Alternative per il Socialismo n. 36
Nella prima decade di maggio, il nostro vecchio continente ha celebrato la vittoria contro il nazismo e i 65 anni della dichiarazione di Robert Schumann che pose la prima pietra per la costruzione della unità europea, pur nella forma squisitamente economica della Comunità del carbone e dell’acciaio, la Ceca. Ma non si può dire che siano stati anniversari lieti per l’Europa. La crisi economica e soprattutto le politiche dei suoi gruppi dirigenti la schiacciano e i rischi di implosione si moltiplicano.
Naturalmente non manca chi cerca di fare almeno un po’ di training autogeno, non fosse altro che per sollevare il morale. The European Economic Forecast, le previsioni economiche di primavera 2015, rese note dalla Commissione europea agli inizi di maggio, sembrano appartenere a questo tipo di pratiche e infatti recano un incipit davvero ottimistico, che in inglese suona ancora più enfatico: “The outlook for economic growth in the EU has brightened”. Ma davvero le prospettive economiche nel nostro continente sono diventate addirittura luminose? Scorrendo il resto del rapporto, e in particolare la prima tabella, si ha ragione di dubitarne. La crescita del Pil nell’Eurozona è stimata per il 2015 fino all’1,5%, per il 2016 all’1,9%. Tra i fanalini di coda troviamo l’Italia con un +0,6% nel 2015 e un +1,4% per l’anno successivo. Alla pari con Cipro e migliore solo rispetto alla Finlandia. Se ci si allarga all’area di tutta la Ue la crescita nel 2015 è prevista in un +1,8% nel 2015 e in un 2,1% nel 2016. Cifre lontane dal 3% degli Usa e ovviamente dal 6,8% della Cina, nel 2016, quest’ultima in rallentamento rispetto agli anni precedenti. Poco consolante il dato della disoccupazione che si prevede a fine 2015 posizionarsi sull’11% nell’eurozona e sul 9,6% nell’intera EU, con previsioni di diminuzione di solo qualche decimale nel 2016.
Se l’economia reale resta al palo o retrocede, la finanza ha ripreso, superati i primi terribili shock dell’inizio della crisi, a filare a gonfie vele. Nello scorso decennio le attività finanziarie europee – secondo il Banking Structures Report della Bce – si sono quasi raddoppiate, giungendo al livello, nel 2013, di quasi sei volte il Pil dell’intera Eurozona. La bolla finanziaria continua imperterrita a gonfiarsi lasciando il mondo intero con il fiato sospeso di fronte ad una sua possibile e improvvisa esplosione, dal momento che le misure cautelative nel frattempo adottate sono del tutto insufficienti.
La contingenza favorevole non scuote l’economia europea
D’accordo, i dati economici complessivi del 2014 e soprattutto del 2013 erano ancora peggiori e recavano un segno negativo per la crescita nell’Eurozona. Ma da allora ad oggi sono intervenuti fatti rilevanti nell’economia europea e soprattutto extraeuropea, dai quali in molti si attendevano di più. Quali il crollo del prezzo del greggio, la svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro, i tassi di interessi bassissimi in Europa, i concreti segnali di ripresa dell’economia americana, ma soprattutto la pioggia di denaro elargita alle banche europee con il famoso Quantitative Easing voluto fortemente da Mario Draghi. A questi elementi straordinariamente positivi in sé – anche se non privi di effetti collaterali negativi in termini di incremento delle diseguaglianze sociali, come vedremo poi – hanno fatto da contraltare altri negativi, come le tensioni geopolitiche con la Russia. Ma nel complesso questi ultimi non spiegano interamente il “nervosismo” dei mercati finanziari – come si suole dire con un linguaggio ormai stereotipato – né l’apparire di nuove nubi dietro quell’orizzonte luminoso, come lo stesso rapporto della Commissione europea riconosce poche righe dopo quell’incipit così trionfale.
Né è sufficiente affermare, pur restando nel giusto, quanto più volte abbiamo scritto in questa rivista: che l’Unione europea più che vittima della crisi lo è delle proprie sciagurate politiche di austerità. Questo non solo è vero, ma più si vede la differenza dell’andamento economico europeo con quello di altre zone a capitalismo sviluppato, più diventa evidente. Al punto che anche nel pensiero mainstream e persino nei documenti ufficiali del Fondo Monetario Internazionale la critica al rigore all’europea non viene certo sottaciuta.
