Prg di Roma: il tempo delle regole
di Vittorio Emiliani – l’Unità, 12 febbraio 2008
Un pomeriggio stavo guardando la telecronaca del Giro d’Italia. L’elicottero, seguendo la carovana, andava inquadrando un territorio verdeggiante, quasi pettinato, molto ben gestito, fra cittadine, villaggi e aperta campagna. Non feci però in tempo a compiacermi che ci fosse un’Italia così ben tenuta. Capii infatti che il Giro era sconfinato in Austria dove l’urbanistica è una cosa seria sin dai tempi dell’Imperial Regio Governo.
Da noi i piani regolatori generali sono stati caricati, in passato, di attese straordinarie che la realtà dell’attuazione ha poi finito quasi sempre per deludere, facendo posto ad un sempre più palese disordine territoriale, all’imbruttimento di uno dei più bei paesaggi del mondo, accelerato dai disastrosi condoni berlusconiani, edilizio e ambientale. Sovente si è sbagliato ad assegnare ai “PRG” (piani regolatori generali) la valenza di “motore” essenziale, quasi, dello stesso sviluppo socio-economico, anziché (e sarebbe già molto) di regolazione urbanistica e paesaggistica dei processi di trasformazione. Roma moderna, ad esempio, è nata come una capitale senza industrie (in teoria), senza quella “soverchie agglomerazioni di operai”, senza “i grandi impeti popolari” che, secondo il vero regista della Terza Roma, il piemontese Quintino Sella, avrebbero turbato la serenità dei lavori parlamentari. Nella realtà Roma ha poi sempre avuto una sua industria, non pesante certo, e ce l’ha soprattutto oggi, con sviluppi, fra l’altro, più dinamici dello stesso Nord, avendo saltato la prima rivoluzione industriale. Come dire che il mercato e le imprese vanno poi per conto loro. Entro le regole dei piani, nei Paesi civili e preveggenti. Molto al di fuori in Italia dove o si crivellano i PRG di deroghe e di varianti subito dopo averli approvati, oppure li si travolge con un abusivismo diffuso, in specie residenziale, in attesa del prossimo condono.
Roma è al suo quinto Piano Regolatore Generale a partire dal 1870, e, dai tempi di Ernesto Nathan (1907-1912), questo sarebbe il primo a venire approvato nell’Aula Giulio Cesare. Quello fascista del 1931 fu ovviamente vistato dal Governatore di Roma, essendo stata soppressa all’epoca ogni forma di democrazia rappresentativa, mentre un commissario firmò quello del 1962 che pure aveva suscitato attese, dibattiti e tensioni memorabili. Un caso classico di piano intensamente discusso dai tecnici, fondato su di una idea forte - e cioè l’asse attrezzato, il Sistema Direzionale Orientale (SDO) destinato a decongestionare un centro storico sin troppo gravato di funzioni, l’opposizione all’idea mussoliniana di espansione verso Ostia e verso il mare - e però contraddetto nella attuazione, sia dall’indecisionismo (e peggio) politico-amministrativo, sia da un tumultuoso procedere delle spinte illegali e abusive. Per cui la capitale ha continuato a crescere a macchia d’olio come una metropoli senza ossa, o con strutture portanti risalenti (siamo sempre lì) alla Giunta di Ernesto Nathan del primo Novecento. Grandissimo sindaco osteggiato e non riconfermato però, per non molti voti, nel secondo mandato proprio sulle questioni urbanistiche, fondiarie, edilizie. Guarda caso.
Il Piano Regolatore Generale di Roma giunto ora alla stretta finale è partito tredici anni or sono, né la sua ossatura è granché mutata. Semmai è migliorata in un punto strategico: quel diritto di compensazione destinato altrimenti a scardinare ogni seria pianificazione, a seconda dell’opzione dei singoli detentori di aree (e di vecchi diritti edificatori). Che le opposizioni protestino sostenendo che il dibattito viene in questi pochi giorni strozzato nell’aula consigliare rientra nel normale gioco politico (il muro contro muro all’italiana), tanto più in vista di un election-day che avrà, il 13 aprile, Roma fra i suoi massimi simboli mediatici. Ma che lo facciano altri, convince poco. Nonostante che la nuova legge comunale con la elezione diretta dei sindaci abbia sottratto molti, troppi poteri alle assemblee elettive barattandola con la stabilità, questo PRG è stato dibattuto ampiamente.
