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Luciana Castellina
Un evergreen di nome Gramsci
1 Giugno 2016
Antonio Gramsci
«L'America che verrà. Un pellegrinaggio a New York in cerca del monumento dell’intellettuale e leader comunista. Citato nelle università Usa, è stato dimenticato all’interno del Left Forum: la sua figura avrebbe aiutato a orientarsi di fronte al "fenomeno Sanders"»
. Il manifesto, 1° giugno 2016 (c.m.c.)
New York, South Bronx, Forest Houses, 1010 Tinton Avenue, tra la 163rd e la 165th. Tanti grattacieli squadrati di mattoni rossi, vecchi e perciò tozzi, non più di quindici piani, come tutte le abitazioni popolari della città dove resistono ancora un milione di fitti bloccati e perciò sono abitati da poveri ma privilegiati. Qui quasi tutti neri. Il quartiere è molto periferico ma è verde. E nel bel mezzo del piccolo parco fra le case c’è nientedimeno che un monumento a Gramsci. Sì, proprio Antonio, il nostro. Si tratta di una scultura e di tre piccoli edifici di legno in cui ha sede una sorta di circolo politico-culturale – molto recenti, del 2013 – costruiti da Thomas Hirschhorn.

Ho traversato mezza New York per trovare il luogo, di cui nessuno dei miei amici del Left Forum cui nei giorni scorsi ( come da quasi trent’anni) sono stata ospite sapeva nemmeno l’esistenza. Ma ho insistito, perché ne avevo vista tempo fa l’immagine sul New York Times, accompagnata da un lungo articolo un po’ scettico che spiegava la genesi: un artista assai conosciuto che aveva deciso di erigere monumenti simili in quartieri popolari di altre città, ciascuno dedicato a un filosofo da lui ritenuto molto importante: oltre Gramsci anche Baruch Spinoza, George Bataille, Gilles Deleuze. Qualcuno, non ricordo in quale paese del mondo, mi aveva confermato che la statua esisteva davvero, e che attorno alla costruzione si era creato un centro di iniziativa ispirato a Gramsci stesso.

Il militante «smarrito»

È inutile che dia altri dettagli, perché, finalmente arrivata sul luogo, dopo molto vagare fra alberi e edifici, ho dovuto rassegnarmi: il monumento è stato recentemente rimosso. Non per ragioni politiche, semplicemente perché l’esposizione al maltempo l’aveva deteriorato e nessuno se ne prendeva più cura. Come potete immaginare, ci sono rimasta molto male.

La sorte di Antonio Gramsci in America non è comunque così triste come questa del suo monumento. Nelle accademie, anzi, c’è da diversi anni una incoraggiante e intelligente ricerca sul «pensatore» italiano. «Pensatore», lo chiamano, come del resto in molti all’estero: pochissimi sembrano sapere che Gramsci non è stato solo un grande intellettuale ma anche un militante politico, e anzi il leader del più grosso partito comunista d’occidente.

E così si capisce perché possa capitare di sentirlo citato nelle università, praticamente mai nei panels del Left Forum, affollati di attivisti di base; o in raduni analoghi. E come mai nei tanti banchetti allestiti per l’occasione, dove viene offerta tutta la possibile mercanzia dell’editoria marxista, i suoi libri siano una rarità.

Eppure il Forum, che fino a non molti anni fa si chiamava Socialist Scholars Conference, ed era dunque promossa proprio dai docenti di sinistra delle università della west e della east coast, di intellettuali partecipanti ne ha sempre avuti, e continua ad averne, moltissimi, nonostante i più celebri – Sweezy, Baran, Mgdoff, Singer e molti altri – siano ormai deceduti. Ma anche quando c’erano loro fra gli attivi partecipanti di questa assise annuale – articolata in centinaia di workshop, cui si affluisce pagando non pochi dollari – di Gramsci si è sempre fatto a meno.