Il guaio è che quelle politiche e l’andamento geopolitico ed economico mondiale hanno creato nel nostro continente guasti profondissimi, che non possono essere rimossi da un semplice mutamento, anche se molto favorevole, della congiuntura economica. Se anche supponessimo che le elite europee si convincessero come d’incanto che l’assoluta prevalenza della finanza sull’economia reale costituisce un errore strategico e decidessero di ridare slancio alla produzione, questa non potrebbe avvenire negli stessi modi, secondo gli stessi schemi e con gli stessi obiettivi produttivi del periodo anticrisi, anche perché molte di quelle forme e strutture produttive sono andate perdute, o completamente trasformate nelle loro finalità o de localizzate durante questi anni di stagnazione e di recessione. L’Italia, che ha perduto il 25% del proprio potenziale produttivo lungo questo periodo, è un caso di scuola in negativo.
Si aggrovigliano quindi nodi complessi di breve e lungo periodo, che riguardano gli aspetti più contingenti come quelli di più lunga durata. Difficilmente, anche se fosse animata dalla migliore classe dirigente – il che non è – l’Unione europea potrebbe scioglierli tutti contemporaneamente. Ma potrebbe, questo sì, cominciare ad aggredirne qualcuno in modo positivo. Il più urgente dei quali, senza la cui soluzione la Ue è destinata a implodere, è la questione del debito greco.
Purtroppo sta avvenendo il contrario. Come non è difficile prevedere, anche l’appuntamento dell’Eurogruppo dell’11 maggio non è stato risolutivo. Anzi, ogni volta che ci si avvicina a queste riunioni, le distanze sembrano aumentare e le polemiche farsi sempre più aspre. Contemporaneamente cresce anche la consapevolezza in ambienti mainstream di andare a sbattere senza alcuna ragione contro il muro di una stupida rigidità. Qualche settimana fa una editorialista del Sole24Ore, Adriana Cerretelli, scriveva parole pesanti e inequivocabili sull’argomento: ““La Grecia, 2% del Pil dell’Eurozona e 3% del debito, non è mai stata un mostro di virtù pubbliche. Lo si sa da sempre. Come si sa che è stata salvata per salvare gli investimenti delle banche tedesche e francesi. Come si sa che, rigore o no, non potrà ripagare i debiti. Se abbandonata al suo destino affonderà dunque nel marasma più nero. Ma … quell’atto di incoscienza collettiva ricadrà su euro e Europa. Non sarebbe meglio una sana Realpolitik. Meno costosa per tutti?”
Erano i giorni immediatamente antecedenti al vertice di Riga del 24 Aprile. Un vertice rivelatosi non solo infruttuoso – come era largamente prevedibile e previsto – ma addirittura negativo, perché in quell’occasione è partito un violento tentativo di delegittimazione di Yanis Varoufakis come capo della delegazione greca trattante. Un tentativo abilmente aggirato da Alexis Tsipras con un allargamento della delegazione e una fluidificazione di ruoli che non ha affatto tolto la fiducia al suo Ministro delle Finanze.
Le richieste della Grecia restano contenute. In sostanza puntano a guadagnare tempo per potere innescare un processo alternativo di crescita sociale ed economica. Nello stesso tempo i greci non sono mai venuti meno nel rispettare le loro scadenze con i debitori, anche a costo di promulgare decreti sul concentramento dei fondi degli enti pubblici presso la cassa centrale dello Stato. Il principio rimane quello detto da Varoufakis: “arrivare a compromessi senza essere compromessi”. Il che comporta che si può discutere anche di privatizzazioni, entro una certa misura, ma non si può retrocedere sui temi del lavoro e delle pensioni, che costituiscono il cuore sociale del programma su cui Syriza ha vinto le elezioni.
A fronte di questo i greci chiedono ciò che sarebbe loro, come quel 1,9 mld di euro che rappresentano i guadagni della Bce sui titoli greci; un’anticipazione sui 7,2 mld di euro che costituiscono l’ultima tranche del famoso programma di aiuti e l’innalzamento a 15 mld della possibilità di emettere titoli di stato a tre mesi, che potrebbero fornire un poco di fiato finanziario allo stato e al sistema economico ellenico. Su questo ultimo punto si è particolarmente irrigidito Mario Draghi, cosa apparentemente paradossale rispetto alla disponibilità di mettere sul piatto qualcosa come 1140 mld di euro fino al settembre del 2016 – con la possibilità di continuare ancora, se non basterà – per le banche europee, escluse quelle greche e cipriote (il quantitative easing appunto).
