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Raffaele Lungarella
Un piano di edilizia residenziale solo sociale
19 Maggio 2010
Abitare è difficile
Una buona sentenza della Corte costituzionale: non si può usare il termine “edilizia sociale” per affidare ai privati la competenza di fornire alloggi a chi non può accedere al mercato. Scritto per eddyburg

I lettori ricorderanno che il governo Berlusconi aveva emanato due documenti, entrambi denominati “piano casa”. Il primo (cui si riferiscono la sentenza della Corte costituzionale e l’articolo di Lungarella che la commenta) era sostanzialmente la ripresentazione di un provvedimento già varato dal governo Prodi e poi bloccato, che prevedeva qualche modesto intervento di edilizia abitativa pubblica. Il secondo, che non è mai diventato atto normativo statale, è quello che ha sollecitato più attenzione, ed era volto a premiare i proprietari immobiliari piccoli e grandi sollecitandoli ad ampliare gli edifici esistenti in deroga ai piani e ai vincoli. Questo secondo provvedimento è diventato efficace solo attraverso le leggi che i “governatori” regionali, minchioni alcuni complici altri, si sono affrettati a predisporre.

Ora la Corte costituzionale ci rivela che anche il primo provvedimento nascondeva il tentativo di adoperare la parola “sociale” per affidare ai privati le competenze, rigorosamente pubbliche, di provvedere a rendere accessibile l’alloggio a chi non può rivolgersi al mercato. Lo emenda con argomentazioni che hanno una portata più ampia del tentativo di furto sventato (e.s.)

Accolte dalla Corte costituzionale alcune delle eccezioni di legittimità costituzionale mosse dalle regioni al cosiddetto piano casa promosso dal governo con la legge 133/2008 (di conversione del D. L. 112/2008). Le regioni avevano eccepito sulla costituzionalità dell’articolo 13 della legge (relativo all’alienazione degli alloggi di proprietà pubblica) e di tutti i commi dell’articolo 11 (piano casa), ad eccezione dei commi 7, 10 e 13 (quest’ultimo limita la possibilità per gli immigrati di accedere al fondo per l’erogazione di contributi per il pagamento dei canoni).

Con la sentenza n. 121 del 26 marzo 2010, il giudizio della corte favorevole, totalmente o parzialmente, alle regioni ha riguardato tre tematiche: a) il contenuto del piano; b) le sue modalità di attuazione; c) il destino del patrimonio di alloggi pubblici. Ognuna di esse ha grande importanza. Ma la prima, per quanto si vedrà, è quella sulla quale gli effetti della pronuncia possono essere più dirompenti.

Un “anche” che vale un piano

La corte ha ritenuto parzialmente fondata la questione di legittimità posta dalle regioni relativamente al comma 3 dell’articolo 11, che elenca gli interventi attraverso cui può essere attuato il piano nazionale di edilizia abitativa. Le regioni contestavano la legittimità costituzionale della norma ritenendo che con essa lo stato non si limita a fissare obiettivi e indirizzi di carattere generale ma dettaglia la tipologia degli interventi e definisce le procedure di attuazione dei programmi regionali. I giudici l’hanno pensata differentemente e, senza mettere in discussione la lista degli strumenti e delle modalità tecniche per l’attuazione del piano, hanno appuntano la loro attenzione solo su un anche contenuto nella descrizione dell’intervento catalogato alla lettera e): “realizzazione di programmi integrati di promozione di edilizia residenziale anche sociale”.

La contestazione delle regioni che la corte ritiene legittimamente fondata sembra riguardare un aspetto marginale della questione. Ma, ad una più attenta riflessione, ciò che viene posto in discussione non è l’esclusione dal piano dei programmi integrati non finalizzati esclusivamente all’edilizia sociale, bensì la finalità stessa del piano casa, riconducendo la sua ragione d’essere esclusivamente alla promozione di interventi edilizi per le fasce deboli della popolazione; il che implica ribaltare totalmente l’obiettivo del piano.

Un piano di edilizia abitativa senza aggettivi

Le iniziative che è possibile promuovere attuando le norme dell’articolo 11 della legge 133/2008 hanno, come finalità principale, il sostegno all’economia in una fase negativa del ciclo congiunturale, stimolando la domanda delle attività edilizie tramite “un piano nazionale di edilizia abitativa” (comma 1) “rivolto all'incremento del patrimonio immobiliare ad uso abitativo attraverso l'offerta di abitazioni di edilizia residenziale” (comma 2). Ciò che il piano si propone di promuovere è la costruzione di abitazioni con una netta preponderanza di quelle da offrire a prezzi di mercato. Che questa sia la finalità del piano è il lessico stesso a rilevarlo, o meglio le carenze lessicali che in esso si riscontrano. In tutto il testo dell’articolo l’espressione edilizia residenziale sociale o alloggio sociale ricorre solo tre volte. Per due volte essa è evocata in forma neutra con il richiamo ad un decreto interministeriale di definizione di quell’espressione. La sola volta in cui il richiamo è di “sostanza”, è proprio quella della lettera e) del terzo comma, dove l’inserimento della parola anche tra edilizia e sociale, diventa un inciso quasi posto ad evidenziare che la realizzazione di interventi costruttivi finalizzati ad incrementare l’offerta di alloggi a condizioni meno onerose di quelle di mercato costituisce un’eccezione in un contesto generale il cui obiettivo è la produzione di abitazioni i cui canoni e prezzi di vendita sono definiti esclusivamente dall’incontro della domanda e dell’offerta.

