle scelte di sviluppo locale? Come cambiano le funzioni di governo del territorio e degli enti pubblici territoriali?

1. QUALE È IL TERRITORIO IN QUESTIONE?

Il contesto fisico in cui la legge si trova oggi a operare è profondamente cambiato rispetto al 1942: sembra un’osservazione ovvia, eppure la legge Lupi non ne sembra cosciente.

Le aree urbanizzate erano all’epoca in Italia ben delimitate e definite dall’armatura urbana di lunga durata con i suoi equilibri ambientali e territoriali, e rappresentavano soltanto una minima parte del territorio complessivo. Gran parte del territorio non urbano, compreso quello collinare e montano, era presidiato da agricoltori che ne garantivano sia la manutenzione quotidiana che il mantenimento della destinazione d’uso rurale. L’urbanistica si occupava essenzialmente della città, dei centri urbani, in quanto la riproduzione della campagna era comunque garantita dai suoi abitanti/produttori.

Se osserviamo la cartografia redatta dall’IGM[12] nella metà degli anni ’50, le relazioni di lunga durata fra sistemi urbani e spazi aperti risultano ancora leggibili, benché l’esodo della popolazione rurale verso le fabbriche della pianura padana fosse ormai avviato e aprisse la strada all’abbandono del territorio montano e collinare, ormai considerato inessenziale per lo sviluppo del paese, e al consumo di territorio agricolo di pianura e di fondo valle per nuove urbanizzazioni per l’industria agro-alimentare.

Questo processo, che si compie nei decenni successivi, cambia profondamente l’organizzazione del territorio: l’industrializzazione accelerata basata sul modello fordista della grande impresa svuota le valli alpine e appenniniche di abitanti e risorse, e fa crescere le medie e grandi città industriali del centro-nord, che si espandono nella prima e nelle successive “cinture” saldandosi di fatto con i comuni contermini fino alla costruzione di conurbazioni metropolitane. Al sud e lungo le coste, a fianco delle “cattedrali nel deserto” rappresentate dai poli dell’industria chimica e siderurgica, e allo spopolamento di interi paesi per i massicci movimenti migratori, lo sfruttamento della rendita fondiaria ai fini di un modello turistico di massa acquista un ruolo economico primario. I processi di decentramento industriale, conseguenti alla crisi del modello fordista, in atto dalla metà degli anni ’70 nei tessuti regionali di città piccole e medie della terza Italia “periferica” si fondano su relazioni più attive e sinergiche fra sistema produttivo e contesti locali come nel caso dei distretti; gli esiti sono tuttavia un’ulteriore erosione degli equilibri di lunga durata tra armatura urbana e spazi rurali, un territorio che alla fine del XX secolo non è più in molte zone del paese né città né campagna, bensì una successione disordinata, priva di ogni logica funzionale (per tacere dell’estetica) di lottizzazioni residenziali, case isolate, capannoni, discariche, svincoli stradali, servizi pubblici e centri commerciali raggiungibili solo in auto, terreni abbandonati in attesa di diventare urbanizzabili, ricordi di città e fazzoletti di campagna residua[13]. L’urbanizzazione è dilagata, grazie a politiche sia centrali che locali poco previdenti e ai numerosi condoni, negli ambiti di pertinenza di fiumi e torrenti, nelle aree geologicamente instabili, sulle pendici dei vulcani attivi, su dune litoranee e spiagge in erosione. I territori male urbanizzati sono territori a rischio, come emerge sempre più spesso in seguito agli eventi meteorici intensi[14] e ai crescenti dissesti idrogeologici, e non a caso altri governi nazionali europei hanno dedicato leggi e altre azioni recenti per impedirne l’ulteriore occupazione e promuoverne la de-urbanizzazione[15].

Rispetto al territorio nazionale complessivo, pur mancando dati statistici attendibili che ne garantiscano una copertura soddisfacente[16], le aree urbanizzate sono cresciute in misura abnorme, raggiungendo in alcune aree incrementi superiori al 270% dagli anni ’50 agli anni ‘90[17]. La crescita dei suoli urbanizzati si concentra principalmente nei territori di pianura e fondovalle, non soltanto in prossimità dei grandi centri, arrivando in alcune aree a coprire oltre la metà del territorio complessivo[18]. Il paradosso sta nel fatto che questa crescita abnorme dei suoli urbanizzati continua e aumenta in anni recenti, quando il saldo demografico naturale e i grandi trasferimenti di popolazione, dal Sud al Nord e dalle zone rurali alle grandi città, si sono prima ridotti e poi quasi annullati, sia in Italia che nel resto d’Europa[19]. Un così elevato consumo di suolo, a fronte di una popolazione quasi ovunque stabile, quando non in diminuzione[20], riflette solo in minima parte un miglioramento della condizione abitativa, comportando invece seri problemi collettivi, che altri paesi avanzati hanno tematizzato e cercano di trattare attraverso politiche di governo del territorio appropriate[21].

In tutte le trasformazioni fin qui descritte il territorio è stato principalmente utilizzato come mero supporto fisico per la localizzazione delle attività economiche e come oggetto privilegiato per la produzione di rendita. Il suo governo attraverso l’urbanistica, nei casi migliori ha rappresentato un tentativo di contenere l’urbanizzazione selvaggia e di riequilibrare il rapporto tra rendite individuali, profitti d’impresa e benefici collettivi attraverso politiche pubbliche per la casa e la produzione di servizi alla persona (salario indiretto), anche grazie all’applicazione degli standard urbanistici[22]. L’urbanistica non si misurava quindi in quella fase con la definizione delle linee di sviluppo economico (se non nei casi in cui alimentava, con decisioni di piano, i meccanismi della rendita fondiaria, gonfiando il mercato immobiliare e il settore edilizio come settore economico), ma con la mitigazione dei suoi effetti, in termini di riduzione degli squilibri tra crescita degli insediamenti e servizi. Non sempre questa mitigazione ha avuto successo, ma la nuova legge abbandona anche tale obiettivo minimo per promuovere la rendita immobiliare a interesse collettivo.

2. NUOVO RUOLO DEL TERRITORIO NELLA PRODUZIONE DI RICCHEZZA DUREVOLE

Nel contesto post-industriale attuale, l’ormai conclamata crisi del modello di sviluppo della crescita economica illimitata ha messo in luce effetti disastrosi sul piano sociale (crescente polarizzazione e segregazione, aumento della povertà), ambientale (esaurimento delle risorse vitali, crisi degli ecosistemi, inquinamento, effetti dei cambiamenti climatici), economico (crisi di produttività da dumping ambientale e salariale) e urbanistico (degrado territoriale, abbassamento della qualità della vita).