Ma come è noto attorno alla vicenda greca si gioca essenzialmente una partita politica più che economica. Se la Grecia se la cava è dimostrato in modo evidente che la strada alternativa alla austerità esiste ed è praticabile. Il che genera, per quei paesi che l’hanno praticata con fervore, evidenti problemi di credibilità verso i loro popoli. Per questo la Grecia nella trattativa in corso è sola contro gli altri 18 paesi, e quelli più scatenati sono quelli iberici che temono una vittoria delle sinistre nei loro paesi e quelli dell’est, come si conviene a dei veri e propri parvenu.
Il pericolo di un contagio economico-finanziario in caso di Grexit
Questa partita tutta politica, guidata con sapienza tattica, ma insipienza strategica da Angela Merkel, non esclude di correre rischi che potrebbero rivelarsi fatali. Non c’è solo il pericolo di un contagio politico derivante da una soluzione che veda la Grecia non sconfitta nel confronto, vi è anche quello di un contagio economico-finanziario in caso di una Grexit, cioè di un’uscita della Grecia dall’Euro e quindi dalla Ue. Per questo si affaccia una nuova tattica, in cui si alternano scientemente docce calde e docce gelate, per la quale è già nato un nuovo neologismo: “Grimbo”, ovvero tenere la Grecia in una sorta di limbo, nel quale la corda attorno al collo non viene mai mollata né stretta fino in fondo, in attesa che il governo di Tsipras sia costretto a cedere e conseguentemente a perdere il grande consenso di cui gode, magari con la prospettiva finale di un rovesciamento politico etero diretto, di un colpo di stato bianco per dirlo in termini più esatti.
Anche alla prima donna d’Europa converrebbe guardare bene le previsioni che gli analisti economici fanno in caso di una possibile Grexit. E’ vero che il sistema bancario europeo è molto meno esposto nei confronti del paese ellenico di qualche anno fa, ma lo sono gli Stati, sia in modo diretto, sia attraverso il Fondo salva stati. A loro non conviene un fallimento della Grecia e una Grexit, perché diventerebbe del tutto improbabile il recupero dei loro crediti. Vale il detto popolare: se hai un debito di mille euro con la tua banca il problema è tuo, se il debito è di milione il problema è della banca.
Tanto è vero che nei giorni immediatamente precedenti alla riunione dell’Eurogruppo dell’11 maggio, che sono gli stessi nei quali la Commissione europea ha reso noto il suo ottimistico rapporto con cui abbiamo aperto questo articolo, i mercati finanziari hanno ripreso a ballare. Le Borse tendono al ribasso, gli spread salgono. I rendimenti dei Btp e dei Bonos spagnoli puntano nuovamente verso l’alto come non accadeva dal gennaio scorso. Ma la novità più rilevante è che qualche sofferenza la evidenziano persino i potentissimi Bund tedeschi, che erano scesi a rendimenti negativi. Ora hanno cominciato a risalire. Quindi nemmeno la Germania è più vista come un porto assolutamente sicuro, dove posteggiare i capitali anche perdendoci un poco.
In sostanza l’economia finanziaria non crede alle parole della politica che ha cercato in una certa fase di sostenere la tesi della irrilevanza di un’uscita della Grecia dalla Ue e dall’Euro, come se il fatale default greco potesse essere derubricato a semplice tragedia nazionale e non coinvolgesse la credibilità dello stesso progetto di unità europea oltre al suo stato di salute economico-finanziario.
D’altro canto se si allenta anche solo per un attimo la tensione sul fronte greco, si accende subito un focolaio di un possibile grande incendio da un’altra parte. E’ quanto sta accadendo dopo la netta vittoria elettorale dei conservatori inglesi. Nessuno dimentica, soprattutto coloro che lo hanno eletto, che David Cameron aveva promesso urbi et orbi in campagna elettorale un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nella Ue da tenersi entro il 2017. Quindi vi è anche una possibile Brexit alle porte. I neologismi non mancano
Il termine quanto mai usato di “apprendista stregone” si spreca sui giornali di tutta Europa e viene riferito naturalmente ad Alexis Tsipras, il quale avrebbe irresponsabilmente suscitato speranze e bisogni che ora non riuscirebbe né a soddisfare né a dominare. D’altro canto le cancellerie di tutt’Europa vorrebbero decidere loro la politica economica interna della Grecia indipendentemente dall’esito elettorale. Invece la vera domanda che dovrebbero cominciare seriamente a porsi è se l’apprendista stregone non è invece quella politica di rigore che sta facendo implodere l’Europa dal punto di vista economico e che dal punto di vista politico sta dando la stura a populismi di ogni tipo, dall’alto e dal basso, che operano in senso apertamente disgregatore rispetto all’unità europea.