Perché la sinistra-sinistra americana è fatta così: salvo i vecchi – ce ne sono parecchi – che indossano ancora il basco in onore della guerra civile spagnola e continuano a litigare su Trotsky e Rosa – per i militanti delle tante combattive aggregazioni comunitarie, la politica è una cosa, la cultura un’altra.

Ho fatto questa lunga premessa per spiegare perché in questi tre affrettati giorni trascorsi a New York, nel pieno di una campagna elettorale animata da uno scontro di massa senza precedenti, oltre a non aver trovato il monumento di Gramsci non ho trovato neppure una seria riflessione «gramsciana» sul fenomeno Bernie Sanders che, se del nostro «pensatore» si facesse buon uso, sarebbe apparsa indispensabile premessa di ogni dibattito.

Sanders, per altro, qui è stato sempre di casa e qui infatti l’ho incontrato io stessa quando ancora era sindaco di Burlington, la cittadina dello sperduto Vermont, e poi senatore socialista di quello stato, alieno al resto del paese quanto, e anzi di più, la provincia di Bolzano rispetto alla Calabria.

Elezioni nei workshop

Di primarie se ne è parlato in molti workshop, per carità, ma più per misurare le distanze di ciascuno dallo sfidante di Hillary Clinton (c’era persino qualche cartello che lo dichiarava troppo poco di sinistra per l’America) o per chiedersi cosa fare ove in pista contro Trump dovesse rimanere Clinton; o, ancora, cosa in questo caso si proporrà di fare Bernie. Il timore è che possa esser risucchiato dall’establishment, che potrebbe dargli qualche contentino inserendolo nella squadra del prossimo presidente, sì da ottenere per la candidata democratica i voti per niente sicuri di chi fino ad ora si batte per il candidato socialista.

È per questo, del resto, che molti fra i più autorevoli commentatori insistono nel dire che forse Sanders avrebbe più chances di battere Trump di quante ne avrebbe Clinton: porterebbe alle urne un popolo di teenagers che altrimenti a votare neppure ci andrebbe. Gli ultimi sondaggi confermano: Sanders supera Trump di 10,8 punti, mentre Clinton è testa a testa col rivale repubblicano. E poi è decisamente più simpatico: lui piace al 41 % degli interrogati da un sondaggio Cbs-New York Times, mentre Clinton solo al 31 e Trump al 26 %.

Orientamenti giovanili

L’interrogativo più importante, tuttavia, che pone questa mobilitazione così massiccia e così radicalizzata, che le primarie hanno suscitato in un paese dove lo scontro elettorale non è mai stato molto partecipato, riguarda capire chi sono questi giovani, da dove vengono, quali esperienze hanno vissuto, quali letture li hanno orientati, quale sia la loro visione del mondo. E, ancora: rappresentano un episodio o un mutamento duraturo? Al di là delle sorti di Bernie questo è il vero quesito: reggerà, e in quali forme, anche dopo il voto, il movimento che sta animando la campagna elettorale , o verrà riassorbito come è accaduto otto anni fa con la mobilitazione, sia pure infinitamente minore e comunque assai meno radicalizzata, che si ebbe per Obama?

I più accorti si rendono conto che la cosa più importante da fare sia proprio preservare e far crescere questo patrimonio, non disperderlo. È quello, innanzitutto, di cui dovrà occuparsi in futuro Bernie Sanders. E loro stessi, gruppi di base della sinistra radicale, superando il dilemma che da sempre li affligge: operare dall’interno del Partito democratico finendo per essere cooptati dalla sua macchina di potere, oppure restarne fuori rischiando l’invisibilità e l’irrilevanza.

Il merito di Sanders è, in realtà, stato proprio quello di non essersi fatto schiacciare da un sistema politico così rigidamente bipartitico da rendere impensabile la creazione di una terza forza politica, sempre fallita, sia a destra che a sinistra. Il candidato che tutti definiscono socialista ha, infatti, scelto di correre nelle primarie – al di fuori delle quali non sarebbe esistito – ma è rimasto lontanissimo e indipendente dalle potenti strutture del partito.