Personalmente credo che questo Piano Regolatore debba essere approvato e lo debba essere nell’aula consigliare senza ritardi né rinvii. Sarebbe grave delegare l’incombenza, ancora una volta, quarantasei anni dopo, a un commissario. Le linee di fondo e le cifre di cui si sostanzia il PRG elaborato dalle amministrazioni Rutelli e Veltroni sono note: la tutela prevista per la città storica (un tempo entro le Mura Aureliane) che viene estesa alla città di Nathan, alla città del Novecento, cioè da 1.500 a7.000 ettari; una salvaguardia per il verde attrezzato e il verde agricolo che investe 87.700 dei 129.000 ettari di superficie comunale; un sistema della mobilità che punta prevalentemente sul ferro, sulla rotaia, in superficie e in sotterranea, chiudendo finalmente l’anello ferroviario e integrando il sistema in 72 punti di scambio metropolitano; un modello urbano policentrico che sposta nelle periferie anche funzioni di pregio (e non soltanto il disagio sociale), e altro ancora sul quale non mi dilungo essendoci già una cronaca dettagliata in corso.
Un PRG vero, discusso a lungo, strutturato. Anche in questo Roma compie scelte lontane da quelle di Milano dove la pianificazione urbanistica, e con essa la tutela dell’interesse generale, è stata annegata e sostituita dal rapporto negoziale diretto fra l’ente pubblico di governo e i privati, o meglio i più forti detentori di aree immobiliari.
Un modello che si vuole far diventare generale in una Lombardia dove ora si minaccia di intaccare con cemento & asfalto gli stessi parchi regionali. Un PRG vero, dunque, che ha bisogno però di un metodo rigoroso di attuazione, convalidato com’è anche dai piani paesaggistici regionali (nei quali, in passato il Lazio era stata retroguardia, o quasi) e con la prospettiva di un più vasto quadro metropolitano visto che migliaia di giovani coppie, di famiglie di ceti deboli, di immigrati hanno lasciato Roma e si sono insediate oltre la prima cintura metropolitana, accrescendo così il già considerevole, insostenibile consumo di suolo nella regione e i movimenti pendolari a medio raggio. I quali hanno assolutamente bisogno di un sistema su ferro qui invece notevolmente gracile, da sempre, e quasi pre-moderno. Sistema su ferro che esige investimenti di mole rilevantissima, col quale tuttavia appare incoerente il “laissez faire” usato verso la proliferazione degli ipermercati, dei centri commerciali, delle città del consumo. Le quali, invece, impongono l’uso dell’auto privata, anche nei giorni del week-end. E che erodono enormi quantità di suolo.
Allora, assieme ad un sì al voto sul PRG, sento di dover dire, con altrettanta chiarezza, la mia opinione contraria alle deroghe, in generale, e a quelle contestualmente previste per grandi aree e non meno grandi cubature alla Bufalotta e alla Magliana. Perché esse contraddicono immediatamente un metodo di governo del territorio, perché ne divengono anzi il grimaldello. Non a caso il quotidiano in mano al più grande costruttore e immobiliarista romano ha attaccato con durezza quelle stesse deroghe, non tanto per amore (come accadeva anni fa) della buona urbanistica quanto, credo, perché riguardano altri potentati romani del mattone e del cemento. Il gioco è chiaro, la corsa a spuntare tutti di più prima che il PRG diventi legge è più che palese. Pertanto non mi pare che sia utile all’interesse generale inoltrarsi su queste strade: troppi piani regolatori abbiamo visto rimanere allo stato di belle carte colorate, di buone e magari generose intenzioni. Il consumo di suolo a Roma è già altissimo.
La popolazione del Comune non aumenta in modo marcato e ha semmai bisogno di edilizia economica, di affitti abbordabili, meglio se in stabili recuperati e risanati. Mentre la febbre edilizia di questi anni ha prodotto case molto mediocri e a prezzi di speculazione. Voltare pagina si può e si deve. Le regole sono regole. E sarebbe bello se Walter Veltroni, nel suo pur sintetico programma di governo, inserisse le norme contro il consumo di suolo libero o agricolo già varate da Tony Blair nel Regno Unito (il 70 per cento delle nuove costruzioni deve insistere su aree già edificate o dismesse) oppure quelle volute da Angela Merkel, quale ministro dell’Ambiente della Germania, negli anni 90. In Paesi che consumavano suolo a ritmi già molto più bassi dell’Italia dove, ormai, in certe regioni non c’è più campagna fra centro abitato e centro abitato, fra case, fabbriche e capannoni, con una terrificante colata unica di asfalto e cemento. Nell’ex Giardino d’Europa.