Gli sgradevoli effetti collaterali del Quantitative Easing
Il Quantitative Easing è stato certamente un intervento invocato e necessario, almeno per mettere una toppa ad una situazione che diveniva ogni giorno più drammatica. Ha rappresentato la continuazione logica e naturale di quel famoso “Whatever it takes” già pronunciato da Draghi tre anni orsono, nel momento di maggiore panico per la gravità della crisi. Una pioggia di miliardi sta inondando il sistema bancario europeo. Ma a parte il fatto che questo di per sé non garantisce che quella liquidità si trasformi in investimenti dell’economia reale, vi sono altri aspetti collaterali della iniziativa della Bce che andrebbero presi in considerazione.
Come per ogni cosa, cominciare è più facile che smettere. Il pompaggio di liquidità è previsto fino all’autunno del 2016, ma potrebbe continuare se l’inflazione non raggiungesse il 2%. Che è il target della Bce. Ma questo potrebbe creare, come già si vede, nuove bolle speculative, che andrebbero trattate con cura, per evitare che scoppino nelle mani di chi le ha create e per di più all’improvviso. Ci vorrebbe una strategia di sgonfiamento graduale. Ma se l’inflazione ripartisse e l’economia reale no, per quei motivi di fondo e strutturali cui si è fatto prima cenno, cosa potrebbe succedere? In base al suo mandato vincolato solo al tasso di inflazione la Bce dovrebbe bruscamente arrestare il proprio intervento, provocando in questo caso un shock negativo sui mercati. A differenza della Fed, che infatti ha iniziato il tapering, ovvero una graduale riduzione del pompaggio di liquidità prima ancora del probabile innalzamento dei tassi, la Bce non ha nella sua mission l’elasticità e cassetta degli attrezzi necessari per farlo. La possibilità che il celebrato QE si tramuti poi in una bolla incontrollabile è un effetto collaterale indesiderato ma tutt’altro che improbabile.
Ma vi è un altro effetto da tenere ancora di più in considerazione. L’abbassamento dei tassi di interesse trascina con sé la rivalutazione delle obbligazioni a lungo termine, delle azioni e del valore degli immobili. Soprattutto in assenza di una tassazione patrimoniale onnicomprensiva, come nel caso italiano. Il che incrementerebbe la ricchezza di quella piccola percentuale di popolazione (l’un per cento direbbero quelli di blockupy) con l’esito di una ulteriore divaricazione della forbice delle diseguaglianze reddituali e sociali.
Gli effetti si vedono già, come notano gli analisti economici, sia nel contesto generale europeo che nel caso italiano. La massa di liquidità rovesciata sul mercato induce gli operatori a liberarsi dei titoli in loro possesso fino a quel momento e a utilizzare il nuovo denaro per altri acquisti finanziari, piuttosto che prendere la strada degli investimenti nell’economia produttiva. Così l’azione della Bce gonfia il valore, come abbiamo visto, del mercato finanziario allontanandolo sempre più da quello dell’economia reale sottostante che conosce , se lo conosce, un progresso molto più lento.
Nel caso italiano questo è cominciato ad accadere ancora prima che il QE entrasse in azione: è bastato l’effetto annuncio. Il mercato azionario si è subito vivacizzato. A fine febbraio il principale indice milanese era salito del 20% dall’inizio dell’anno. L’indice Ftse-Mib aveva una valutazione assai elevata rispetto al rapporto fra i prezzi delle azioni e gli utili delle imprese. La Borsa di Milano ha battuto in questa direzione quella di Francoforte, di Parigi, di Londra e di Wall Street. In sostanza i prezzi degli attivi finanziari aumentano la loro distanza dalla realtà. Se l’economia reale sottostante non riparte, un nuovo tonfo verso il basso della crisi sarà inevitabile e di proporzioni ancora più terribili.
