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Fabio Mussi
Umberto Eco: 1932-2016
21 Febbraio 2016
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In ricordo di Umberto Eco. Articoli di Claudio Magris, Fabio Mussi, Ezio Mauro e l'intervista di Benedetto Vecchi ad Alberto Asor Rosa.
In ricordo di Umberto Eco. Articoli di Claudio Magris, Fabio Mussi, Ezio Mauro e l'intervista di Benedetto Vecchi ad Alberto Asor Rosa.

Corriere della Sera il manifesto, la Repubblica, 21 febbraio 2016 (m.p.r.)

Corriere della Sera
IL MIO OMAGGIO AL GENIO DI ECO
CHE SAPEVA CAMBIARE (E RIDERE)

di Claudio Magris

In questo momento non penso solo alla poliedrica genialità di Umberto Eco, ai suoi libri famosi in tutto il mondo, alla sua rara combinazione di creatività letteraria e acutezza analitica. Penso ai nostri incontri, soprattutto anche se non solo agli indimenticabili giorni passati insieme tanti anni fa nella devastata Romania di Ceausescu, alla nostra complicità affettuosamente gaglioffa, alla sua capacità di ricominciare, come stava accadendo con il suo impegno per la fondazione di una nuova casa editrice. Dei suoi libri vorrei ricordare uno che non è il più grande né il più famoso ma che mi ha segnato, Apocalittici e integrati – un libro scritto molti anni fa ma oggi più che mai attuale per affrontare le incredibili, sconvolgenti trasformazioni del mondo e della vita con libero spirito critico, senza ansiosi e ossessivi rifiuti, e senza servile e passiva acquiescenza. E penso a tante fraterne risate che aiutano a vivere meglio.

Il manifesto
RIDERE PER CONOSCERE:
LA RIVOLUZIONE DI ECO

di Fabio Mussi

L'eredità. L’ultima lezione: per una sinistra di alternativa e di governo, sapere è l’indispensabile

«E l’infame sorrise». È Franti, il cattivo di Cuore. Tra le figure della scuola lacrimosa, pia e bigotta del De Amicis a Umberto Eco piaceva Franti. Ha scritto un Elogio di Franti. Perché? Perché rideva. Eco sapeva ridere, Eco rideva. Se volessimo usare il suo fondamentale «Trattato di semiotica generale», e dare una «interpretazione» del «segno» di Eco, eccola: il riso. Nel Nome della rosa - ricorderete - Guglielmo di Baskerville indaga su una catena di delitti consumati in abbazia. I delitti servono a nascondere un documento su un indicibile segreto: Cristo aveva riso. Atto sovversivo, apocalittico, cioè rivelatore. Primo insegnamento da mandare a mente: si è seri solo se si è capaci di ridere, anche di noi stessi.

Ho avuto il piacere e l’onore di incontrarlo più volte. È impressionante quel che sapeva, i collegamenti e i nessi che era in grado di intrecciare. Un aggettivo per la sua cultura? Sterminata. Secondo insegnamento: studiate. Senza studiare la politica non può essere né buona né nuova. Si rafforza per esempio in me l’impressione che noi non sappiamo quasi nulla della ipertrofica macchina economica mondiale che governa gli umani. Esoterica, come la storia del Pendolo di Foucault. Eco si è letteralmente tuffato nel Medioevo. La sua non è stata una ricerca erudita su tempi lontani. Ha fatto scoccare piuttosto la scintilla tra Medioevo ed Evo moderno, nei labirinti di simboli, enigmi, mostruosità, occultismi. Gioco di ombre e di luci.

«Secoli bui» sono stati chiamati quelli antichi. Ma non c’è tanto buio anche nel Moderno? Forse che l’assolutismo del capitale finanziario non sta spingendo la società umana verso un medioevo a più alto livello tecnologico? Non c’è tribalismo, razzismo, antisemitismo, fondamentalismo religioso, fanatismo, pensiero magico, banalità e piacere dello strazio dei corpi che non trovi facile cittadinanza nel mondo globalizzato? Sapete che cosa mi meraviglia, mi sorprende, e mi convince, delle parole lette ed ascoltate da Eco? Il considerare la storia del mondo, almeno dalla scrittura in poi (e non dimenticate che tutto è cominciato in quelle terre che oggi chiamiamo Siria e Iraq), come contemporanea. Si può parlare con il vicino di casa come con Guglielmo di Occam. Lo cito perché è uno degli autori più amati da Eco, ed è noto per il famoso «rasoio».