La consapevolezza di questi effetti ha prodotto negli ultimi anni, da una parte a scala planetaria i noti processi di “neoliberismo armato” di tipo imperiale per governare autoritariamente fattori di crisi ormai ingovernabili, nel contesto di una crescente privatizzazione dei beni comuni, in primo luogo del territorio; dall’altra, a livello locale, una profonda e crescente riconsiderazione da parte di molte regioni, municipi e, in parte dell’Unione Europea, del “territorio” (inteso come insieme di fattori ambientali, sociali, culturali locali, di pratiche, saperi, economie ecc. che definiscono l’identità di un luogo) e dei suoi giacimenti patrimoniali quale potenziale fattore di sviluppo sostenibile, di coesione economica e sociale, e di produzione di relazioni globali solidali e non gerarchiche. In sostanza, in questa seconda linea di tendenza, il territorio assurge a fattore primario di resistenza agli effetti distruttivi e omologanti della competizione globale e di innovazione dei modelli di sviluppo, di fronte alla crisi strategica del modello precedente.

Il percorso politico-culturale che interpreta questa seconda linea di tendenza non considera più il territorio come oggetto di consumo e come mero supporto delle attività economiche, bensì come soggetto complesso che costituisce la base primaria della produzione di ricchezza durevole, grazie alle peculiarità identitarie e alle risorse patrimoniali che caratterizzano ogni luogo.

Rispetto a questa prospettiva il “consumo” di territorio attraverso nuove urbanizzazioni non soltanto non aiuta in generale le attività economiche, ma si rivela addirittura controproducente per le stesse, come osserva il Presidente della Regione Sardegna a proposito delle attività turistiche nella sua isola: “Il turismo […] non è attività edilizia, è uso attento del territorio per l’offerta di servizi […] che vuol dire la costa, la spiaggia, il terreno circostante, ma vuol dire anche il paesaggio, la storia, la cultura, i suoi abitanti, tutto quello che c’è attorno, i mestieri che si sanno fare e altre attività economiche”[23]

Mettere in valore saperi locali - peculiarità produttive, artistiche, artigiane, capitale sociale locale – nella costruzione di paesaggi e prodotti autentici che scaturiscono dalla storia irripetibile di ogni luogo significa affrontare un processo di ri-territorializzazione, di differenziazione degli “stili di sviluppo”, di produzione di relazioni di scambio fra luoghi tendenzialmente non gerarchiche e cooperative.

Un simile processo di ridefinizione delle forme di sviluppo in termini di crescita di sistemi socioeconomici fondati sulla valorizzazione dei giacimenti patrimoniali di ogni luogo non si da senza il coinvolgimento pieno delle energie sociali ed economiche locali. Affinché queste energie assumano la guida di questo percorso è essenziale che esse siano valorizzate attraverso processi partecipativi che mobilitino la società locale in tutte le sue componenti, verso l’autogoverno.

I cambiamenti nell’organizzazione del territorio, il nuovo ruolo potenziale del territorio stesso e l’esigenza di trasformare in senso partecipativo gli istituti decisionali richiedono di riconsiderare in modo radicale il ruolo e la definizione stessa di ciò che è azione effettiva di “governo” del territorio.

3. IL GOVERNO DEL TERRITORIO NEL CONTESTO ATTUALE

Se assumiamo il territorio come potenziale produttore di ricchezza durevole il suo governo dovrà promuovere politiche per valorizzarne le peculiarità, trasformare i giacimenti in risorse, garantendone la riproducibilità, attivando in questo percorso la società locale[24]. In questo contesto gli enti locali in quanto enti di governo del territorio acquistano nuovi ruoli nel governo dell’economia, nell’ipotesi in cui essa si fondi sul governo dei fattori produttivi e riproduttivi costituiti dai giacimenti patrimoniali locali, ivi comprese le attività economiche a valenza etica sempre più diffuse e diversificate rispetto a ciascun contesto locale. L’urbanistica, come strumento che disciplina l’uso dei suoli e delle risorse territoriali, diviene parte integrante di questi nuovi compiti: da regolatore dei fattori riproduttivi e della rendita, a strumento che governa l’uso delle risorse endogene per la loro valorizzazione in sistemi economici a base locale.

Questi nuovi ruoli del governo del territorio e dell’urbanistica nella valorizzazione dellerisorse territoriali e ambientali finalizzata ad attivare modelli di sviluppo locale “autosostenibile”[25], si intrecciano con i cambiamenti istituzionali intervenuti tra e nei diversi livelli degli istituti di governo[26].

Se ciò che si intende designare con il termine di “governo” è stato oggetto, negli ultimi anni, di notevoli cambiamenti, la stessa parola è stata da alcuni considerata superata, contrapponendole una “governance” che avrebbe dovuto rispecchiare in maniera più esplicita la complessità degli attori che concorrono a garantire questa attività, oggi sempre più multilivello[27]. Il “governo” come attività di un attore pubblico sovraordinato a tutti gli altri non è oggi più concepibile: l’accezione minima di “governance” è quella di mettere insieme, nel decidere, perlomeno i diversi enti pubblici competenti su un medesimo territorio, e tra questi è compresa ovviamente[28] anche l’Unione Europea.

La “cornice” di qualunque azione di governo è oggi disegnata dall’Unione Europea attraverso le proprie direttive, piani d’azione, documenti preparatori e interlocutori; entro questa cornice operano, con ruoli diversi e complementari, Comuni, Regioni e Stati. Curiosamente, l’attore UE non è mai richiamato esplicitamente dalla legge[29], e neppure lo sono indirizzi fondamentali da esso promossi: il territorio quale bene/risorsa trasversale (non gestita da un’unica DG, al contrario, ad esempio, dell’ambiente[30]) presente nel progetto di Convenzione europea, la coesione territoriale[31], l’attenzione a contenere gli sprechi della risorsa suolo.

Non solo: la scarsa attenzione prestata nei contenuti sostanziali della legge “Lupi” agli effetti che le trasformazioni territoriali esercitano sull’ambiente e sul patrimonio culturale è decisamente in controtendenza rispetto alle politiche recenti dell’Unione Europea.

Lo sviluppo sostenibile come obiettivo da garantire nelle azioni di trasformazione territoriale e urbana, presente nel documento COM(1998) 605 “Sustainable Urban Development in the European Union: A Framework for Action”, ha prodotto l’inclusione di considerazioni ambientali nelle linee guida della Commissione per i programmi di sviluppo regionale 2000-2006, ha contribuito al rinnovo del programma URBAN e supportato una serie di programmi di ricerca, fra cui “City of Tomorrow and Cultural Heritage”. La Strategia Tematica in preparazione per il 2006 dovrebbe dare nuovo vigore all’integrazione degli aspetti della sostenibilità in diverse politiche specifiche, con particolare attenzione a quelle relative alla pianificazione degli usi del suolo[32], integrazione già portata avanti con la disciplina della VAS, con le varie certificazioni EMAS, con la direttiva 2000/60 sull’acqua, con il Codice europeo del paesaggio. La recente Comunicazione “Towards a thematic strategy on the urban environment” COM(2004)60 offre infine una visione d’insieme dell’approccio che guiderà l’azione europea in questo campo nei prossimi anni: assicurare lo sviluppo sostenibile delle regioni in cui le aree urbane sono inserite, “minimizzare gli impatti negativi delle aree urbane sui cicli ecologici a tutti i livelli, applicando il principio di precauzione, e migliorare le condizioni ecologiche.”, anche attraverso azioni di “riqualificazione (retrofitting) delle aree urbane per aumentarne la sostenibilità”. Nello stesso documento vengono sottolineati i temi della Progettazione urbana sostenibile[33], dell’Integrazione tra politiche comunitarie[34] e dell’Integrazione tra livelli diversi dell’amministrazione pubblica. L’adozione di questi indirizzi come guida per progettare la trasformazione delle città e ancor più delle regioni urbane[35] è ormai diffusa a livello europeo, producendo una serie di scenari innovativi[36].