Le polemiche sull’incremento delle diseguaglianze
Quasi a esorcizzare questo pericolo e a contenere il successo e l’impatto sull’immaginario collettivo del famoso libro di Thomas Piketty, che più che una analisi del capitalismo del XXI secolo, è un’ottima fotografia della dilatazione delle diseguaglianze nel mondo contemporaneo, alcuni giornali economici, fra cui il Sole24Ore si sono gettati su un Dossier curato dalla Fondazione Hume, che vorrebbe dimostrare il carattere puramente immaginario, “leggendario” dice addirittura il curatore dell’articolo Luca Ricolfi, dell’aumento delle diseguaglianze su scala globale. Non siamo tornati evidentemente alla vecchia teoria dell’inizio della globalizzazione, secondo cui l’alta marea avrebbe alzato tutte le barche, ma non ne siamo molto distanti.
Ovviamente va riconosciuto che anche l’aumento delle diseguaglianze è avvenuto e avviene in modo diseguale, ovvero non dappertutto, non nella stessa misura o con la medesima velocità. Ma che siamo comunque di fronte ad una crescita complessiva della diseguaglianza a lungo termine nella Ue, non sembrano esserci dubbi, almeno stando ai dati forniti da altri autorevoli centri studi, quali il Luxemburg Income Survey (LIS). Lo osserva il Rapporto Euromemorandum 2015, secondo cui il fenomeno delle differenze di reddito all’interno dei singoli paesi e tra paesi diversi è in crescita in tutto il mondo: “in particolare in Europa si rischia di ritornare sugli elevatissimi livelli di diseguaglianza di due secoli fa”! La Banca dati del LIS contiene dati di lungo periodo sulla diseguaglianza di reddito in 21 Ue negli ultimi venti/trenta anni. Se si eccettuano tre paesi di piccole dimensioni, dove i valori della diseguaglianza erano già molto alti e quindi è comprensibile una certa diminuzione, e la Danimarca e la Svezia, dove al contrario tali valori erano già bassi, la diseguaglianza è cresciuta sotto diversi aspetti in tutti gli altri, i più popolosi. Qui è diminuita grandemente, e da lungo tempo, la quota nazionale del reddito destinata al lavoro e contemporaneamente la distribuzione dei salari è diventata molto più differenziata. In questo campo, come in altri, si è ulteriormente divaricata la condizione di genere, al punto da meritare un puntuale intervento di papa Francesco, ovviamente riverito ma inascoltato.
Come mai allora i dati riportati dal Sole 24 Ore dipingono un quadro diverso? Come osservano tre studiosi come Elena Granaglia, Maurizio Franzini e Michele Raitano (Eticaeconomia Menabò online) malgrado l’eterogeneità dei dati non si può disconoscere una “tendenza generalizzata alla crescita delle diseguaglianze”. Nel ragionamento di Ricolfi, oltre alla evidente ansia di tranquillizzare rispetto alle sorti non più né magnifiche né progressive della globalizzazione capitalistica, vi sono errori metodologici non infrequenti anche tra i migliori analisti. Il pensiero corre immediatamente all’ormai infaustamente celebre errore sull’uso del programma excel di Microsoft compiuto da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff.
Per la verità qui non siamo in un caso così banale. Il problema è che la misura principalmente utilizzata da Ricolfi per dimostrare la tendenza alla diminuzione delle diseguaglianze è l’indice di Gini, che però è una misura sintetica non sufficiente per comprendere proprio quello che accade nei segmenti estremi della distribuzione dei redditi e della ricchezza. Semplificando un poco, sarebbe dunque la stessa polarizzazione delle diseguaglianze a renderne difficile la lettura corretta utilizzando quella classica strumentazione inventata dal grande statistico italiano.
Inoltre l’editorialista del Sole24Ore sottovaluta l’importanza che nella misurazione delle diseguaglianze hanno assunto le diversità nei redditi da lavoro. Come sappiamo anche empiricamente, se venti/trenta anni fa la differenza tra un manager e un suo dipendente poteva arrivare a 40/50 volte la misura dei rispettivi stipendi, oggi si colloca tranquillamente sulle 400/500. Il peso dei super redditi da lavoro è enormemente aumentato. Si è formata, per usare un termine caro a David Rothkopf, una superclass, una elite mondiale di manager responsabili quanto e più dei proprietari dei mezzi di produzione dell’andamento del capitalismo mondiale. Branco Milanovic della Banca mondiale, famoso studioso della diseguaglianza, ha riconosciuto che nel 2008 l’indice di Gini della diseguaglianza globale sembrava essere diminuito di due punti rispetto al precedente ventennio. Ma se invece si stima correttamente anche il peso dei super ricchi tale indice non mostra alcuna diminuzione.