Proprio per questo ha ottenuto consensi impensabili fra i giovani e persino fra le donne (fra quelle al di sotto dei trent’anni l’80% nello Yova e l’82% nel New Hampshire; 73 % fra quelle di meno di quarantacinque anni nel Nevada, tanto per fare un esempio)fra cui si anima un crescente numero di gruppi femministi anti Hillary Cliton, proprio perché simbolo del detestato ideale emancipatorio dell’establishment: la donna in carriera.

Sanders ha potuto fare oggi ciò che altri nel passato non hanno potuto perché in questi anni il dilemma Partito democratico/invisibilità ha perduto peso. Qualcosa di profondo si è spezzato nel sistema americano, come del resto anche in Europa: il tradizionale modello di democrazia rappresentativa non funziona più, e tutti se ne rendono conto. I più giovani vogliono prendere la parola, direttamente. Se a questo si aggiunge l’inuguaglianza senza precedenti prodotta dal sistema, si capisce perchè la rivolta contro l’establishment sia a tal punto dilagata (esprimendosi a destra così come a sinistra).

Giustamente, mi diceva Angela Davis in occasione del suo recente viaggio a Roma, il movimento Occupy è sembrato svanire perché le piazze stracolme del 2011 si sono svuotate. Ma quella presa di coscienza, quella scossa, hanno continuato a smuovere lo stagno. Questo – aggiungeva Angela – è stato in fondo il merito di Obama: aver lasciato che quel movimento si estendesse, senza reprimerlo come avrebbe probabilmente fatto qualsiasi altro presidente.

Meno appariscente, Occupy ha infatti seminato, producendo una miriade di movimenti di lotta che coinvolgono il frantumato mondo del lavoro precario che esiste anche qui: dei lavoratori dei fast food per un minimo di paga di quindici dollari l’ora; degli studenti – un milione – che lavorano nei servizi delle università per pagarsi gli studi e reclamano il diritto ad avere un sindacato e persino quello che noi chiamiamo l’art.18, per loro la giusta causa nel licenziamento; anche loro, come da noi, contro l’ulteriore salto della globalizzazione selvaggia, i Trattati su commercio e investimenti nell’area atlantica e del Pacifico; e così via.

Soggetti politici da costruire

Predire cosa accadrà è difficile anche per chi in America ci sta e ne sa ben più di me. Certo, il rigido e antidemocratico sistema elettorale del Partito democratico, che affida le sorti delle primarie ben più che all’elettorato al disciplinato drappello dei c.d «superdelegati» alla Convention, 540 dei quali già si sono pronunciati per Hillary Clinton conto solo 42 per Bernie, dicono che i giochi sono già fatti; e che, anzi, sono stati decisi già prima di cominciare la gara. Ma vincere e diventare presidente degli Stati uniti non è il solo obiettivo di Sanders (anche con in mano la Casa Bianca che potrebbe del resto mai fare se la società americana resta quella che è?).

L’obiettivo reale è la costruzione di un diverso soggetto politico collettivo, che nel lungo periodo potrebbe davvero cambiar e le cose. Se ci riuscirà lo potremo verificare già a metà giugno quando, a Chicago, molti dei gruppi «pro Sanders» si riuniranno in quello che hanno chiamato «summit del popolo». In questa occasione, si potrà valutare meglio la consistenza del nuovo movimento e la possibilità che emerga dalla nuova generazione di militanti di sinistra una leadership credibile.

È comunque già un fatto che quanto stia accadendo negli Stati Uniti – per via della mobilitazione di quella che è stata chiamata «l’ala sinistra del possibile» – sembra essere una sinistra che fino a ieri non avremmo ritenuto possibile nemmeno sognare.

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