Prg, un lavoro fatto con tutta la città
di Mariagrazia Gerina - l’Unità, ed. Roma, 12 febbraio 2008
«Scriviamo questa pagina, è l'ultimo atto della grande trasformazione urbana avviata in questi anni», invoca Roberto Morassut, che, accompagnato da un applauso irrituale, consegna all'aula, dopo rinvii e polemiche, il piano regolatore generale per la ratifica finale. Attesa per questo pomeriggio, nonostante l’ostruzionismo e i rinvii. È l’ultimo traguardo che Veltroni - «sindaco del cambiamento urbanistico» lo omaggia Morassut - e la sua maggioranza vogliono tagliare prima dell’addio del sindaco al Campidoglio, previsto per domani.
«È l'unica riforma strutturale varata in questi anni nel paese», rivendica l'assessore che dal 2001 ha seguito la vicenda urbanistica di Roma. «Una materia ostile che invece è stata al centro del dibattito cittadino», scandisce ancora Morassut, che ricorda le tappe del prg e polemizza con chi proprio ora che si tratta di ratificare decisioni già discusse vorrebbe veder fallire la «missione» a un passo del traguardo: «Forse hanno nostalgia per i tempi in cui bastava riunire pochi poteri per decidere ciò che ricadeva sulla vita di tutti i cittadini».
A chi si aspettava una relazione celebrativa e basta, Morassut ha servito un discorso pieno di affondi e spunti critici per il futuro. Al Messaggero che ha attaccato insieme alle varianti già in cantiere (che il consiglio potrebbe ancora approvare nell’ultima coda di consiliatura) anche l’idea cardine di portare funzioni pregiate nella periferia, riserva una replica impicita: «Secondo strane riflessioni, dietro agli uffici si nasconderebbero future varianti. Non consento questa cultura del sospetto: la nostra è una grande scommessa, ma forse qualcuno vuole in periferia solo abitazioni», rilancia Morassut, che ripercorre a volo d’uccello i cantieri già aperti. A Tor Vergata la Città dello Sport di Calatrava, ai Mercati Generali la Città dei giovani di Koolhas. E poi l’università Pietralata, il campus ad Acilia, ecc. «Dove l’iniziativa è in mano al pubblico funziona, ma i privati sono al palo: si decidano a costruire, facciano marketing internazionale, stiano al patto di portare grandi funzioni in periferia». Il piano - ricorda Morassut - è quella «sfida di unire tutela e sviluppo, aprendo le porte all’accoglienza». Ed è la riforma che fa i conti con la principale leva dell’economia romana, l’edilizia: «Motore della crescita economica, ma con le sue contraddizioni», lavoro nero, sicurezza, necessità di consolidare l’impresa. Un mondo a cui l’amministrazione Veltroni con il prg ricorda che «l’economia non vive di solo cemento, ma anche di grandi opportunità turistiche». E quindi, «gli 88mila ettari di verde sono una grande leva di sviluppo».
Altra sfida, la cura del ferro, ovvero la metro C ma anche le ferrovie urbane: «in questo le Ferrovie dello Stato sono state un partner lento», dice Morassut. E poi, l’emergenza abitativa. «Una norma concordata con i costruttori riserva all’affitto concordato o solidale il 15% dell’edilizia». Ma non basta: «Nel piano ci sono 20mila alloggi da realizzare entro il 2011, 10mila per chi è iscritto nelle graduatorie, gli altri per il ceto medio non più in grado di accedere al mercato». A lungo termine, non bastano nemmeno quelli: «Occorrono riforme nazionali per consentire ai Comuni di reperire aree a basso costo», spiega Morassut, che prospetta una nuova stagione di edilizia popolare, basata non sull’esproprio ma su un moderno patto con i privati.
Queste le sfide contenute nel prg. Tutto sta ora a vedere se la città saprà raccoglierle. I costruttori, per primi. E il parlamento, poi, dove si dovrà costruire quell’«alleanza tra Stato e la sua Capitale», abbandonando «gli imbarazzi culturali di chi fin qui ha considerato Roma una capitale-non capitale e considerando che ogni soldo speso per Roma aiuta la pubblica amministrazione a funzionare meglio».