Infine gli autori dell’articolo su Eticaeconomia si soffermano sui periodi storici presi in considerazione. Ricolfi accusa addirittura Atkinson (nel suo recentissimo Inequality: What Can be Done, Harvard University Press, 2015) di scegliersi un periodo di comodo con cui confrontare la diseguaglianza attuale. Cioè gli anni ’80, quando la diseguaglianza era a un punto minimo. Ricolfi contrappone a quegli anni il periodo 1960-1972, dove invece questa era a un punto massimo. Si potrebbe perciò dire che entrambi sono accusabili di cherrypicking, come dicono gli anglosassoni, ovvero di scegliersi come le ciliegie il periodo più comodo per dimostrare i propri assunti. In realtà il procedimento di Atkinson appare più che corretto poiché sceglie proprio un periodo di faglia, nel quale il ciclo economico si inverte.
Reazioni e debolezze degli USA di fronte alla loro perdita di egemonia mondiale
Insomma gli imbellettatori del processo di globalizzazione devono rivolgere i loro sforzi altrove. Questa, aggravata dalla crisi, ci consegna un mondo più diseguale e la nostra Europa non fa eccezione, anzi ne è la conferma. Ma non è solo crisi. Sullo sfondo avviene un cambiamento epocale nell’organizzazione del capitalismo mondiale. Come in altre epoche storiche chiave, di cui ci hanno ampiamente parlato gli studi di un Braudel, di un Wallerstein, di un Arrighi, siamo di fronte ad un nuovo processo di transizione egemonica mondiale. Da Ovest ad Est. Il secolo americano è finito o è agli sgoccioli, solo che la leadership americana non si rassegna a questo cambiamento storicamente inevitabile. Il centro economico e produttivo si sta rapidamente spostando a Est. Verso la Cina, principalmente, anche se la crescita dell’India non scherza. Lo si vede anche nei rapporti di forza tra le monete. Scende quella del dollaro su scala internazionale, a riprova che la forza di una moneta non deriva solo e tanto dall’intrinseco valore economico che essa rappresenta, quanto dalla forza complessiva del paese che la emana e la sostiene.
Moises Naim, giornalista di fama mondiale ex caporedattore della autorevole Foreign Policy, si interroga se gli Stati Uniti continueranno a essere, malgrado tutto, il paese più potente del mondo. In fondo la Cina ha sì tassi di crescita invidiabili, ammodernamento industriale molto veloce ed efficace, riserve di valuta straniera incommensurabili, ma il reddito procapite, tenuto conto della sua sterminata popolazione, in gran parte abitante le zone interne arretrate, è equivalente a quello del Perù.
Sicuramente la preminenza della forza militare degli Stati Uniti d’America non può essere messa in discussione da nessuno. Per ora. La stessa Cina, però, non si limita ad acquistare solo industrie – come si vede anche in Europa e nel nostro paese – terra, soprattutto in Africa, infrastrutture e debiti stranieri, non a caso la Cina è assai interessata al porto del Pireo. Ma ha sviluppato enormemente gli investimenti in armamenti per cercare di colmare nel più breve tempo possibile l’handicap che la separa dalle grandi potenze in questo campo.
Non è affatto un buon segnale per la causa della pace, che avrebbe bisogno di trovare nuovo vigore dopo le grandi lotte negli anni Zero del nuovo secolo. Ma soprattutto ingenera preoccupazione sia sul versante orientale che su quello occidentale del pianeta, spingendo verso l’alto la corsa al riarmo da parte di tutti i paesi che se lo possono permettere. La conseguenza è che il mercato oggi globalmente più in espansione è quello degli armamenti. La Cina ne è protagonista. Qualche cosa si è visto nella sfilata del 9 maggio a Mosca per celebrare la fine della Seconda Guerra Mondiale (“La grande guerra patriottica”, come l’hanno sempre chiamata i russi), quando per la prima volta soldati dell’armata popolare di Pechino hanno sfilato sulla piazza Rossa a Mosca, per ribadire che vi fu anche un rilevante contributo asiatico nella sconfitta del nazifascismo. Vedremo cosa il governo cinese deciderà di mostrare al mondo il prossimo 3 settembre, quando la sfilata militare si terrà a Pechino per ricordare la vittoria sul Giappone.
