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Giovanni Losavio
Un emendamento al decreto della vergogna
25 Maggio 2011
Beni culturali
La forza della legge come tentativo di argine contro lo scardinamento del sistema di tutela dei beni immobili. Scritto per eddyburg, 24 maggio 2011 (m.p.g.)

Proposta di emendamento soppressivo del comma 16 dell’art. 4 del d.l. 70/2011.

Le finalità delle, in verità contenute, modifiche al codice dei beni culturali e del paesaggio sono proclamate nell’incipit del comma 16 dell’art.4: “massima attuazione del federalismo demaniale” e semplificazione dei procedimenti di rilascio delle autorizzazione paesaggistica nei comuni che abbiano adeguato il loro strumento urbanistico alle rinnovate prescrizioni dei piani paesaggistici.

1. E per cominciare, a quest’ultimo riguardo, dalla modifica all’art. 146, comma 5, secondo periodo, rileviamo innanzitutto che, rispetto al testo che fu dapprima licenziato dal consiglio dei ministri, è rimasta ferma la previsione del parere obbligatorio (non vincolante, così voluto anche nella revisione 2008 del “codice”) della soprintendenza e l’unica innovazione è costituita dalla conclusiva integrazione del comma 5, che per presunzione considera favorevole il parere che non sia stato dato entro i novanta giorni dalla ricezione degli atti. E se è la semplificazione il fine della specifica modifica, esso è sicuramente tradito, perché il vigente comma 9 dello stesso art. 146 prevede che l’“amministrazione competente” (al rilascio della autorizzazione, nella quasi generalità i comuni delegati dalla regione) provveda “decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte della soprintendenza”, “in ogni caso”, pur se la soprintendenza non abbia reso il proprio parere. E dunque la modificazione allunga i tempi, introducendo per altro la presunzione in pratica irrilevante, ma inammissibile in linea di principio, che quella inerzia valga parere favorevole, come silenzio cui concettualmente non può essere invece attribuito valore di assenso, benché non precluda la conclusione del procedimento.

2. La finalità della modifica dell’art.10, comma 5, del “codice” (e conseguentemente dei successivi articoli 12, 54, 59) è sfrontatamente dichiarata: quella cioè di includere nell’automatismo dei trasferimenti dei beni immobili dello stato a regioni ed enti territoriali locali, come previsti nel decreto legislativo n.85 del 2010, anche quei beni che ne sarebbero esclusi perché considerati di interesse culturale dal “codice”, risalendo la loro esecuzione ad oltre cinquant’anni e cioè nel precedente ventennio. Sappiamo infatti, da un lato, che l’art. 10, comma 5, fissa al cinquantennio il limite temporale dell’interesse alla tutela e, dall’altro, che il decreto legislativo 85/2010 esclude dai previsti trasferimenti tutti i beni dello stato che facciano parte del patrimonio storico e artistico e dunque tutti quelli la cui esecuzione risalga oltre il cinquantennio, fermo il principio che l’interesse culturale dei beni pubblici si deve presumere quando non vi sia stato un espresso accertamento negativo al riguardo.

Ebbene, con la modifica del comma 5 dell’articolo 10 del “codice”, per tutti i beni immobili appartenenti non solo allo stato, ma ad ogni altro ente pubblico e a tutti gli enti privati non a scopo di lucro ivi compresi gli enti ecclesiastici, è elevato a settant’anni il limite temporale di appartenenza al patrimonio storico e artistico, contro il principio generale convenzionalmente posto dalla gloriosa legge Rava – Rosadi del 1909 e dunque consolidato da oltre un secolo nel nostro ordinamento della tutela e attraverso la sua coerente prassi attuativa. La disposizione innovativa è espressione di una palese irragionevolezza, perché introduce una arbitraria disparità di trattamento rispetto ai beni mobili appartenenti ai medesimi enti e ai beni immobili di appartenenza privata (per gli uni e gli altri permane infatti la regola del limite temporale del cinquantennio). Ma, innanzitutto, la innovazione è irragionevole perché introdotta non già per le ragioni intrinseche alla più corretta definizione dell’ambito temporale del patrimonio storico e artistico della nazione (che ha la protezione costituzionale dell’articolo 9), bensì per rispondere alla dichiarata esigenza occasionale e contingente di aprire alla attuazione del così detto federalismo demaniale previsto dal decreto legislativo 85/2010 quel complesso di beni immobili dello stato la cui esecuzione risale tra il cinquantesimo e il settantesimo anno e che perciò appartengono al patrimonio culturale secondo la vigente disciplina del “codice”. Per superare dunque la esclusione dei beni culturali dello stato dai processi di automatico trasferimento, come espressamente dispone il decreto legislativo 85/ 2010 in conformità alla prescrizione al riguardo della legge delega 42/2009, il decreto legge ha così operato una assurda amputazione del patrimonio storico e artistico della nazione, negando in linea generale di principio che i beni immobili pubblici (non solo quelli di appartenenza statale) e quelli ad essi assimilati abbiano attitudine a rivestire interesse culturale e siano perciò assoggettati alla tutela se la loro esecuzione risalga anche oltre cinquant’anni, nel precedente ventennio. Con effetti che vanno al di là della dichiarata contingenza e incidono in via permanente sulla generalità del patrimonio architettonico pubblico e ad esso assimilato, che rimane privo di tutela se la sua esecuzione non risalga ad oltre settant’anni. Un arretramento permanente e gravissimo della tutela della più recente architettura. E, immediatamente, l’esclusione dalla tutela della produzione architettonica pubblica (e ad essa assimilata) degli anni quaranta e cinquanta del Novecento.

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