Un sociale che diventa norma

La sentenza della corte trasforma in norma quella che doveva essere l’eccezione, con l’escamotage di dare per acquisito ciò che non lo era affatto, e cioè che il piano per l’edilizia abitativa fosse esclusivamente un piano di edilizia residenziale sociale in tutti suoi strumenti e iniziative e non poteva essere parzialmente sociale con riferimento ai soli programmi integrati.

Le motivazioni con cui i giudici considerano fondata l’eccezione di legittimità costituzionale relativa alla particolare norma in questione dà, infatti, per acquisito che tutte le altre norme dell’articolo 11 sono “orientate alla finalità generale dell’incremento dell’offerta abitativa per i ceti economicamente deboli” e che la formulazione del comma 3 lettera e) “deve ritenersi costituzionalmente illegittima, in quanto consente l’introduzione di finalità diverse da quelle che presiedono all’intera normativa avente ad oggetto il piano nazionale di edilizia residenziale pubblica”. Se si deborda dal settore dell’edilizia residenziale pubblica, argomentano i giudici, il piano nazionale perde il suo carattere sociale. Ma la corte esclude “che la potestà legislativa dello stato possa essere utilizzata per altre finalità, non precisate e non preventivamente inquadrabili nel riparto di competenze tra Stato e Regioni”. Se il piano non dovesse essere esclusivamente indirizzato all’edilizia sociale, ma comprendesse anche interventi di edilizia abitativa di mercato, si introdurrebbe un “corpo estraneo in un complesso normativo statale, il quale trae la sua legittimità dal fine unitario dell’incremento del patrimonio di edilizia residenziale pubblica”. La previsione che con i programmi integrati possano essere realizzati interventi di edilizia residenziale non aventi carattere sociale è in contraddizione “ con le premesse che legittimano l’intera costruzione. Infatti, la potestà legislativa, che lo Stato esercita per assicurare il quadro generale dell’edilizia abitativa, potrebbe essere indirizzata in favore di soggetti non aventi i requisiti ritenuti dalla stessa legge essenziali per beneficiare degli interventi. L’eventuale diversa destinazione dei programmi dovrebbe essere valutata in un contesto differente, allo scopo di valutare a quale titolo lo stato detti tale norma”.

L’edilizia sociale costa soldi pubblici

La dichiarazione di illegittimità costituzionale di quell’“inserimento extrasistematico […], in un complesso di norme, tutte orientate alla finalità generale dell’incremento dell’offerta abitativa per i ceti economicamente deboli”, della congiunzione anche tra residenziale e sociale nella lettera e) del terzo comma dell’articolo 11, rende di immediata evidenza la labilità dell’impronta sociale dell’intera architettura del piano casa e la conseguente accentuazione dell’esiguità delle risorse di finanza pubblica che si riteneva di destinarvi. La cifra a cavallo dei 700 milioni di euro con la quale è stato finanziato finora il piano casa, e che non pare possa crescere, almeno nel periodo breve-medio (si può ipotizzare fino alla fine della legislatura), avrebbe prodotto un effetto limitato anche nell’ipotesi in cui la realizzazione di alloggi di edilizia residenziale sociale fosse stato un obiettivo parziale e secondario. L’ipotesi di impiegare risorse statali tanto limitate se poteva trovare una qualche motivazione per un piano di edilizia abitativa a prevalenza di mercato, perde ogni plausibilità se il piano, come afferma la corte, deve avere l’esclusivo obiettivo di incrementare l’offerta di edilizia residenziale sociale.

Senza intesa niente accordi

La corte ha ritenuto parzialmente censurabile di illegittimità costituzionale anche il comma 4. Questa norma prevede che il piano casa venga attuato attraverso accordi di programma promossi dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti e approvati con decreto del presidente del consiglio dei ministri previa delibera del Cipe e d’intesa con la conferenza unificata. Gli accordi di programma hanno il compito di massimizzare l’efficacia delle iniziative che vengono intraprese rendendole consone alla dimensione del fabbisogno abitativo da soddisfare nei diversi contesti. Il loro contenuto è pertanto fondamentale e non può che essere definito a livello regionale, là dove si può avere una buona conoscenza delle caratteristiche della domanda economicamente debole di servizi abitativi. Se non ché la norma in questione consentirebbe al presidente del consiglio di approvare comunque gli accordi di programma qualora, su di essi, non si raggiungesse l’intesa entro 90 giorni dalla loro presentazione. I giudici hanno ritenuto costituzionalmente non legittima l’attribuzione, con questa norma, di un ruolo di predominio dello stato sugli altri soggetti che devono concorrere all’accordo di programma. L’approvazione unilaterale dell’accordo di programma renderebbe inutile l’intesa che la stessa norma prevede, violando il principio della leale collaborazione tra lo stato e le regioni.