Il Fmi e la Banca asiatica degli investimenti infrastrutturali (Baii)
Tuttavia Naim pare più preoccupato dalle divisioni politiche interne agli Usa che indebolirebbero l’eventuale possibilità della ripresa di un loro ruolo egemonico su scala mondiale. E’ il caso dell’impasse nel quale si troverebbe il Fondo monetario internazionale. I tentativi di migliorarlo – dopo le pesanti critiche fiondate da più parti al suo operato - non hanno avuto successo. Obama aveva anche proposto di accrescere il ruolo della Cina al suo interno. Per quanto la misura prevista fosse già del tutto insufficiente per tenere nel dovuto conto l’accresciuta forza economica del grande paese asiatico, il Congresso Usa non è riuscito in cinque anni ad approvare quella proposta. La Cina si è dunque mossa per conto suo, dando vita alla Banca asiatica degli investimenti infrastrutturali (Baii), cui hanno aderito, malgrado la dissuasione messa in atto dagli Usa, paesi come l’Australia e diversi paesi europei, fra cui il Regno Unito, la Germania, la Francia e l’ Italia. La Cina ha ammesso tra i 57 paesi componenti la Baii, ove compaiono anche molti paesi poveri, anche la Norvegia, un po’ a sorpresa vista l’ostilità verso questo paese dopo l’assegnazione nel 2010 del premio Nobel per la pace al dissidente Liu Xiaobo. Ma evidentemente anche in Oriente pecunia non olet.
Molti commentatori politici ed economici hanno considerato addirittura una follia il rifiuto degli Usa a farne parte, poiché secondo questi critici la battaglia per l’egemonia andrebbe combattuta all’interno delle varie istituzioni che si formano a livello internazionale, specialmente quando queste mostrano comunque una considerevole capacità di attrattiva.
Il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip)
Ma la leadership statunitense è tutta concentrata su altre imprese. Tra queste spicca il Ttip. La sigla è un acronimo inglese che tradotto significa Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti. Se ne parla da molto e le trattative fra Usa e Ue restano segrete. Perfino la consultazione del materiale di supporto può avvenire solo a certe condizioni che risultano essere complicate o addirittura ostative anche per gli stessi parlamentari europei. Naturalmente ogni tanto la coltre di segretezza viene bucata da abili hackers. Ma la privazione di trasparenza rimane.
Eppure si tratta di una questione di grande rilevanza – di cui la nostra rivista si è già occupata (Monica Di Sisto, in Alternative per il Socialismo n.33) - tale da condizionare l’economia e la società non solo del nostro paese ma di tutta Europa. La propaganda lo presenta come un passo in avanti nel libero commercio tra le due sponde dell’Atlantico, grazie all’abbattimento di dazi e dogane. La realtà è assai diversa. Ma per comprenderla appieno bisogna partire da qualche premessa basata su alcuni dati, scelti a scopo esemplificativo. Concentriamoci sull’Italia. Il nostro paese è da tempo pienamente inserito nei flussi della globalizzazione mondiale. E’ un punto di incontro delle filiere della produzione del valore globali. L’Istat ci dice che nel 2011 in Italia agivano 13.527 affiliate di multinazionali controllate dall’estero. Queste imprese realizzano un fatturato pari a oltre il 16% di quello complessivo del territorio nazionale. La loro attività è prevalente nel campo dei servizi, ma anche l’industria ne è interessata. Tra i paesi controllanti al primo posto ci sono gli Stati Uniti, cui seguono la Francia e la Germania. Viceversa la stessa Istat riferisce che sono 21.682 le affiliate di multinazionali italiane insediate all’estero, anche qui prevalentemente nei settori dei servizi.
L’integrazione produttiva e commerciale del nostro paese e quindi già un dato di fatto ed è avvenuta senza bisogno del Ttip, su cui tuttora si sta trattando. Da dove deriva allora e perché l’insistenza su questo Trattato? Il motivo sta altrove rispetto al libero scambio, con buona pace dei liberisti, ed anche rispetto all’impatto economico che potrà avere sulle due sponde dell’Atlantico. Come ha osservato Marcello de Cecco (Affari e Finanza, 24 nov. 2014) : “La prospettata unione euroamericana, infatti, farebbe aumentare assai poco sia il commercio totale che specialmente il Pil delle parti contraenti, e quel poco solo nel lungo periodo. Questo a detta persino degli studi di parte condotti per promuovere l’iniziativa.”
