Le intercettazioni hanno invaso lo spazio pubblico, e pongono seri problemi di legalità. In due direzioni: la tutela della dignità delle persone (è questa la parola giusta da usare, più del riferimento alla privacy, pur indispensabile); la necessità e l´urgenza di ripristinare il rispetto di regole minime di diritto in aree che sembrano essere sfuggite ad ogni logica di legalità, con un inquietante parallelo con quanto accade in parti del territorio nazionale passate dal controllo pubblico a quello criminale. Se è giusto preoccuparsi della "gogna mediatica", è tuttavia impossibile ritenere secondario quello che, dall´estate scorsa, è sotto gli occhi di tutti.
Le vicende in Banca d’Italia e dintorni, la corruzione nel mondo del calcio e nella Rai, i commerci intorno alla sanità e alle società telefoniche, la simbolica discesa agli inferi di casa Savoia scoperchiano una miserabile Italia degli affaracci e turpiloquio, dove si negozia su tutto, dalle direzioni arbitrali alle prestazioni sessuali, dalle autorizzazioni bancarie all’uso "mirato" di trasmissioni televisive. Si scoprono mondi che si danno regole proprie e incuranti del codice penale, che costruiscono reti di protezioni e complicità.
Le inchieste giudiziarie producono solo «bolle di sapone»? Non direi basta leggere le parole sobrie e severe dedicate dal nuovo Governatore alla situazione che si era determinata nella Banca d’Italia.
Questo, ovviamente, non vuol dire che, se «l’Italia l’è malata», l’unico dottore debba essere la magistratura, costi quel costi. Una volta di più dobbiamo rifiutare la logica "sostanzialista", per cui il raggiungimento di un fine legittimo giustifica smagliature o vere e proprie violazioni delle garanzie dei diritti. Ma questo deve valere sempre, e per tutti. Va certamente rispettata la privacy di politici o veline, ma il garantismo non può scomparire, ad esempio, quando si affrontano i diversi problemi degli immigrati o dei tossicodipendenti. La legalità è un bene indivisibile.
Divenuta sempre più intricata e scottante, la questione delle intercettazioni non può essere affrontata a colpi d’accetta. Servono distinzioni e analisi accurate, soprattutto per evitare che la denuncia degli abusi si trasformi in pretesto per liberarsi di ogni forma di controllo su comportamenti sicuramente illeciti, per occultare la gravità delle situazioni che vengono rivelate.
È la vecchia storia di chi vuol rompere il termometro per non misurare la febbre. Poiché questo rischio è reale, si spiega perché Marco Pannella invochi la pubblicazione di tutto: non è solo una provocazione, è l’indicazione dell’inaccettabilità di una linea che, una volta di più, vuole distorcere le garanzie per occultare l’illecito.
Non è ammissibile, allora, il ricorso ad un decreto legge per riformare la disciplina delle intercettazioni. Il Parlamento sa da molto tempo che la questione è aperta.
Durante il primo governo Prodi, il ministro della Giustizia aveva presentato un disegno di legge; nella passata legislatura erano ben otto le iniziative parlamentari in materia; sollecitazioni precise erano venute dal Garante per la privacy. Il lungo silenzio parlamentare non è edificante, rivela un’evidente responsabilità politica.
Prima di aggredire i magistrati, i politici riflettano sulle loro inerzie. Ora è sicuramente necessario un lavoro rapido: ma la via migliore è quella del disegno di legge, che permette una reale collaborazione di tutti i parlamentari e una più efficace discussione davanti all’opinione pubblica. E, soprattutto, non si può più accettare il ricorso al decreto legge quando si tratta di diritti fondamentali delle persone.
La riforma, peraltro, non può essere ispirata ad una logica punitiva dei magistrati e dei giornalisti. Dichiarazioni preoccupate per le violazioni dei diritti, come quelle di Francesco Saverio Borrelli o di Nello Rossi, mostrano come nel mondo dei magistrati si manifesti un confortante ritorno della «cultura della giurisdizione» in molti casi sopraffatta da inclinazioni poliziesche. Questo punto va sottolineato, perché l’iter dell’annunciata riforma non può cominciare, come pure si era minacciato, da una drastica riduzione dei casi in cui è legittimo disporre intercettazioni. Ammetterle solo per i casi di terrorismo e di criminalità organizzata, infatti, significherebbe privarsi di un importante strumento di indagine, ad esempio in tutta la materia della corruzione, che è poi quella maggiormente evidente nella situazione che abbiamo di fronte. Una riforma non può costruire una nuova rete di protezione dell’illegalità.
Vero è, come ha messo in evidenza Giuseppe D’Avanzo, che il ricorso eccessivo alle intercettazioni rivela pure una inclinazione dei magistrati ad imboccare una via facile, trascurando altre tecniche investigative. Ma si tratta di questioni che non possono essere affrontate con modifiche legislative generali. Servono piuttosto specifiche regole procedurali più rigorose per quanto riguarda tempi e modalità delle intercettazioni, che possono anche favorire una maggiore consapevolezza dei magistrati, e quindi un controllo più attento delle richieste di autorizzazione a mettere i telefoni sotto controllo.