Si va tuttavia diffondendo ormai da tempo anche un’altra interpretazione, più estesa, del termine “governance”, che a fronte di competenze pubbliche sempre più frammentate e concorrenti, e di attori economici sempre più capaci di muoversi opportunisticamente da un territorio all’altro negoziando separatamente con i diversi enti pubblici competenti condizioni più favorevoli ai loro affari, riconosce ai cittadini che abitano un determinato territorio il diritto a partecipare alla costruzione delle diverse scelte, superando così il deficit di democrazia effettiva in cui si trovano di fatto in gran parte delle occasioni. La partecipazione dei cittadini, di fatto, garantisce anche l’effettiva concorrenza fra tutti gli eventuali attori economici interessati a fronte di possibili pratiche lobbistiche fra alcuni attori. A maggior ragione, questa partecipazione è essenziale per garantire agli enti pubblici territoriali nuovi ruoli nel governo dell’economia, nell’ipotesi sopra tratteggiata in cui essa si fondi sul governo dei fattori produttivi e riproduttivi costituiti dai giacimenti patrimoniali locali

Le accezioni più mature di governo del territorio o di governance riconoscono quindi l’importanza di far partecipare alle decisioni sia la molteplicità degli enti pubblici competenti che i cittadini, estendendo i tavoli negoziali a comprendere rappresentanze degli interessi deboli e attivando nuovi istituti di partecipazione deliberativa da parte dei cittadini[37].

La legge 1150/42 era stata scritta con attenzione alle più avanzate esperienze europee dell’epoca, pur essendo poi stata oggetto di interpretazioni spesso riduttive nella sua applicazione. La nuova legge Lupi sembra prescindere totalmente anche dalla raccomandabile pratica di guardare riflessivamente alle altre esperienze, riconoscendo i diversi problemi fin qui richiamati e offrendo risposte pertinenti agli stessi.

In conclusione nel disegno di legge Lupi nonostante il pomposo titolo “Principi in materia di governo del territorio” e i richiami puramente allusivi qui e là utilizzati, oltre a non contenere traccia di “principi” di governo rispetto ai problemi che abbiamo evidenziato, non prevede né tradizionali azioni di governo, in quanto vengono abrogati i tradizionali strumenti di regolazione urbanistica (atti autoritativi, standard minimi ecc.) e neppure innovazioni che spostino l’azione di governo verso effettive pratiche di governance, che da un lato integrino la disciplina dell’urbanistica con le azioni relative al paesaggio, all’ambiente, all’assetto idrogeologico ecc., e che dall’altra amplino le tipologie degli attori aprendo alla rappresentanza degli interessi diffusi.

Quali sono le questioni che una legge nazionale per il governo del territorio dovrebbe proporsi di affrontare e indirizzare?

Le grandi questioni che una legge nazionale dovrebbe proporsi di affrontare sono, come già richiamato:

- il riconoscimento dei patrimoni e delle risorse territoriali [38] che costituiscono bene comune non negoziabile;

- le modalità di messa in valore dei giacimenti patrimoniali locali che ne garantiscano la riproduzione nel tempo(durevolezza e sostenibilità);

- la necessità di un’equa distribuzione sociale e intergenerazionale dei costi e dei benefici delle trasformazioni territoriali operate;

- le modalità per garantire il diritto di partecipazione delle popolazioni interessate alle decisioni relative al territorio in cui vivono.

A tal fine, una legge nazionale di governo del territorio dovrebbe organizzare le seguenti materie:

- interpretare e integrare per l’azione degli enti pubblici territoriali il corpus delle Direttive, indirizzi e riflessioni più avanzate prodotte dall’UE e dalle diverse Carte internazionali in materia di territorio [39], inteso nelle sue molteplici dimensioni urbane, ambientali, culturali e paesistiche ecc.; la legge non cita una sola volte un atto comunitario ufficiale, per non parlare della Carte ecc.

- definire principi generali che l’esercizio delle competenze regionali, provinciali e comunali deve contribuire a sviluppare e arricchire tenendo conto dei contesti specifici.

Nel definire i principi generali il Parlamento italiano aveva a disposizione un’ormai ampia casistica di leggi regionali recenti. Se, come osservato, “Occorre prendere atto che lo Stato sta di fatto rincorrendo le regioni”[40], questa rincorsa era auspicabile assumesse perlomeno i riferimenti più innovativi.

Questo disegno di legge, che richiama i “principi” soltanto nel titolo, applica di fatto il principio di assumere le procedure più destrutturanti il governo pubblico del territorio già introdotte in alcune leggi regionali fra cui quella calabrese e soprattutto quella lombarda[41], o previste dal controverso PdL della Regione Sicilia[42], con la volontà di imporle in futuro anche alle altre regioni. Al contrario, alcune leggi regionali recenti[43], oltre a unificare materie settoriali (infrastrutture, ambiente, edilizia, attività produttive, commercio ecc.) all’interno di procedure integrate di governo del territorio, hanno rafforzato il significato del governo pubblico del territorio dando centralità alla valorizzazione dei giacimenti patrimoniali e identitari come beni comuni, hanno introdotto criteri di valutazione preventiva della sostenibilità delle trasformazioni proposte e interpretato la sussidiarietà come chiara ripartizione delle competenze fra.enti territoriali che concorrono a esercitare la funzione di governo del territorio.

