Mentre prosegue il susseguirsi di annunci e di rinvii sul decreto legge circa la semplificazione e lo snellimento delle procedure per l’attuazione delle attività edilizie che, insieme all’aumento delle volumetrie delle ville e villette, dovrebbe, nelle intenzioni del governo, dare uno slancio all’economia, il Cipe, nella seduta dello scorso 8 maggio, ha approvato quello che viene considerato il piano casa del governo per antonomasia (di piani casa governativi se ne contano almeno quattro), cioè quello disegnato dalle norme contenute nell’articolo 11 della legge 133/2008.
È stato deliberato di assegnare a questo piano 350 milioni di euro, una cifra non proprio entusiasmante per un piano che qualcuno ha addirittura paragonato al piano Fanfani dell’immediato secondo dopoguerra del secolo scorso.
L’accostamento tra il piano casa Berlusconi ed il piano casa dell’allora ministro del lavoro Fanfani è fuori luogo e può essere solo frutto di una forzatura. A distanziare i due piani non è il tempo, ma la loro diversa finalità. Quello di Fanfani fu un piano che permise la realizzazione di un numero rilevante di abitazioni destinate a risolvere il problema della casa della popolazione più povera, dando al tempo stesso un contributo a combattere l’endemica disoccupazione post bellica. Anche ora il governo argomenta le sue scelte in materia edilizia con l’esigenza di rilanciare l’economia. Ma il piano casa che propone di realizzare “è rivolto all’incremento del patrimonio ad uso abitativo attraverso l’offerta di abitazioni di edilizia residenziale”( comma 2, articolo 11 legge 133/2008). L’intenzione è, quindi, quella di promuovere la realizzazione di un piano che incrementi l’offerta di appartamenti a prezzi di mercato, mentre in tutto l’articolato legislativo del piano vi è solo un accenno alla possibilità che si promuovano programmi di “edilizia residenziale anche sociale” (lettera e, comma 3, articolo 11, legge 133/2008).
Una parziale restituzione di una eredità inattesa
Il piano casa di questo governo manca dell’impronta sociale sia del piano Fanfani sia del successivo piano decennale promosso con la legge 457/1978. Ma esso ha addirittura cancellato un rilevante programma di edilizia residenziale pubblica, promosso dal precedente governo, il cui integrale ripristino ridarebbe al piano del governo un connotazione di socialità.
Dei 350 milioni di euro deliberati dal Cipe, 150 milioni costituiscono la dotazione di un fondo immobiliare partecipato dalla Cassa depositi e prestiti, una sorta di “fondo padre”, che promuove e partecipa a tanti altri fondi immobiliari locali. Gli altri 200 milioni di euro vengono restituiti alle regioni per realizzare una parte degli interventi compresi nel programma straordinario di edilizia residenziale pubblica finanziato con 544,5 milioni di euro dall’articolo 21 della legge 222/2007, che fu approvata per realizzare interventi urgenti nel campo dello sviluppo economico-finanziario e dell’equità sociale.
Appena poche settimane dopo essersi insediato, con il decreto legge 25 giugno 2008, n. 118 (poi convertito con la legge 133/2008), il governo sottrasse quei fondi alla loro originaria destinazione per dirottarli al nuovo piano. In questo modo interruppe la realizzazione di interventi già individuati con un decreto del 18 dicembre del 2007 dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti del precedente governo; decreto che aveva anche assegnato le risorse agli enti incaricati della gestione operativa delle iniziative.
Ad onor del vero, va detto che se i cantieri per accrescer l’offerta di alloggi di edilizia sociale finanziata con quel programma allora non furono aperti immediatamente, una qualche responsabilità ricade anche sull’allora ministro delle infrastrutture Di Pietro il quale propose, quando ormai tutto era pronto per dare inizio ai lavori, una nuova procedura di verifica degli interventi da finanziare. Non fu, quel comportamento, un esempio di buona pratica politico-amministrativa: se in alcuni casi si può giustificare che un nuovo governo cancelli i programmi del precedente è, invece, difficilmente comprensibile che un procedura amministrativa proposta da un ministro sia smentita dallo stesso poche settimane dopo. Il blocco del programma che ne seguì fu una manna per il nuovo governo, il quale considerò quei quasi 550 milioni come un’eredità senza eredi e senza vincoli, da spendere per il nuovo piano casa pensato con l’articolo 11 della legge 133/2008.
Oltre la metà della meta
Sull’utilizzo di quei fondi si è assistito ad un braccio di ferro tra il governo e le regioni: finora sembra aver portato ad un pareggio. Dando seguito ad un accordo, sottoscritto agli inizi dello scorso aprile tra il governo e le regioni, a queste ultime la delibera Cipe restituisce subito 200 milioni di euro, la cui ripartizione tra di esse avverrà a seguito di una nuova istruttoria dei progetti presentati; quell’accordo promette loro che in futuro torneranno in possesso anche dei restanti 344,5 milioni di euro. Questa cifra resta, per ora, a disposizione del governo per il suo piano casa fatto di fondi immobiliari e di interventi di edilizia residenziale a scarsa propensione sociale.
