Il manifesto, 18 gennaio 2014
E' sbocciato un amore, una «profonda sintonia» fra il Pd e Forza italia. O meglio, fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Forse non è ancora un accordo, i dettagli sono tutti da definire, e potrebbero essere la buccia di banana su cui far scivolare il governo verso le elezioni. Ma quando una sintonia è «profonda» risulta molto difficile per chiunque — soprattutto nella maggioranza di governo — disturbarla facendo «la voce grossa». Specialmente quando si hanno percentuali elettorali a una cifra («non permetteremo il ricatto dei piccoli partiti», è l’avvertimento di Renzi).
Dopo più di due ore di faccia a faccia e una breve dichiarazione ai giornalisti, il segretario del Pd ha dato appuntamento a lunedì quando nella direzione del partito arriverà la proposta di legge elettorale e di riforma costituzionale. Dunque manca qualche ora per cercare un «patto» nella maggioranza. Tuttavia dentro la partita politica ieri se ne è giocata un’altra, fortemente simbolica.
Nessuna telecamera ha mostrato immagini dell’incontro (per pudore residuo, per vergogna, per paura dell’impopolarità?), che nessuno poteva immaginare qualche settimana fa, soprattutto dopo la cacciata di un pregiudicato dal Parlamento: la scelta di Renzi ha di fatto riabilitato un leader dimezzato dai guai giudiziari.
Forse il segretario del Pd voleva cancellare la sua profonda incoerenza, facendo dimenticare certe frasi roboanti che appena qualche mese fa era diventate titoli di prima pagina. Dopo la sentenza della Cassazione «per Berlusconi la partita è finita, game over», disse compiaciuto per aver azzeccato la battuta giusta. Ma per i politici la coerenza non è una virtù e il giovane Renzi contraddice clamorosamente la sua liquidatoria battuta ricevendo il leader di Forza Italia addirittura nella sede del Partito democratico. Un atto di arroganza dunque verso il suo stesso partito, anche se non verso la storia, basti ricordare i rapporti con D’Alema e con Veltroni.
Ma ora la situazione è diversa: in nessun paese normale può accadere che a decidere le riforme (elettorali e costituzionali) venga chiamato un personaggio che i magistrati stanno per assegnare ai servizi sociali o agli arresti domiciliari. E siccome la forma è sostanza questa sfida simbolica dice molto dell’invulnerabilità da cui Renzi si sente protetto. Un uomo solo al comando dopo il plebiscito delle primarie. Che umilia almeno una parte dell’elettorato del Pd.
Il braccio di ferro tra il segretario, il presidente del consiglio e la maggioranza di governo è arrivato al punto di massima tensione, moltiplicatore di un conflitto nel Partito democratico ancora frastornato dal cambio dei vertici e dalla geografia mobile delle correnti. Per certi versi sembra di assistere ai vecchi riti democristiani quando il segretario Dc attaccava il governo Dc le cui sorti erano alla fine decise dal gioco delle correnti di piazza del Gesù.
Perché somiglia molto ad un gioco democristiano questa triangolazione tra Letta, Renzi e Alfano che cercano di farsi lo sgambetto per poi meglio accordarsi e chiudere la partita della legge elettorale in modo che soddisfi le esigenze di tutti. Però quando al tavolo è seduto anche Berlusconi c’è sempre il rischio che decida di ribaltarlo. E a pensarci bene, che a decidere sul futuro del nostro Paese sia un pregiudicato non è umiliante solo per un partito, ma per tutti.