5. I CONTENUTI PIÙ NEFASTI DEL DISEGNO DI LEGGE

A partire dalle prime critiche fin qui esposte, che riguardano l’impostazione generale della legge rispetto alle principali poste in gioco nel governo del territorio, verifichiamo ora più puntualmente i contenuti specifici che maggiormente contribuiranno a legittimare azioni lesive del territorio italiano, inteso come patrimonio collettivo.

a. Un disegno di de-regolazione generalizzata

Vediamo più nel dettaglio come la legge introduca indebitamente[44] molte procedure puntuali di de-regolazione rispetto alle norme attualmente vigenti, che esprimono implicitamente un progetto di destrutturazione del governo pubblico del territorio. Essa prevede ad esempio:

- la possibilità che un “intervento diretto” proposto da privati possa diventare prima piano urbanistico e poi variante al Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale[45] (art.8, comma 6e art.9, comma 1), configurando il processo di pianificazione pubblica come sommatoria dei progetti incrementalmente proposti da operatori immobiliari;

- il riconoscimento di diritti edificatori alle proprietà immobiliari ricompresse in determinati ambiti “indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso”, diritti “trasferibili e liberamente commerciabili negli e tra gli ambiti territoriali” art.9, comma 3), delegittimando qualunque controllo funzionale, paesistico e ambientale nei diversi ambiti[46];

- la sostituzione degli standard urbanistici minimi nazionali[47], con livelli minimi di dotazioni non meglio precisati e definibili caso per caso con il concorso dei privati (art.7, comma 1);

- la generalizzazione della procedura del silenzio-assenso per le concessioni edilizie[48] (art.13, comma.4).

b. Incongruenze tra enunciati e contenuti

Un’incongruenza diffusa è rilevabile nell’insieme del testo tra enunciati di carattere generale e disposizioni specifiche. Ad esempio, la priorità enunciata relativamente al recupero dei territori urbanizzati (art.6, comma 2), è smentita da disposizioni specifiche che invece mettono sullo stesso piano recupero e urbanizzazioni ex novo (art.6, commi 5 e 6).

Il testo sembra riflettere nel suo insieme una profonda indifferenza per il significato del linguaggio tecnico utilizzato, come si può evincere da una serie di incongruenze anche lessicali fra le definizioni di cui all’art.2 e i termini usati all’6: all’art. 2 la “pianificazione territoriale” e la “pianificazione urbanistica” sono attribuite ad enti diversi, senza chiarirne le differenze di contenuti, mentre all’art.6 la “pianificazione urbanistica” diventa “pianificazione del territorio”[49] e compare una “pianificazione delle aree metropolitane” non meglio attribuita. All’art. 5 “sussidiarietà, cooperazione e partecipazione” diventano alla riga successiva “sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”.

E ancora, all’art.6, comma 2 viene sottolineata l’importanza della “difesa dei caratteri tradizionali” (?) quando poi all’art.5, comma 7 si prescrive un quadro conoscitivo unitario e criteri omogenei per le cartografie: se è evidente la necessità di rendere i quadri conoscitivi comparabili fra loro, l’”omogeneità” nega di fatto la possibilità di rappresentare adeguatamente le peculiarità di ciascun luogo e dei suoi specifici giacimenti patrimoniali che costituiscono appunto i cosiddetti “caratteri tradizionali”.

c. La sussidiarietà tradita

La legge interpreta in modo curioso il principio di sussidiarietà. Oltre alla richiamata ingerenza nei confronti della competenza legislativa regionale in materia, la sbandierata autonomia attribuita ai Comuni, nel contesto degli attuali rapporti tra Stato centrale ed enti pubblici territoriali in materia di risorse finanziarie, si risolve (grazie allo strumento della negoziazione con gli attori economici), nell’incitare i Comuni alla svendita del patrimonio territoriale per recuperare un po’ di risorse finanziarie attraverso l’ICI e gli oneri di urbanizzazione. Il ruolo potenzialmente rilevante assegnato dal disegno di legge ai Comuni avrebbe un senso diverso se i Comuni avessero una autonomia finanziaria e decisionale rilevante, mentre in questi anni sono stati svuotati di entrambe (taglio dei trasferimenti statali, obbligo di trasformare le municipalizzate in grandi aziende di diritto privato non più gestibili come servizi pubblici[50]). L’autonomia dei Comuni nel governo del proprio territorio, largamente auspicabile in un’ottica di reale applicazione del principio di sussidiarietà e del federalismo municipale, richiederebbe peraltro dei principi guida, definiti a livello sovracomunale e condivisi dai diversi livelli istituzionali, e dei criteri di valutazione delle azioni locali da applicare nei rapporti interistituzionali[51]. Infine, una reale autonomia richiede, a sua garanzia, l’attivazione di un forte processo partecipativo in grado di mobilitare la pluralità e la complessità degli interessi sociali contro i pochi poteri forti di cui il Comune solitamente è ostaggio o complice.

Un’altra evidenza del modo distorto di interpretare la sussidiarietà è all’art.6, comma 2 dove si prescrive che i piani di ambito (aree di pianificazione sovracomunale definite dalle Regioni) “non possono avere […] un livello di dettaglio maggiore di quello dei piani urbanistici comunali”: ciò significa che possono averlo eguale, il che vanifica ogni distinzione di competenze fra i diversi livelli di pianificazione, e aggiunge elementi di farsa alla succitata autonomia dei Comuni. Una pianificazione d’ambito (sovracomunale) efficace richiederebbe peraltro una compensazione generalizzata tra Comuni dell’ICI[52], mentre il testo di legge la prevede (art.12, comma 2 b) soltanto per la localizzazione di specifiche “attrezzature”[53].

d. La partecipazione negata

La legge prevede che le funzioni amministrative siano esercitate prioritariamente mediante “l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi” (art.5, comma.4). Ad una prima lettura superficiale, la valutazione non può che essere positiva: il riconoscimento dei limiti degli strumenti autoritativi nell’implementazione delle scelte è quasi unanime, così come l’esigenza di attivare strumenti di condivisione multiattoriale nei processi di piano. A un esame più approfondito viene tuttavia da chiedersi: atti negoziati fra quali attori? I requisiti necessari affinché questo passaggio comporti effetti positivi per la collettività riguardano sia l’allargamento dei tavoli negoziali a rappresentanze di interessi in grado di far interagire gi attori deboli, sia la promozione di istituti di partecipazione dei cittadini con effettivo ruolo decisionale.

Qui, come si suole dire, casca l’asino: nel disegno di legge la partecipazione dei cittadini viene solo enunciata (art.8 comma 2) e non sostanziata da alcun procedimento effettivo che la garantisca maggiormente di quanto già previsto dalla legge 1150/42 con riferimento al procedimento di approvazione dei piani (osservazioni); mentre per quanto riguarda i tavoli negoziali si fa unicamente riferimento agli operatori economici (finanziari) privati la cui partecipazione è la sola a essere pienamente garantita[54], in particolare nei richiamati “interventi diretti” che assumono valore di piano urbanistico[55].

Dagli atti autoritativi del passato, i cui difetti sono noti, si passa dunque ad atti negoziali in cui l’interesse collettivo è ancora meno garantito, sia per alcune caratteristiche proprie del settore immobiliare (asimmetria informativa tra pubblico e privato sui margini di guadagno, concorrenza fra Comuni a fronte di un oligopolio territorialmente ampio dei grandi operatori) che per le condizioni specifiche del nostro contesto nazionale (scarsa trasparenza, scarsa presenza nel settore pubblico di professionalità adeguate alla gestione dei processi)[56].