Una teoria razionalista che qualcuno pone tra i fondamenti della scienza moderna. Dice in sostanza il «rasoio»: non bisogna formulare più ipotesi di quelle necessarie, non bisogna dire più del necessario. Il resto, si direbbe con la moderna teoria dell’informazione, è «rumore», che confonde e maschera l’informazione. Parlo con Guglielmo, e mi chiedo assai spesso quanto devo «tagliare» – faccio un esempio a caso - del diluvio di parole del Presidente del consiglio in carica in Italia per capire esattamente che cosa vuole dire e fare.

Ecco ancora Umberto Eco: Occam e Mike Buongiorno, il basso e l’alto, le profondità della grande cultura e la fenomenologia della vita quotidiana. Egli è stato tra i grandi studiosi della società di massa, e della comunicazione nella società di massa. Il suo Apocalittici ed Integrati è un pilastro. Da cui trarrei per farla breve la terza raccomandazione: se si vuol fare una sinistra che si rispetti non bisogna essere apocalittici. Ma non si può nemmeno essere integrati. E nella comunicazione, se il mezzo non è esattamente il messaggio, tuttavia lo influenza. Sono noti gli scritti di Eco sull’ambivalenza del Web. Ha detto: se un cretino va al bar e spara fesserie, gli astanti lo sfottono. Se va su Facebook, trova legioni di seguaci. Come il leone e la gazzella, intelligenza e stupidità ogni mattina si alzano e si mettono a correre.

Sulla rete circolano entrambe. Ma la stupidità parte con un vantaggio: la velocità. La verità è che l’intelligenza ha bisogno del dubbio, dell’approfondimento, del ripensamento: dell’esitazione. E c’è un Eco politico, impegnato e battagliero. Egli è stato fieramente antiberlusconiano, fino a rifiutare la collaborazione con l’oligopolio editoriale di «Mondazzoli», e aderire al progetto della neonata «nave di Teseo», per la quale - ahimé! - non ha avuto il tempo di scrivere nulla. E voglio dire che, nonostante tante chiacchiere, se nel ventennio di Benito non si poteva dirsi democratici senza essere antifascisti, nel ventennio di Silvio non ci si è potuti chiamare democratici senza essere antiberlusconiani. Sperando naturalmente anche che la serie dei ventenni sia esaurita.

E voglio ricordarlo anche in una particolare occasione: Castello di Gargonza, 1997, governo Prodi da poco costituito. Mi capitò di essere tra i relatori. A favore della coalizione di centrosinistra chiamata «Ulivo». Trovai Eco tra i più convinti sostenitori. Prevalsero i tagliatori d’alberi. Resta il ricordo di ore indimenticabili passate con lui. E il rammarico per una delle molte occasioni gettate al vento. Vediamo di non buttarle tutte al vento. Dipende dalla sinistra che saremo. Una sinistra di alternativa e di governo. Ricordando che, e per l’alternativa e per il governo - traggo quest’ultima raccomandazione dalla vita e dall’opera di Umberto Eco - una cosa è indispensabile: sapere.


La Repubblica

LO STUDIOSO
CHE VOLEVA DIVERTIRE

di Ezio Mauro

Era «una bella mattina di fine novembre, nella notte aveva nevicato un poco» quando frate Guglielmo da Baskerville allo spuntar del sole venne avanti nell’Italia confusa del 1980. Il Paese aveva appena vissuto lo shock del delitto Moro, il punto più temerario della sfida terroristica alla democrazia, e l’inizio della sua caduta. Come su un terreno prosciugato, ripiegavano le Brigate Rosse e si ritiravano le ideologie, e noi entravamo senza bussola in un territorio sconosciuto. Ed ecco quel frate, amico di Occam e di Marsilio da Padova, che si mette in cammino sette secoli fa, procede per sette giorni e 576 pagine insieme al novizio Adso da Melk, viaggia verso settentrione ma senza seguire una linea retta, tocca città famose e abbazie antichissime che incutono paura come fortezze di Dio inaccessibili, masticando le erbe misteriose che raccoglie nei boschi e scrutando di notte, dopo vespro e compieta, le magie stregonesche dell’orologio, dell’astrolabio e addirittura del magnete.