Il cuore del problema sta nella fase successiva, quella che comincia nel momento in cui il magistrato entra in possesso delle intercettazioni. Di questo era stato ben consapevole il legislatore quando, intervenendo nel 1974 proprio a tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni, aveva previsto un intervento del magistrato per stralciare e distruggere quanto appariva non rilevante a fini probatori. È questa parte della disciplina che non ha funzionato, ed è qui che bisogna intervenire.
Considerando le proposte passate e quelle avanzate in questi giorni, si può dire che ci si orienta verso un filtro più rigoroso e selettivo, che appare come la via maestra per evitare che vengano poi messe in circolazione conversazioni irrilevanti o tali da violare la riservatezza e la dignità di persone estranee all’indagine e, in circostanze particolari, degli stessi indagati. I punti da definire sono diversi e riguardano le modalità di acquisizione delle conversazioni ritenute rilevanti, alla cui definizione devono poter partecipare gli avvocati delle parti. Una volta effettuata la selezione, individuate le conversazioni rilevanti e disposta l’acquisizione, il segreto verrebbe meno e i testi potrebbero essere diffusi.
Qui, infatti, l’interesse all’informazione dell’opinione pubblica, spogliato dal puro voyeurismo, potrebbe legittimamente riprendere il sopravvento. Rimane aperta la questione se le conversazioni ritenute non rilevanti debbano essere in tutto o in parte distrutte (come prevede la norma attuale) o se, invece, debbano essere conservate in un archivio riservato.
L’istituzione di uno specifico archivio può consentire l’individuazione di un magistrato che se ne occupa, di un ristretto numero di suoi collaboratori e di procedure controllabili di accesso, facilitando così l’accertamento delle responsabilità nel caso di fughe di notizie. Ma è pure vero che, fatte salve le esigenze di eventuali riscontri successivi su documenti inizialmente ritenuti non rivelanti, proprio l’esperienza di questi mesi ci dice che vi sono conversazioni o loro parti assolutamente estranee, per protagonisti o contenuti, all’oggetto delle indagini, sicché la distruzione diviene la più opportuna forma di garanzia.
Si giungerebbe così ad una più precisa delimitazione dell’area delle conversazioni pubblicabili e si sposterebbe anche l’attenzione sulla fonte della notizia, evitando di concentrarsi solo sull’ultimo anello della catena, il giornalista, l’unico immediatamente individuabile. Ma rimane il rischio della violazione del segreto, della pubblicazione di conversazioni non ancora legittimamente acquisite, e quindi del modo in cui dovrebbe essere sanzionato il comportamento del giornalista.
Opportunamente accantonate le proposte di sanzioni penali, l’attenzione si sposta su quelle pecuniarie (che, tuttavia, possono risultare obiettivamente anche più pesanti). Ma bisogna incidere più direttamente non solo o non tanto sulla deontologia professionale quanto piuttosto sulle conseguenze visibili della violazione riscontrabili sul mezzo dove questa è avvenuta (giornale, rete televisiva, sito web). E in questa direzione il garante per la protezione dei dati personali può avere un ruolo significativo.
In passato, il garante è intervenuto tutte le volte che gli è stata segnalata la pubblicazione di brani di intercettazioni chiaramente irrilevanti per l’inchiesta e lesivi della dignità della persona. Ma questi interventi, pur importanti, non solo arrivano quando la violazione è già avvenuta, perché al garante non può essere attribuito né un ruolo incostituzionale di censura preventiva, né il compito di custode del buongusto. Sono anche poco incisivi, perché non riescono ad assumere adeguata rilevanza pubblica. Che cosa accadrebbe se il garante, accertata la violazione, avesse non il vecchio e stanco potere di imporre una rettifica, ma quello di obbligare il mezzo di comunicazione interessato, ad esempio un giornale, a pubblicare in prima pagina un ampio riquadro in cui si dicesse «abbiamo violato la privacy di tizia/o (senza menzionare il fatto specifico, per evitare l’amplificarsi ulteriore della violazione) e ricordiamo a tutti quali sono i criteri e i principi da rispettare (sintetizzati nel riquadro in modo eloquente)»? Non so se questo potrebbe divenire davvero un deterrente. Ma proprio la novità e la gravità degli attentati alla dignità delle persone esigono che si faccia qualche sforzo di fantasia e si cerchino strade diverse, anche se non proprio nuovissime. E spero che non si registri quell’arroccamento del sistema dell’informazione che abbiamo talvolta conosciuto in passato. Come i magistrati avvertono i rischi di derive che delegittimerebbero gravemente la loro funzione, così il mondo della comunicazione dovrebbe recuperare, insieme, la capacità di rispetto delle persone e l’orgoglio del «difensore civico», indagando sui mali italiani senza attendere d’essere preso per mano dai fornitori di intercettazioni.