La partecipazione, enunciata e non sostanziata, serve dunque da alibi per demolire gli strumenti esistenti senza sostituirli con modalità più efficaci nell’attribuire ai cittadini il diritto di tutela dei loro interessi non particolari, ma comuni a chi abita e si prende cura di un determinato territorio.

e. gli standard urbanistici aboliti

Anche in questo caso, i limiti degli standard tradizionali, puramente quantitativi (mq/abitante di servizio), sono noti, non avendo questa dotazione impedito la produzione di insediamenti privi di qualità e densi di squilibri ambientali e territoriali, anzi avendola in alcuni casi addirittura promossa[57]

La nuova legge prevede l’eliminazione degli standard urbanistici minimi finora vigenti, affidando la garanzia della “dotazione necessaria di attrezzature e servizi pubblici” (art. 7, comma 1) a “criteri prestazionali” non ulteriormente specificati, in relazione a un “livello minimo dell’offerta di servizi” non meglio definito (né il livello, né i servizi[58]). L’unico punto specificato è la possibilità che i servizi pubblici vengano garantiti anche con il concorso dei soggetti privati[59], mentre la definizione dei criteri di dimensionamento è affidata alle singole Regioni.

Anche qui, chi non riconosce il valore del considerare la dimensione prestazionale dei servizi? Il problema è che la valutazione prestazionale da sola, peraltro non definita e quindi aperta a tutte le interpretazioni del caso, non è una garanzia sufficiente. Gli effetti anche negativi dei “vecchi” standard e loro parziale inadeguatezza attuale, non giustificano la loro soppressione tout court, ma ne richiederebbero una rinnovata definizione.

A livello nazionale non c’è più invece neppure un criterio unitario, né quantitativo né prestazionale, riferito agli standard urbanistici o alle “dotazioni territoriali”. L’unico elemento che accomunerà obbligatoriamente, in virtù di una legge nazionale, Piemonte e Puglia, Veneto e Campania è l’apertura ai privati nella fornitura delle dotazioni necessarie di attrezzature e servizi pubblici.

f. la promozione di ulteriore consumo di suolo

Come già richiamato, in molti paesi europei il “consumo di suolo” viene attentamente monitorato e la sua riduzione costituisce un chiaro obiettivo dell’azione di governo. Non si tratta tanto di bloccare le attività immobiliari, quanto di dirigerle verso il riuso e la riqualificazione delle aree già urbanizzate e oggi dismesse o sottoutilizzate, creando un sistema che incentivi questo tipo di interventi e disincentivi invece l’urbanizzazione di suoli agricoli e naturali.

In questa legge la priorità del recupero e della riqualificazione dei territori già urbanizzati è prima enunciata (art.6, comma 2), e poi di fatto negata (art.6, comma 5), prevedendo una suddivisione del territorio non urbanizzato in tre categorie, una delle quali è quella delle “aree urbanizzabili”! La versione del testo licenziato dalla Commissione prevedeva perlomeno una procedura di verifica dell’assenza di alternative attraverso “la riorganizzazione funzionale dell’edificazione esistente”, e la valutazione di compatibilità ambientale per la nuova edificazione di aree non urbanizzate. Il testo votato alla Camera non si preoccupa nemmeno di salvare le apparenze formali, aprendo di fatto la strada a qualsivoglia espansione. Non solo: se leggiamo questa norma insieme alla successiva “Le regioni possono assicurare agli enti di pianificazione le adeguate risorse economico-finanziarie per ovviare ad eventuali previsioni limitative delle potenzialità di sviluppo del territorio derivanti da atti di pianificazione sovracomunale” (art.9, comma 6), appare chiaro il vero principio che informa implicitamente questa legge, insieme al ruolo affidato ai privati, è quello dell’edificabilità di tutti i suoli. Rispetto a questo principio teorico, spetta al pianificatore l’onere di dimostrare il contrario, capovolgendo così anni di dibattito sull’utilità collettiva di distinguere tra proprietà dei terreni e diritto a edificarli, e azzerando la conquista del passaggio dalla “licenza” alla “concessione” a costruire (per la quale, in effetti, questa legge introduce il silenzio-assenzo, riconducendola ad atto dovuto). I costi collettivi derivanti dalla promozione del consumo di una risorsa come il suolo, notoriamente non rinnovabile, non interessano evidentemente a nessuno di coloro che ha votato la legge.

g. il governo del territorio come politica settoriale

Infine, sono assenti (anzi negati) principi e indicazioni più puntuali relativi alla necessaria integrazione fra una serie di azioni settoriali che concorrono in modo essenziale a garantire il governo del territorio. Se il territorio è un oggetto complesso, il cui governo efficace richiederebbe l’integrazione di molte materie gestite dallo Stato in modo settoriale (lavori pubblici, difesa idrogeologica, agricoltura, economia ecc.), stride il fatto che neppure l’ambiente, piuttosto che i beni culturali e il paesaggio, siano considerate materie da far interagire.

Senza entrare nel merito delle ragioni per cui lo Stato si è riservato la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, nonché dei beni culturali e del paesaggio, come materie di propria esclusiva competenza, considerando invece il governo del territorio[60] materia concorrente di Stato e Regioni, colpisce la mancanza di indirizzi, o anche solo di richiami, all’indispensabile integrazione di queste materie nell’azione di governo locale (ferme restando le rispettive competenze legislative in capo rispettivamente a Stato e Regioni).

Il ribadire (art.1, comma 3) soltanto la competenza statale in materia di beni culturali, paesaggio e ambiente, in assenza di qualsiasi principio di integrazione, legittima l’inerzia o la devastazione da parte degli enti locali; non vengono assolutamente richiamate le indispensabili (e ormai relativamente diffuse) dimensioni ambientali e paesistiche dei piani urbanistici e territoriali, che quindi retrocedono allo status di opzione non necessaria. Il rapporto tra piano urbanistico e norme paesistiche e ambientali sovraordinate diventa di semplice recepimento, impedendo quindi qualunque arricchimento e specificazione della materia dal basso e dallo specifico del territorio in questione. La stessa “valorizzazione dei beni culturali di appartenenza statale” (art.3, comma 4) è riservata allo Stato: il che, come dimostrato di recente, rischia di tradursi in vendita (o concessione a lunga scadenza) dei beni demaniali per ragioni di cassa, senza prevedere alcun riconoscimento del diritto delle comunità locali a vederne riconosciuta la proprietà comune e di conseguenza la non alienabilità.

Così ridotto a politica settoriale, il cosiddetto governo del territorio diventa attività di promozione pubblica, a favore dei proprietari dei terreni e delle imprese immobiliari, e a danno della collettività (i cui interessi non sono più tutelati da nessuno), di nuove urbanizzazioni.

6. INDICAZIONI PER UNA PROPOSTA DIVERSA

Come abbiamo più volte affermato nel testo che precede, una legge nazionale sul governo del territorio dovrebbe, in coerenza con il Titolo V della Costituzione, esplicitare una serie di principi capaci di interpretare il ruolo del territorio come garante del benessere collettivo. Le diverse competenze istituzionali e i diversi contesti territoriali avrebbero il compito, nel quadro di una base comune di diritti, regole e garanzie, di declinare questi principi arricchendone e specificandone i contenuti rispetto alle diverse accezioni di benessere collettivo coerenti con ciascun modello di sviluppo locale.

