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Paolo Cacciari
Un nordest fuori dall’ingranaggio
9 Agosto 2008
Scritti 2007
Un’analisi politica e culturale della “questione settentrionale”, non accomodante nè corriva. Da Carta Qui EstNord, n. 22, 16 giugno 2007

Sono passati dieci anni (13 settembre 1997) dalla manifestazione dei diecimila a campo Santo Stefano in risposta ai meeting leghisti e haideriani. Sulla scorta di un appello lanciato da il manifesto (Carta era ancora nel suo grembo) e Liberazione , i centri sociali, Rifondazione, i Verdi, i gruppi pacifisti nonviolenti, una moltitudine di piccoli gruppi e compagnie di amici variopinte invasero il centro storico di Venezia sotto uno striscione: “Nostra patria è il mondo intero”, accompagnando due piccoli e giovanissimi chiapanechi zapatisti incapucciati e con gli occhi sognanti. A ben guardare fu la prima iniziativa che conteneva già tutte le caratteristiche di quel disgelo dei movimenti che poi – passando per Seattle - diventò Genova e – passando per Porto Alegre – Firenze. Vennero da tutta Italia ad aiutare noi, padani afflitti dall’onda greve montante del leghismo. Le analisi le avevamo già fatte tutte (Vittorio Moioli, Roberto Biorcio, Marco Revelli): il leghismo è barbarie, ma non arretratezza; nemico della convivenza civile, ma pienamente liberista; xenofobo, ma paternalista; populista, ma non antioperaio; localista, ma iperproduttivista; antistato, ma supernazionalista; maschilista e patriarcale, ma familista; bestemmiatore, ma clericale; antipartito, ma pilastro della corazzata berlusconiana.

La domanda che ci facciamo da allora è perché mai sia capitato proprio a noi. Dove stava scritto che il dissolvimento del colossale sistema di potere doroteo e socialista (dei Bisaglia, Bernini, Piccoli, Rumor, De Michelis…) dovesse trasferirsi nei mostri Galan, Tosi, Tomat…?

Le risposte che ci sono venute in questi anni dagli esperti sono tutte giuste, ma nessuna convincente. Gli studi sui flussi di voti di Gianni Riccamboni ci spiegano come la Casa della Libertà ricalchi l’impronta dc, persistente nei secoli, scavalchi guerre mondiali e rivoluzioni industriali. Insomma, le radici culturali sembrano segnare più di ogni cosa i nostri destini, specularmene a ciò che avviene nell’altra metà della bassa padania, sotto il Po, dove regna più o meno felicemente l’altra coalizione del bipolarismo avanzante italiano. Se questa tesi fosse vera, vi sarebbero almeno due questioni settentrionali; una per le sinistre – il leghismo – e una per le destre: la Lega delle Coop. Verrebbe a dire che al Nord vi è una spartizione geopolitica che si sovrappone “arbitrariamente” ad un tessuto socioeconomico e a una composizione di classe che appare strutturalmente del tutto identico. La competizione tra i due poli avviene cioè sullo stesso terreno: per esempio, a me pare che le differenze nelle concezioni economico-sociali di Tremonti e Bersani siano più sfumature che sostanza; allo stesso modo le politiche dei governatori Illy e Galan sono una rincorsa a chi chiede “più autostrade e meno tasse”. La missione del nuovo Partito Democratico (del Nord) è inserirsi e proporsi come sostituto al sistema di potere esistente. Ma fino a che questo funzionerà (e funziona bene; vedi qualsiasi classifica di redditi, depositi bancari, occupazione) non si capisce chi e perché dovrebbe cambiare cavallo. Spesso a sinistra si confonde la propaganda (il lamento rivendicativo) con la realtà: la Lega è figlia di un successo competitivo del sistema economico, non di una emarginazione. Certo, il rischio, l’insicurezza e l’instabilità sono connotati nel tipo di competizione in atto tra aree geografiche e sistemi produttivi, a tal punto da stressare anche le tempre più dure, oltre che distruggere relazioni sociali, paesaggi storici e ambienti naturali. Ma per evitare ciò, servirebbe, per l’appunto, un percorso di fuoriuscita dagli ingranaggi della megamacchina produttiva, a partire da una visione altra della società e del mondo.

Le analisi dei centri studi delle Fondazioni e dei sindacati, di Aldo Bonomi, Enzo Rullani, Daniele Marini… ci fanno pensare che la antropologia generata dal capitalismo popolare, diffuso, molecolare, individuale… della piccola e piccolissima impresa che “mette al lavoro” l’intera società, nonne e bambini compresi, e scandisce i ritmi biologici della vita, è quella della forma mentis dell’homo homini lupus. L’imprenditore, l’autonomo, colui che sa farsi i soldi da solo diventa la figura sociale di riferimento. Come un tempo, forse, lo era stato il proprietario terriero, poi il dottore e l’insegnate, persino l’architetto nell’italietta del boom, oggi, passando per l’artigiano (rileggere Meneghello), l’egemonia culturale e politica è quella del padrone. Così la platea a cui si riferisce la politica diventa “ceto produttivo”. Un indifferenziato miscuglio di lavori tenuto assieme da un unico obiettivo: il risultato d’azienda e il successo del suo sistema locale (distretto) o di filiera internazionalizzato fino in Cina (“dislungo”). Il compito della politica è di assicurare la necessaria coesione sociale, ma ci si accontenta anche solo di realizzare una “complicità” tra i diversi lavori e “mestieri”.

Il nuovo soggetto politico unitario che sta nascendo a sinistra, con il Cantiere tra Rifondazione, Pcdi, Sinistra Democratica, pensa che la “questione settentrionale” derivi da un deficit che si è acuito nel tempo nella capacità di rappresentare il lavoro dipendente salariato, gli operai. Verissimo, ma cosa pensiamo di offrire loro per ottenere credibilità e fiducia? Basta la resistenza su contratto nazionale di lavoro e pensioni per poter garantirgli potere d’acquisto e condizioni di vita migliori? Temo che gli operai abbiano capito che i padroni sono più bravi di qualsiasi “governo amico” nel distribuire paghe e anche mance. Temo che la ripresa di una idea di sinistra nelle nostre terre non possa fare a meno di prospettare cambiamenti di scenario più radicali. Ma questo cantiere non lo vedo ancora impiantato.

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