Davanti al successo mondiale del Nome della rosa, tradotto in quarantacinque lingue, Umberto Eco ebbe prima la ritrosia prudente dello studioso di fronte alla contaminazione mondana della scienza, poi seguì divertito il gioco delle sovra-interpretazioni, infine si dedicò alla teorizzazione a posteriori, smontando e rimontando sapere e consumo, letteratura e storia, il caso e il calcolo. Rivelò che tutto era nato da un’idea seminale, perché gli era venuta la strana voglia di avvelenare un monaco. Poi spiegò che scriveva con la pianta dell’abbazia sotto gli occhi, dando ai dialoghi il tempo necessario dei passi per andare dal refettorio al chiostro, perché occorre crearsi delle costrizioni per poter inventare liberamente. Quindi aggiunse che poiché scrivere un romanzo è una faccenda cosmogonica, il suo mondo naturale era la storia e il Medioevo, e questo ricreò nelle pagine. E infine disse l’ultima verità, intima come una confessione: volevo che il lettore si divertisse.
C’è quasi tutto Eco in questa spiegazione di un successo che è una mappa delle intenzioni, perché prima del successo c’è la sfida della grande divulgazione, la scommessa di non cedere alla banalizzazione del sapere ma nello stesso tempo la capacità di costruirsi lettori, accendendo una passione, portandosela dietro fino a scoprire l’eresia estrema, una risata come movente di un delitto. Eco c’è riuscito perché questo percorso rigorosamente controllato nella formazione del romanzo corrisponde perfettamente alla costruzione intellettuale di sé: dunque suona autentico, senza forzature.
Studioso fino alla fine, Eco infatti ha sovvertito l’ordine classico delle strutture accademiche con la nascita del Dams a Bologna, sperimentando sempre ma rimanendo in fondo fedele alla lezione di Pareyson, come se fosse giusto avere un solo maestro. Ma nel 1954 quella generazione un po’ speciale (pensiamo a lui, con Gianni Vattimo e Furio Colombo) ebbe la fortuna di incrociare la Rai nascente, per concorso e non per raccomandazione del sottobosco democristiano: fu naturale prolungare la propria analisi scientifica universitaria con la comunicazione di massa che si affacciava all’Italia, con i nuovi linguaggi, col visivo accanto al letterario, con il divismo sconosciuto del piccolo schermo, con la nuova tecnica che scusava l’ignoranza e la bypassava, fino a fare di Mike Bongiorno il modello perfetto dell’uomo televisivo, che creava per la prima volta un pubblico costituito, la grande tribù italiana del giovedì sera.
Era incominciato il grande incrocio che avrebbe fatto di Eco un personaggio unico, il primo scienziato capace di chinarsi sulla semiologia del quotidiano, curioso di tic e tabù individuali moltiplicati a fenomeni di massa dai nuovi strumenti di comunicazione, linguaggi e modi di dire, attraversati dal gioco di un calembour, riscattati da un paragone letterario sproporzionato perché ironico ma perfettamente coerente, come quando legava Franti con Bresci o portava Mickey Mouse a dormire a Mirafiori, parlando a Minnie in piemontese.
L’alto e il basso del post-moderno trovarono in lui non il primo interprete, ma il nucleo forte, che teneva insieme perfettamente i due registri e li legittimava a vicenda. Quel nucleo centrale, credo si possa nel suo caso riassumere in tre parole: cultura come passione. E il “libro” come strumento universale, il libro capace secondo lui di sfidare anche internet, perché il web in fondo - diceva - è un ritorno dalla civiltà delle immagini all’era alfabetica, alla galassia Gutenberg, all’obbligo di leggere, e non importa quale forma prenderà il supporto che continuiamo a chiamare “libro”.
Leggere «per il gusto di leggere» e non solo per sapere, come Eco scoprirà da bambino. E dietro i libri, borgesianamente e naturalmente, la biblioteca. Cinquantamila libri “moderni”, milleduecento volumi antichi di cui lo scrittore parlava con la passione di una scoperta continua. Senza un catalogo, mossi continuamente dalle emergenze del conoscere, dalla curiosità di un lavoro, dalla memoria che cerca conferma, sapendo che una biblioteca raccoglie i libri che possiamo leggere, e non solo che abbiamo letto, perché è la garanzia di un sapere. Col terrore antico degli organismi che divorano le pagine dei libri, e la vecchia ricetta che consisteva nel piazzare una sveglia negli scaffali, confidando nel rumore regolare e nelle vibrazioni per bloccare il pasto insano dei libri.
L’altro strumento indispensabile alla costruzione del fenomeno Eco sono i giornali, quotidiani e settimanali, mensili, riviste. Li ha criticati duramente, fino al suo ultimo romanzo, ma li ha sempre usati per indagare il quotidiano, per collegare gli scarti di costume della vicenda di ogni giorno con le categorie del suo sapere, capace di ordinare e battezzare i gesti minimi, inserendoli in una sorta di catalogo universale.