Proviamo a enunciare, coerentemente con le questioni fin qui richiamate (lo stato del territorio italiano e i suoi problemi; il nuovo ruolo del territorio nella produzione di ricchezza durevole; i conseguenti cambiamenti nel governo del territorio), alcuni dei principi che dovrebbero informare una legge nazionale e le conseguenze che l’adozione di questi principi comporta per una nuova definizione degli standard urbanistici.

6.1 I principi

Territorio come bene comune

Il principio basilare dovrebbe affermare la centralità del territorio come bene pubblico e collettivo, o meglio come “bene comune”[61] essenziale al benessere delle comunità su di esso insediate[62].

Questo principio si fonda sul presupposto che il territorio costituisca l’ambiente essenziale alla riproduzione materiale della vita umana, e al realizzarsi delle relazioni sociali e della vita pubblica. Territorio non è quindi soltanto il suolo o la società ivi insediata, ma il patrimonio (fisico, sociale e culturale) costruito nel lungo periodo, valore aggiunto collettivo che troppo spesso viene distrutto, anche da amministrazioni di centro-sinistra, in nome di un astratto e troppo spesso illusorio sviluppo economico di breve periodo.

Mettere al centro il bene comune “territorio” ci consente di considerare la dimensione qualitativa, non soltanto quantitativa, dei singoli beni che lo sostanziano: acqua, suolo, città, infrastrutture, paesaggi, campagna, foreste, spazi pubblici e così via[63]. L’insieme di questi beni comuni, con la loro specifica identità, dovrebbe costituire il nucleo fondativo, collettivamente riconosciuto, dello “statuto” di ciascun luogo e dei diritti dei cittadini rispetto ai beni che lo costituiscono .

I piani che regolano le trasformazioni del territorio, a tutte le scale, dovrebbero pertanto essere preceduti e coerenti con un corpus statutario[64] che definisce, con riferimento a un orizzonte temporale di medio-lungo termine, i caratteri identitari dei luoghi, i loro valori patrimoniali, i beni comuni non negoziabili, le regole di trasformazione che consentano la riproduzione e la valorizzazione durevole dei patrimoni ambientali, territoriali e paesistici.

Diritto di partecipazione dei cittadini

Immediata conseguenza del definire il territorio come bene comune è il riconoscimento del diritto di partecipazione dei cittadini alla definizione degli elementi statutari di questi beni e al loro governo.

Il principio esplicita il diritto alla partecipazione in tutte le fasi del processo di costruzione di una decisione di governo del territorio (quadro conoscitivo, statuto dei luoghi, progetti di trasformazione, gestione delle trasformazioni) e a tutti i livelli della competenza istituzionale relativa al governo stesso. Gli istituti di partecipazione devono garantire sia la produzione “sociale” del territorio che l’esercizio del controllo su azioni (locali e sovralocali) lesive dei diritti collettivi.

Il presupposto di una reale democrazia partecipativa è costituito dalla presenza di chiare regole procedurali e sostanziali, condivise dai diversi livelli istituzionali, definite in anticipo. A questo fine i principi devono in particolare garantire agli enti pubblici territoriali[65] e all’insieme dei cittadini ruoli privilegiati rispetto agli attori privati portatori di interessi economico-finanziari.

Integrazione fra politiche settoriali (verso il governo unitario del territorio)

La progettazione e la gestione delle trasformazioni del territorio come bene comune e i nuovi ruoli degli enti locali nel governo dell’economia richiedono il superamento di una pianificazione che, ai vari livelli, risulta troppo spesso come un collage di interessi e progetti settoriali. Occorre affermare il principio della integrazione fra politiche settoriali, chiamate a contribuire a progetti unitari costruiti e gestiti collettivamente con riferimento a strategie di medio-lungo periodo riferite anche alle future generazioni[66].

Una legge nazionale dovrebbe, oltre a enunciare questo principio per gli altri livelli istituzionali di governo, impegnare direttamente e concretamente lo Stato a mettere in atto forme adeguate di integrazione fra le proprie politiche settoriali[67]. Essa dovrebbe inoltre impegnare lo Stato nella promozione di integrazioni fra i contenuti più avanzati delle diverse politiche europee (in materia di territorio, ambiente, coesione sociale, agricoltura ecc.) e delle Carte internazionali promosse da enti territoriali in materia di sostenibilità urbana e territoriale, partecipazione, clima, trasparenza dell’azione pubblica, valorizzazione dei patrimoni, paesaggio e altri temi centrali nel governo del territorio.

Consumo zero di suolo

Il principio del blocco dell’ulteriore consumo di suolo è indispensabile per consentire la riqualificazione del tessuto urbanizzato esistente, ricomponendone la frammentazione, dotandolo di servizi e infrastrutture adeguate, ricostruendone un rapporto con gli spazi aperti e rurali che aumenti sia la qualità urbana che quella rurale. Se il territorio in cui realizzare e mantenere infrastrutture e servizi si estende sempre più, a parità di abitanti e quindi di contribuenti e utenti, queste dotazioni collettive non potranno che ridursi, perdere qualità e costare più care. La dipendenza dall’auto individuale e l’invecchiamento progressivo della popolazione italiana prefigurano, in caso di ulteriore dispersione delle aree urbanizzate, un quadro di isolamento sociale e difficoltà crescente a garantire servizi indispensabili.

L’erosione continua e l’interclusione degli spazi agricoli e forestali minaccia la riproduzione collettiva (negli ultimi 50 anni i territori agricoli e forestali sono scesi da 28 a 19,6 mio ettari), riducendo la capacità di rigenerazione del sistema ambientale (acqua e aria comprese), la mitigazione degli eventi meteorici intensi, la almeno parziale autosufficienza (e quindi sicurezza) alimentare.

L’obiettivo del consumo zero di suolo si può sostanziare in due forme complementari: dichiarando tutte le aree non urbanizzate aree di riserva agricola e ambientale (salvo necessità collettive che non è possibile soddisfare altrimenti, da dimostrare e sostenere pubblicamente), e prevedendo un sistema di incentivi procedurali e sostanziali che rendano decisamente più conveniente intervenire nelle aree già urbanizzate. Tra gli incentivi possibili per interventi in aree già urbanizzate, a titolo di esempio: tempi di istruttoria garantiti e brevi (vs tempi aleatori e procedure di approvazione oggi più complesse che per gli interventi ex novo: il rapporto andrebbe chiaramente invertito), oneri di urbanizzazione fortemente ridotti rispetto agli interventi in area agricola e differenziati in relazione alle effettive necessità di re-infrastrutturazione, ICI differenziata, e così via.

Coesione sociale e territoriale

Una legge nazionale deve porsi il problema di promuovere la coesione sociale e territoriale.