Il cuore del trattato non sta dunque nel fatto che una volta approvato, ad esempio, si potranno vendere sul mercato europeo i polli americani disinfettati con il cloro, ma nel nuovo sistema di governance che attraverso questo si vorrebbe imporre a livello globale, in particolare da parte degli Stati Uniti e nell’interesse delle grandi multinazionali. Ha sempre ragione De Cecco quando annota che “a spingere per la realizzazione del nuovo partner iato sono le associazioni industriali europee che vedono in esso un cavallo di Troia contro gli eccessi di regolamentazione degli stati nazionali”. Bisognerebbe dire, in verità, di ciò che resta degli stati nazionali.
La logica delle imprese vuole prevalere sui diritti degli Stati e dei cittadini
Infatti il Trattato prevede l’introduzione di organismi tecnici tali da svuotare di democrazia ogni processo decisionale e ogni residuo di sovranità sulle politiche economiche. Il primo consiste in un meccanismo di protezione degli investimenti (Isds secondo l’acronimo inglese), in base al quale le imprese possono citare in giudizio gli Stati qualora questi decidessero, secondo procedure democratiche, di adottare misure considerate nocive agli interessi delle multinazionali stesse. Ma non sarebbero i tribunali ordinari la sede del giudizio, bensì consessi riservati di avvocati commercialisti super specializzati, che giudicherebbero sulla base delle norme del Trattato se uno Stato ha creato un danno ad un’impresa, magari allo scopo di difendere la salute e l’ambiente (pensiamo ad esempio al caso Ilva). In questo caso quel consesso potrebbe pretendere che quello Stato o quell’Ente Locale ritiri il provvedimento e sia costretto a indennizzare l’impresa del presunto svantaggio economico arrecato. Il principio del profitto e del commercio la avrebbero vinta su quello di una giustizia basata sulla difesa dei diritti fondamentali dei cittadini tutelati costituzionalmente.
Inoltre la bozza di Trattato prevede anche la creazione di un altro organismo (Regulatory Cooperation Council) composto da esperti nominati dalla Commissione Ue e dal ministero Usa competente, con il compito di valutare l’impatto commerciale di ogni etichetta, di ogni marchio ma anche di ogni contratto di lavoro a livello nazionale o europeo, al fine di stabilirne la congruità con un rapporto fra costi/benefici che sia vantaggioso per l’impresa. Anche qui il diritto del lavoro avrebbe la peggio rispetto al diritto commerciale, malgrado i nostri principi costituzionali assai espliciti su questo aspetto. In questo modo, sempre citando Marcello De Cecco, si realizzerebbe una modifica tanto radicale quanto regressiva del diritto internazionale, tale da cancellare “quasi due millenni di tradizione giuridica europea”.
Il Parlamento europeo, come al solito, può poco al riguardo. Dopo avere votato nel 2013 il mandato esclusivo di negoziare alla Commissione europea (che non è un organo elettivo ma scelto dai vari governi), può porre solamente dei quesiti circostanziati, cui la Commissione risponde nel rispetto della cosiddetta riservatezza obbligatoria tipica delle trattative bilaterali. Poi ci sarà un voto finale, ma senza possibilità di emendare nessuna parte del Trattato che dovrà essere accettato integralmente, senza modifica alcuna, o respinto in toto.
Per tutte queste ragioni, ha preso corpo da tempo una mobilitazione a livello europeo che coinvolge cittadini e organizzazioni. In Italia la Campagna Stop Ttip (www.stop-ttip-italia.net) raccoglie oltre 60 tra associazioni, sindacati, enti pubblici, comunità di cittadini. L’obiettivo è quello di fermare il Trattato prima che giunga alla fase finale non più modificabile, imponendo a livello italiano e europeo una nuova riflessione sulle politiche economiche e commerciali utili a uscire dalla crisi senza affossare le condizioni di vita delle persone e la democrazia. Il “diritto ad avere diritti”, per usare la celebre espressione di Hannah Arendt non deve e non può essere cancellato da nessuna logica di impresa o lex mercatoria.