Prima che il piano del governo decolli, trascorrerà altro tempo inutilmente, con risorse finanziarie pubbliche immobilizzate e un peggioramento della condizione di disagio abitativo di un numero rilevante di famiglie.
Se riuscirà a trovare le altre risorse necessarie, con il suo piano casa il governo vuole incrementare, riporta la stampa, di 20.000 unità il numero di alloggi destinati alle famiglie a più basso reddito. Non è un obiettivo particolarmente ambizioso. Ma soprattutto, se l’obiettivo è effettivamente quello, nel giro di pochi mesi si potrebbe percorrere la metà del cammino che porta a quel traguardo, se solo si trasferissero subito alle regioni tutti i 545 milioni per realizzare gli interventi già finanziati.
Un sostegno alle piccole imprese edili
Gli interventi che le regioni sono pronte a realizzare, da ormai quasi un anno e mezzo, consentono di accrescere di 11.922 unità l’offerta di alloggi da assegnare in affitto a canoni contenuti[1]. Un numero non trascurabile, ma verosimilmente inferiore alla sua consistenza reale, poiché molte regioni hanno attinto ai loro bilanci per ampliare i programmi finanziati dallo stato. In ogni caso anche considerando i soli fondi statali, non sarebbero certo trascurabili gli effetti positivi di un loro rapido trasferimento alle regioni o agli enti incaricati di realizzare gli interventi.
Le regioni hanno previsto di realizzare interventi o di promuovere iniziative di immediata fattibilità, con la conseguenza che le risorse sarebbero subito spese per sostenere la domanda di beni e servizi impiegati in edilizia. A livello macro economico questo sostegno, anche se non trascurabile, potrebbe anche non essere considerato determinante. Ma a livello territoriale può rivelarsi incisivo, soprattutto a sostegno delle piccole imprese e delle attività artigianali.
Dei circa 545 milioni di euro complessivi, poco meno di 265 finanzierebbero le spese di recupero e di ristrutturazione di 7.366 case popolari ora vuote per mancanza delle risorse necessarie per riattarle, metterle a norma e assegnarle in locazione. Nella gran parte dei casi si tratta di interventi diffusi sul territorio e sparsi in tutto il patrimonio di alloggi pubblici, con un investimento medio di 36 mila euro per alloggio. La realizzazione dei lavori può, quindi, essere affidata, con procedure di evidenza pubblica molto semplificate, a tante piccole imprese o lavoratori autonomi, per i quali anche cifre relativamente modeste possono salvare il fatturato. Si trasformano in possibilità di lavoro per le imprese anche i 160 milioni programmati dalle regioni per costruire circa 1.500 nuovi alloggi; in alcune aree l’impatto sulla domanda di attività edilizia può essere rilevante.
Viene fatto, da parte delle regioni, anche un tentativo di fronteggiare il fabbisogno di case a basso prezzo ricorrendo al mercato, affittando, attraverso agenzie ed altri strumenti di intervento degli enti locali, circa 2.200 appartamenti da proprietari privati per assegnarli a famiglie sfrattate o in attesa di una casa popolare. È un tentativo di sfuggire ad una prassi assistenziale che di fatto assegna a vita le case pubbliche, ma può contribuire anche a stimolare il mercato dell’affitto.
Un aiuto al mercato può darlo anche il proposito di utilizzare quasi 100 milioni per acquistare circa 850 appartamenti già costruiti, e che la crisi immobiliare lascia invenduti. Ma è anche un aiuto ad incrementare l’offerta di alloggi di edilizia residenziale sociale. Essi accresceranno il patrimonio di “case popolari” dei comuni e degli Iacp, da affittare a canone sociale o comunque più basso di quello di mercato. Anche i prezzi ai quali gli alloggi sarebbero acquistati sono inferiori a quelli di mercato. In media ci si colloca al di sotto dei 120 mila euro per appartamento. È la fase di stanca del mercato immobiliare, con il rilevante stock di alloggi invenduti e l’allungamento dei tempi di vendita, che consiglia o costringe le imprese che ne sono proprietarie ad accettare prezzi da edilizia convenzionata, notevolmente più bassi di quelli di libero mercato.
[1] I dati che seguono sono il risultato delle elaborazioni condotte sulla lista degli interventi proposti dalla regioni e contenuta nell’allegato 2 al decreto del ministero delle infrastrutture del 28 dicembre 2007, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 17 gennaio 2008, n. 14.