Ciò significa in primo luogo garantire condizioni soddisfacenti, di tutela del territorio come bene e risorsa collettiva, sull’intero territorio nazionale, anche prevedendo forme di compensazione fiscale interregionale e intercomunale tra territori oggetto di intensa trasformazione edilizia e territori che si impegnano a conservare gli spazi agricoli e naturali con funzione compensativa.

Si tratta altresì di affrontare le dimensioni fisiche e territoriali della crescente polarizzazione sociale: quartieri blindati, territori pattumiera, periferie fonte di disagio sociale e fisico. La produzione di questi luoghi va penalizzata, contrapponendole una concezione di città come luogo d’interazione e integrazione sociale, dotata di adeguati spazi pubblici e aperta alle diverse culture, percorribile in modo privilegiato a piedi o con il trasporto pubblico collettivo. Il principio della coesione territoriale richiede altresì che ogni sistema locale sia capace di gestire i propri diversi cicli ambientali senza danneggiare territori esterni[68], ovvero di ridurre la propria impronta ecologica sviluppando la multifunzionalità del proprio territorio aperto di pertinenza, e di promuovere equilibri ambientali complessivi ricostruendo la continuità ecologica degli spazi aperti. Per promuovere l’attuazione di questi principi, la legge dovrebbe relazionare esplicitamente i trasferimenti finanziari ai Comuni almeno in parte al raggiungimento di questi obiettivi.

6.2 Una nuova definizione degli standard urbanistici

Rispetto alle problematiche territoriali e ambientali che abbiamo descritto, i tradizionali standard urbanistici, nati per garantire quantità minime di servizi rispetto a una fase di tumultuosa urbanizzazione da tempo conclusa in tutta Europa, lungi dall’essere eliminabili, vanno al contrario arricchiti in molteplici direzioni che esplorino il passaggio dalla quantità alla qualità, all’equità, alla bellezza, all’inclusione.

La prima riguarda una maggiore capacità di specificazione rispetto ai diversi contesti morfologici e sociali[69] e alle differenti componenti degli abitanti di riferimento (bambini, anziani, single, immigrati di diverse etnie e culture ecc.), per ognuno dei quali il rapporto tra spazi pubblici e privati, e la connotazione qualitativa dei servizi si presenta in forme differenziate[70].

In secondo luogo gli standard quantitativi, applicati per zone omogenee del territorio comunale, non tengono conto della necessità attuale di integrazione delle funzioni in una città sempre più policentrica, che richiede il superamento di una rigida separazione tra funzioni di fatto prodotta dall’applicazione degli standard, anche quando la zonizzazione è stata abbandonata come principio nella città post-industriale. A tal fine, l’insieme degli standard andrebbe articolato in standard generali di riferimento che accolgano anche requisiti minimi a livello europeo in campo ambientale e territoriale, e standard quali-quantitativi specifici relativi alla peculiarità di ciascun contesto territoriale per interpretarne e elevarne la qualità funzionale, estetica e relazionale[71].

In terzo luogo, l’integrazione degli standard urbanistici con obiettivi ambientali e sociali può avvenire accogliendo e articolando territorialmente una serie di indicatori previsti dalle politiche europee più recenti: qualità dell’acqua, dell’aria, dei suoli; indicatori che misurano la sostenibilità ambientale delle trasformazioni urbane e territoriali proposte: consumo di suolo, accessibilità al e dotazioni di trasporto collettivo, accesso pedonale privilegiato ai servizi collettivi di interesse primario quali scuole, municipi e piazze, commercio, trasporto pubblico[72]; indicatori di benessere che integrano fattori materiali e relazionali, quali qualità e sicurezza degli spazi pubblici e dei luoghi dedicati alle relazioni civiche, riconoscibilità identitaria dei luoghi e qualità dei paesaggi urbani e rurali, dotazione di spazi agricoli di pertinenza dell’insediamento urbano, diritto di accesso e di percorribilità degli spazi rurali[73], delle riviere fluviali e dei litorali;

Una ulteriore direzione consiste nel fornire indicazioni in relazioni all’ecosistema urbano e territoriale, ovvero nel sottoporre a standard quali-quantitativi la riproduzione dei cicli ecologici: ciclo delle acque a livello di bacino o sottobacino idrografico, ciclo dei rifiuti, dell’alimentazione, produzione locale di energie rinnovabili ecc., tendendo alla relativa chiusura locale dei cicli per la riduzione dell’impronta ecologica.

Una nuova concezione degli standard dovrebbe trattare l’intero territorio, urbano e rurale, dal punto di vista delle reti ecologiche, con l’obiettivo di ricostituire il funzionamento e la continuità delle stesse (gravemente danneggiate e degradate dalla proliferazione recente dell’urbanizzazione) come grande armatura che supporta, oltre alla riproduzione e circolazione delle specie animali e vegetali, la qualità ambientale degli insediamenti urbani che vi sono inseriti. A tal fine, ogni tipo di trasformazione urbana dovrebbe concorrere, attraverso una nuova concezione degli “oneri di urbanizzazione”[74], all’aumento dell’equilibrio ambientale complessivo.

Infine, il trattare il territorio come insieme di beni comuni dovrebbe consentire di includere nella materia delle dotazioni livelli minimi riguardanti la gratuità di accesso sia ai beni materiali di riproduzione della vita (es. 50 litri di acqua a persona per usi domestici) sia i beni relazionali (es. mezzi pubblici per l’accesso ai servizi primari).

Queste trasformazioni nel concetto di standard urbanistico, dal momento che non riguardano soltanto le dotazioni degli spazi urbanizzati, ma soprattutto le relazioni fra questi e gli spazi aperti, richiedono di ridefinire radicalmente il carattere multifunzionale degli spazi rurali in quanto produttori di beni e servizi pubblici, definendo requisiti prestazionali, oneri e remunerazioni che riconoscano la nuova centralità del mondo rurale nella costruzione di benessere, ricchezza durevole e capacità di autogoverno dei sistemi territoriali locali.

[1]. Il nuovo testo abroga parzialmente o totalmente leggi relative ad atti autoritativi in materia di requisiti procedurali, oneri di urbanizzazione, standard urbanistici, interventi di edilizia economica e popolare: la legge 765/67, in toto la 1187/68. Prevede inoltre la perdita di efficacia di numerosi altri provvedimenti (l’intero decreto 1444/68, buona parte della legge 167/62 e numerosi articoli di altre leggi, , in presenza di legislazioni regionali che ne trattino i relativi temi.

[2]. Senza ahinoi, come vedremo in modo specifico nel testo che segue, definire i principi di riferimento per l’azione regionale.

[3]. Nonostante le dichiarazioni di voto contrario a nome di tutti i gruppi della minoranza, il voto finale ha registrato 205 sì, 32 più dei 173 deputati di maggioranza presenti e votanti.