La velocità non deve soffocare le competenze

La violazione di questo principio è anche alla base della decisione di ritenere fondata la questione di legittimità costituzionale relativa al contenuto del comma 9. Questa norma prevede che il piano possa essere attuato con le procedure previste per la realizzazione dei lavori relativi alla infrastrutture strategiche e gli insediamenti produttivi disegnate dal codice degli appalti. Le procedure di approvazione di tali lavori rendono, di fatto, marginale il ruolo delle regioni ed espropriano i comuni delle loro competenze in materia di pianificazione urbanistica.

Il ricorso a tali procedure è giustificato dalla volontà di rendere più celeri i tempi di realizzazione delle opere. Il rispetto di questa esigenza deve, però, salvaguardare gli ambiti di competenza dei diversi livelli istituzionali coinvolti. Il contrasto tra questi due propositi risulta evidente, suggerisce la corte, quando l’estensione agli interventi di edilizia abitativa delle procedure di accelerazione ipotizzate per le infrastrutture strategiche vengono poste, come fa il comma 9, in alternativa al ricorso agli accordi di programma quale strumento tipico per l’attuazione del piano casa, come esplicitamente previsto dal comma 4 dell’articolo 11.

Dichiarando l’illegittimità costituzionale del comma 9, la corte ha ritenuto, perciò, di dovere affermare la prevalenza della tutela delle competenze delle regioni in materia di edilizia residenziale pubblica sulle pure ragionevoli esigenze di speditezza nelle procedure di approvazione e realizzazione delle iniziative.

Le case le vendono i padroni

La corte costituzionale con la sentenza sul piano casa ha riaffermato l’esclusiva competenza delle regioni in fatto di alloggi pubblici. I primi tre commi dell’articolo 13 della legge 133/2008 regolamentano gli interventi per la “valorizzazione del patrimonio residenziale pubblico”, un modo eufemistico per dire piani di alienazione. I giudici hanno ritenuto fondati i rilievi di costituzionalità formulati dalle regioni sul secondo e sul terzo comma. Il primo si è salvato dalla censura della corte perché ritenuto sostanzialmente innocuo, limitandosi esso a prevedere la conclusione, in sede di conferenza unificata, di accordi tra i ministeri delle infrastrutture e dei trasporti e per i rapporti con le regioni, da un lato, e regioni e enti locali dall’altro, per semplificare le procedure di vendita. Non è necessario bocciare la norma, afferma in sostanza la corte, perché mentre già con precedenti sentenze si era sancito “che la gestione del patrimonio immobiliare degli Iacp rientra nella competenza residuale delle regioni, [si] deve rilevare come la norma censurata nel presente giudizio non attribuisca allo stato alcuna possibilità di ingerenza in tale gestione”. Il tentativo fatto dalla stato, con la legge finanziaria per il 2006, di imporre la vendita degli alloggi pubblici, fu tacciato di incostituzionalità.

Se lo stato non può imporre alle regioni la sottoscrizione degli accordi per la vendita degli alloggi, la corte non poteva non ritenere fondata la questione di legittimità posta relativamente alla norma (comma 2) che pretendeva di dettare i contenuti degli accordi stessi. Stabilire in partenza che gli accordi devono determinare il prezzo di vendita degli alloggi in proporzione al canone di locazione, riconoscere il diritto di opzione all'acquisto all'assegnatario, destinare i ricavi delle alienazioni a interventi per alleviare il disagio abitativo, costituisce un’ingerenza dello stato che limita la discrezionalità di scelta delle regioni e pone un ostacolo alla loro piena autonomia in una materia sulla quale la corte si è più volte espressa.

Per la stessa esigenza di evitare, con l’attribuzione di una facoltà che esse già detengono, “un’intromissione dello stato in una materia che non gli appartiene”, la corte ha bocciato anche il comma 3 dell’articolo 13, il quale attribuisce alle amministrazioni regionali e locali la facoltà di stipulare convenzioni con società di settore per lo svolgimento delle attività strumentali alla vendita dei singoli beni immobili. Inoltre non è consentito allo stato di attribuire agli enti locali la possibilità di stipulare tali convenzioni, i cui contenuti potrebbero essere in conflitto con le normative emanate dalle regioni, alle quali solo compete di regolamentare la materia della gestione degli alloggi pubblici.

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