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Com'era prevedibile, l'ultimo Rapporto Svimez sullo stato del nostro Mezzogiorno ha, giusto per un paio di giorni, prodotto la consueta rassegna di denunce e di pianti, di cifre urlate e brandite, di commiserazione di circostanza sugli eterni e rinnovati mali del Sud. In effetti, i dati offerti dalla benemerita Associazione illustrano una situazione visibilmente più drammatica del solito. Ma siamo certi che fra poco non se parlerà più e che, soprattutto, non seguirà alle lacrime nessuna svolta politica concreta. Sarebbe perciò il caso - culturalmente più coerente con l'ipocrisia dominante che si esibisce ormai da decenni - di istituire una giornata di commemorazione nazionale del Sud, di mettere in calendario una nuova festività civile, come il 20 settembre o il 2 giugno e di onorarla come si deve. Non solo, naturalmente, con cerimonie in tutte le città, con la banda musicale, ma anche con la visita solenne del capo dello Stato a un luogo altamente simbolico (a Teano, a Calatafimi?) per deporre una corona di fiori ai caduti per il Mezzogiorno d'Italia. Ne saremmo tutti più felici e moralmente sollevati, anche se, come ora, non cambierebbe nulla della situazione reale.
Quando il tema Mezzogiorno torna alla ribalta del dibattito pubblico, il giornalismo nostrano dà sempre l'impressione di trattare un fenomeno eterno ed immobile della storia del nostro paese: quasi si trattasse di ricordare che la Penisola termina con le montagne delle Alpi e che ai lati continua ed esserci il mare. Una falsificazione della realtà che serve a soddisfare la recriminazione dozzinale – e probabilmente la convinzione dominante - di chi lamenta il fatto, dopo decenni di intervento straordinario, di risorse pubbliche investite a favore delle ragioni meridionali, che nulla è cambiato. Una inerzia culturale, la quale non solo nasconde i grandi mutamenti strutturali che hanno attraversato il Sud dal dopoguerra a oggi, ma serve a cancellare le responsabilità politiche recenti di problemi e divari nuovi.
Ancora oggi grava sul Mezzogiorno l'atmosfera denigratoria elaborata dalla Lega a partire dagli anni '80 e poi diventata filosofia di governo. A pensarci bene, non c'è stato alcun paese, in Europa, dove un partito dell'esecutivo abbia fatto della criminalizzazione di una parte ampia della popolazione l'oggetto della propria propaganda e pratica politica. Ci ricordiamo quanto è durata la campagna di Bossi e soci contro il “Sud ladrone e mafioso”, prima che arrivassero gli extracomunitari a rinverdire la figura del nemico? In questo caso, per la prima volta nella nostra storia, attraverso una forza politica di governo, lo stato è stato indotto a elaborare politiche contro una parte del territorio nazionale e contro i suoi cittadini. Una campagna ben riuscita, se si osserva che da anni nessuno ha il coraggio intellettuale di alzare la voce e di proporre un piano di intervento pubblico all'altezza delle necessità.
Ancora oggi che il Sud appare stremato, dopo 5 anni di feroci e suicide restrizioni anticrisi, si continua a guardare ai divari produttivi, di investimenti, di reddito, di consumo, di occupazione (cioé ai dati economici che dominano la rappresentazione pubblica della realtà) come agli unici rilevatori degli squilibri. Quelli, per intenderci, degli scorsi decenni e di sempre. Quasi fosse una realtà che non cambia mai, come il colore del cielo. In realtà non si tratta solo di questi dati, che certo restano fondamentali. Come hanno rilevato su Stato e mercato (2013, n.98) Domenico Cersosimo e Rosanna Nisticò – due docenti dell'Università della Calabria – tra il Sud e il Nord emergono sempre più nettamente «divari interni di civiltà» che non si giustificano con gli squilibri strettamente economici. In altre aree d'Europa, dove si registrano differenze nell'apparato produttivo e nella distribuzione del reddito, simili a quelli Nord-Sud, non si danno le sperequazioni nei servizi e nelle dotazioni pubbliche che si trovano abbondantemente nelle regioni del Sud: nella scuola, nella sanità, nei trasporti, nell'assistenza agli anziani. Si pensi, tanto per fornire qualche dato indicativo, che i servizi per l'infanzia coprono in Campania solo il 14% del fabbisogno a fronte del 70% in Lombardia. In Sicilia solo l'11% degli anziani sopra i 65 anni usufruisce dell'Assistenza integrata domiciliare(ADI), contro il 34% della Liguria e il 93% del Veneto. Più della metà della famiglie calabresi non può bere acqua dal rubinetto a fronte del 3% delle famiglie trentine. Si realizza per questa via, come sottolineano i due autori, l'aperta violazione dei diritti costituzionali di «un cittadino meridionale a godere di un insieme di servizi essenziali nella identica quantità e qualità di un cittadino che vive in una regione del Nord».
A generare queste come altre innumerevoli disparità concorrono non tanto le dinamiche del mercato, quanto il comportamento dello Stato, e comunque il potere pubblico, tanto nelle sue manifestazioni centrali che periferiche. Una inclinazione alla disuguaglianza delle politiche pubbliche, ovviamente alimentata dai dati strutturali, oltre che dai comportamenti delle classi dirigenti locali (pur sempre collegate strettamente a quelle nazionali) che andrebbe corretta con politiche apposite, ubbidendo non certo allo “statalismo” - come hanno urlato i neoliberisti in tutti questi anni – ma a un dettato della nostra Costituzione. Sappiamo bene in che considerazione è tenuta oggi la Carta dal ceto politico di governo. Ma sappiamo spesso poco di come lo Stato ha operato per accrescere disuguaglianze e povertà. Pochi sanno, ad es. che il Fondo nazionale per le politiche sociali è passato da una dotazione di 789 milioni di euro del 2008 a soli 178 milioni nel 2011. E naturalmente il Sud si è giovato enormemente di questa riduzione dell'assistenza, del dilagare della povertà e della disperazione sociale, potendosi lanciare, senza più lacci e lacciuoli, nella competizione, nell'agone del libero mercato. Come pigolano sempre più piano tanti economisti un tempo acclamati.
Una scelta di tagli che disvela l'ipocrisia dei pianti di questi giorni, mostrando la cultura miserabile dei governi che dal 2008 hanno in mano le sorti del Paese. Si affrontano problemi laceranti di disuguaglianza sociale riducendo le risorse che possono attenuarle, demolendo un piccolo pilastro del welfare, colpendo i più deboli nei territori più emarginati. E allora che gli uomini di governo e i rappresentanti delle istituzioni piangano pure sulle sorti del Sud, ma in una data prestabilita, in modo che la finzione abbia la sua piena rappresentazione istituzionale. Come accade per la commemorazione dei caduti per la patria, che si onorano ogni anno, mentre si continua a fare guerra nei vari angoli del mondo. Si portino, da parte delle “più alte cariche dello Stato”, come gracchia la bolsa retorica dei telegiornali, sontuose corone di fiori, non solo sulla tomba della “questione meridionale”, ma anche su quella della politica italiana.
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