«La cosa più importante che ho realizzato»
intervista a Giuseppe Campos Venuti di Jolanda Bufalini
l’Unità, ed. Roma, 12 febbraio 2008
Giuseppe Campos Venuti, Bubi per tutti, 82 anni, ex partigiano, non ha perso, in quasi cinquant’anni, l’accento romanesco degli intellettuali della capitale, quello che era tipico di Maurizio Ferrara, di Alberto Moravia, di Antonello Trombadori. È bolognese di adozione, da quando, nel 1960, Mario Alicata lo spedì per il PCI nella città rossa. E dove fu assessore all’urbanistica per due consigliature, con Dozza: «Si facevano solo case, nelle periferie». «Ma ai figli degli operai glie volete da’ le scuole e i giardini per giocare?».
Erano i primi semi, in quei tempi eroici, dell’urbanistica ispirata alle grandi esperienze socialdemocratiche del Nord Europa che, scendendo per li rami, è arrivata fino al piano regolatore generale di Roma giunto alla sua tappa finale nell’Aula Giulio Cesare. Solo in parte, però, perché, alla fine, Campos ritirò la firma, nel marzo 2003. E però ora dice «È la cosa più importante che ho fatto. Mi piace vederlo approvare». E sul sindaco Walter Veltroni aggiunge «è un capo politico dotato di realismo e ha portato a casa il Piano».
La cosa più importante, perché?
«Perché ha delle strategie innovative strepitose. Intanto quella delle centralità: quei quartieri con più di 100mila abitanti che non sono più i dormitori della città ministeriale ma quelli in cui si è insediato il terziario produttivo. Roma è una incredibile eccezione nella stagnazione indotta da quindici anni di Berlusconi, con un prodotto interno lordo in controtendenza del 6,7 per cento contro l’1,4 nella media nazionale. Quei quartieri sono le città nella città: umane e produttive che devono avere il loro centro.
E poi è stata abbandonata quella concezione «vecchia come il cucco del trasporto su gomma. Né Berlino, né Parigi, nessuna grande città è cresciuta così. La cura del ferro a Roma ha già portato all’utilizzo delle ferrovie extra-urbane. Ora si
può andare in treno da Termini all’aeroporto di Fiumicino. Chi abita in centro non se ne accorge, ma sono migliaia le persone che viaggiano e arrivano a Roma su quei vagoni che Rutelli ha voluto bianco-celesti».
E poi c’è l’ambientalismo
«Questo Prg piaceva a Antonio Cederna. Ora non si fregino del suo nome gli amici della rendita fondiaria, Cederna scriveva su Repubblica nel 1995, “siamo finalmente ad una svolta” rispetto agli sfasci di un secolo. E si riferiva alla cura del ferro, ai 40 milioni di metri cubi cancellati, il che significa 18mila ettari destinati a verde pubblico e agricolo, senza contare i parchi».
Si sente odore di polemica a sinistra
«Sfido che Veltroni ora va da solo. Ci fu impedito allora, dal massimalismo-conservatore di Bonadonna (allora assessore regionale all’urbanistica, ndr) di applicare il concetto riformista di un piano di programmazione, che non costringe ad espropriare. E invece la legge regionale ci imponeva un piano rigido, immutabile, su più di mille chilometri quadrati. Noi volevamo sospendere quei diritti edificatori in attesa da 45 anni. In cambio ci sarebbero state scadenze esecutive a breve termine. Niente: 5 milioni e 700mila euro per il vecchio esproprio. In periferia gli imprenditori danno volentieri le aree gratis per verde e servizi, perché valorizzano il loro costruito. Ma quei soldi per la città consolidata non ci sono. E se ci fossero, sarebbe meglio utilizzarli per le metropolitane».
In consiglio comunale c’è ostruzionismo, per ragioni politiche ma anche a causa delle varianti, attaccate dal Messaggero
«Non mi sorprende l’ostruzionismo dei fascisti (per me tali restano). Quanto alle varianti, sono inevitabili con le rigidità di cui dicevo».
Nel 2003 lei ritirò la firma
«In quella notte del voto in consiglio ebbi una telefonata con Veltroni che mi disse “che fai, rovini la festa?” ma poi aggiunse “ti do subito il reincarico per lavorare alle contro-deduzioni”. Io ho continuato a lavorare con Roberto Morassut, a cui mi lega affetto nato quando, prima di essere assessore all’urbanistica, era segretario della federazione romana dei Ds. E Morassut ha difeso strenuamente i principi del piano, ha grandi meriti in questa operazione. Ha un nome di origini friulane ma Roma gli deve molto».