[4]. A differenza di quanto accadeva in passato (cfr. ad esempio Camera dei deputati, Ricerca sull’urbanistica. Servizio Studi Legislazione e Inchieste parlamentari, Roma 1965) sembra totalmente mancare oggi l’interesse a promuoverne l’approfondimento.

[5]. Tra le poche significative eccezioni a questo silenzio, forse non privo di relazioni con la partecipazione di molti cosiddetti “immobiliaristi” alla proprietà dei mezzi di informazione, è utile richiamare un meditato articolo di Roberto Camagni su Edilizia e Territorio (rivista del gruppo Il Sole 24 ore) n.30 del 1 agosto 2005, oltre agli articoli in merito raccolti sul sito www.Eddyburg..it insieme all’appello “Fermiamo la legge Lupi” , promosso in occasione del convegno di Italia Nostra del 28.1.2005 a Roma, di cui sono primi firmatari (di 399 complessivi) D. Pasolini dell’Onda, E. Salzano, V. De Lucia, P. Bevilacqua, V .Emiliani, G .Pallottino, G. Barbera, G. Gisotti, A. Magnaghi.

[6]. Dichiarazione di voto dell’on.A. Mereu, a nome del gruppo Unione democratici cristiani.

[7]. Peraltro in una concezione largamente superata dell’urbanistica stessa, come mera disciplina dell’uso dei suoli.

[8]. “Compito del Parlamento, in attuazione del Titolo V, sarebbe quello di procedere alla riunificazione degli oggetti e non come si sta facendo ad una pedissequa ripetizione di discipline separate: il Codice del paesaggio, i decreti delegati in materia di Vas, di difesa del suolo, di rifiuti, di VIA: in breve occorrerebbe un codice di governo del territorio”. Relazione di Paolo Urbani al convegno INU “Un nuovo passo per la riforma urbanistica”, Roma 16.9.2005.

[9]. Dichiarazione di voto dell’ On.G.Nuvoli a nome del gruppo Popolari-Udeur.

[10]. Dichiarazione di voto dell’ On.D.Pappaterra a nome del gruppo Misto-SDI-Unità Socialista.

[11]. Dichiarazione di voto dell’ On.A.Sandri, DS-Ulivo e Margherita-DL-Ulivo.

[12]. Istituto Geografico Militare: fino a tutti gli anni ’70, e. alla comparsa delle cartografie tecniche elaborate dalle singole Regioni, il riferimento imprescindibile per le basi cartografiche utilizzate nella redazione di strumenti di pianificazione.

[13]. Per una descrizione dei risultati attuali di questo processo nell’area metropolitana milanese, vedasi A.Bonomi e A.Abruzzese, La città infinita, Milano, Bruno Mondadori 2005.

[14]. E’ significativo il fatto che nel recente caso dell’inondazione di New Orleans l’unica zona non sommersa dalle acque sia il “Vieux Carré”, l’area dell’insediamento storico precedente alle grandi espansioni recenti in aree ad alto rischio idraulico.

[15]. In Italia, come previsto dalla legge 183 del 1989, ciò avrebbe dovuto essere garantito dai Piani di bacino riferiti all l’equilibrio idrogeologico dell’intero bacino come precondizione della pianificazione territoriale; come noto, a oggi nessuna Autorità di Bacino si è dotata di questo strumento, ma soltanto di PAI (piani di assetto idraulico) che prevedono, attraverso la realizzazione di casse artificiali di espansione fluviale, azioni limitate alle aree di stretta pertinenza dei fiumi anziché estese all’intero bacino. Una volta realizzate queste opere, costose e all’elevato impatto ambientale e paesistico, i rimanenti territori di pertinenza fluviale saranno considerati pienamente urbanizzabili. Quest’approccio, tra l’altro estremamente costoso per l’insieme dei contribuenti, va in direzione opposta a una legge recente dello Stato federale tedesco (Hochwasserschutzgesetz del 3.5.2005: BGBI, parte 1, nr.26, pp.1224 e segg.) che prevede invece il divieto di edificare in aree che possono servire come aree naturali di esondazione, o nelle aree interessate al deflusso delle acque, e il ripristino delle aree di libera esondazione, o all’azione Making Space for water: a new strategy for flood and coastal erosion risk management lanciata in Gran Bretagna dal Defra (Department of Environment, Food and Rural Affaire).

[16]. E’ significativo notare come gli stessi annuari ambientali nazionali italiani, a differenza di quanto avviene in molti altri paesi europei, non riportino alcun dato relativo al cosiddetto “consumo di suolo”, ovvero ai suoli resi artificiali, dalle diverse forme di urbanizzazione, mentre alcuni annuari regionali riconoscono perlomeno la scarsa attenzione finora prestata a questo fenomeno .

[17]. Vedasi il database prodotto dal progetto Moland del Joint Research Centre di Ispra, nel quale i dati riferiti ad alcune città o regioni urbane italiane vengono comparati ad analoghe situazioni europee. L’incremento riportato nel testo è riferito alla regione urbana compresa tra Padova e Mestre, nella quale le aree urbanizzate sono cresciute dal 13,5 al 36,6 della superficie complessiva; nell’area milanese le stesse aree sono passate dal 35,2 al 71,8. In entrambi i casi le percentuali di incremento delle aree artificiali dovute alla dispersione dell’urbanizzato sono molto elevate rispetto alla media europea, collocandosi tra il 100 e il 171 %.

[18]. Nella parte pianeggiante del Comune di Prato le aree urbanizzate rappresentano ad esempio oltre il 60% della superficie territoriale totale: vedasi A.Magnaghi, Esercizi di pianificazione identitaria, statutaria e partecipata: Il Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Prato, in Urbanistica n.125, Roma 2004.

[19]. Con rare eccezioni, fra le quali l’esodo anche recente da molte città dell’Europa centro-orientale verso occidente.

[20]. L’entità degli attuali processi migratori extracomunitari verso l’Italia e l’Europa presenta dimensioni quantitativamente modeste rispetto alle migrazioni avvenute nella seconda metà del secolo scorso, tali da compensare al più il saldo demografico naturale negativo.

[21]. Tre esempi fra i molti possibili: in Germania, sono state attuate azioni federali (e successivamente di singoli Laender) per diminuire il consumo di suolo dai 120.ettari al giorno rilevati tra il 1997 e 2000 a30 ettari, con l’obiettivo di un consumo pari a 0 nel medio-lungo periodo; in Francia il Plan Local d’Urbanisme previsto dalla Legge Solidarité e Renouvellement Urbain del 2000, oltre a dover integrare le dimensioni ambientali e paesaggistiche, è richiesto esplicitamente di contenere il consumo di suolo; negli Stati Uniti, il governo federale blocca i finanziamenti per le nuove infrastrutture alle regioni in cui, per la dispersione degli insediamenti, il traffico è tale da inquinare l’aria oltre le soglie definite dal Clean Air Act.

[22]. Quantità minime obbligatorie a livello nazionale, espresse in mq/ab, di servizi collettivi.

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