Si comincia dal 1959 con quei brevi saggi di costume parodistici pubblicati sul Verri che raccolti in volume daranno poi vita al famosissimo Diario minimo per arrivare finalmente alla Bustina di Minerva dell’Espresso. È come se il registro dell’attualità, grazie ai giornali, desse a Eco la possibilità di un controcanto, un suono appartato ma rivelatore, che scorre a fianco della grande vicenda nazionale ma la sa interpretare rovesciandola spesso nei suoi paradossi, svelandola nell’intimo dei suoi vizi o delle sue verità travestite da miserie del quotidiano.
Pastiches e parodie sono la recitazione in pubblico, ordinata letterariamente, del calembour privato, del motto di spirito che Eco ti diceva per prima cosa incontrandoti, sempre alla ricerca della rivelazione anagrammatica, della saggezza popolare che diventa enigmatica nel nonsense di un proverbio stravolto nel suo contrario, che continua beffardo a dirti qualcosa. Contraffazioni meravigliose, come i falsi rapporti di lettura dei redattori di un’immaginaria casa editrice che bocciano la lettura della Bibbia («un omnibus mostruoso, che rischia di non piacere a nessuno perché c’è di tutto»), di Torquato Tasso («mi chiedo come verranno accolte certe scene erotiche un po’ lascive») e dei Promessi sposi: «tant’è, non tutti hanno il dono di raccontare, e meno ancora hanno quello di scrivere in buon italiano».
Fuori dalla parodia, il sentimento dei giornali ha in realtà consentito a Eco di incrociare l’attualità e di decifrarla coi suoi strumenti, arrivando a un giudizio politico partendo da una notazione estetica, culturale, da un segnale del linguaggio individuale e collettivo. Gli ha consentito, a ben vedere, di prendere parte alla vicenda italiana negli anni più travagliati del Paese. Lo ha fatto senza badare al rischio (ben presente in molti altri intellettuali) di dividere con una presa di posizione politica il grande «fascio indistinto» dei suoi lettori, la somma trasversale della sua popolarità internazionale. Anche qui (e ricordo certe discussioni negli ultimi vent’anni) era come se fosse mosso semplicemente da un obbligo culturale, da un dovere intellettuale, perché la cultura, diceva Bobbio, «obbliga terribilmente ».
Naturalmente quando usò il paradosso, dicendo che la notte prima di addormentarsi preferiva Kafka piuttosto che rincretinirsi davanti alla tv, la muta dei critici di destra gli saltò al collo credendo di inchiodarlo alla sua caricatura. Ci vedemmo in quei giorni, ed era totalmente indifferente agli attacchi perché non lo toccavano, ma credo soprattutto perché quel che aveva detto come battuta, era in realtà profondamente vero. Era vero che i libri lo dominavano come «un vizio solitario». Ed era certo che anche Eco, come i suoi personaggi, diventava in Italia collettivamente “vero” perché la comunità dei lettori aveva fatto su di lui negli anni un investimento culturale e passionale, trasformandolo nell’Intellettuale italiano degli ultimi trent’anni.
Tutto questo lo ha portato all’ultimo atto, il riscatto di una parte del patrimonio di autori Bompiani - partendo da se stesso - dal gigante Mondazzoli per fondare con Elisabetta Sgarbi “La nave di Teseo”. Ne discutemmo a fine novembre, in un salone dell’Accademia dei Lincei. Umberto chiuse la porta e parlò sottovoce, perché confidava uno dei grandi segreti della sua vita, l’ultimo approdo della sua passione, o ancora una volta del suo “obbligo” culturale trasformato in avventura finale, a ottantaquattro anni.
Adesso la nave dovrà salpare da sola, senza il Capitano, ma con il suo nuovo libro Pape Satan Aleppe, di cui proprio negli ultimi giorni aveva preso in mano la copertina, toccandola e accarezzandola come fa chi ama i libri. Gli avevamo chiesto in tanti che destino voleva avesse la sua biblioteca un giorno, dopo di lui. Adesso che il giorno è venuto, bisogna ricordare cosa rispondeva: non era sicuro che la sua biblioteca gli assomigliasse, perché la passione per i libri ti porta a conservare anche ciò in cui non credi. Tuttavia, non avrebbe voluto che i suoi libri fossero dispersi.
Forse, diceva, verranno comprati dai cinesi: se vorranno, dai miei libri «potranno capire tutte le follie dell’Occidente ».


Il manifesto
QUEL DISINCANTO IRONICO
IN DIFESA DELLA DEMOCRAZIA
intervista di Benedetto Vecchi ad Alberto Asor Rosa

Alberto Asor Rosa non nasconde l’emozione. «Ci ha unito la passione per la parola. Ognuno di noi, a proprio modo, ha cercato nella letteratura e nella comunicazione la chiave per accedere alla comprensione della realtà italiana. Abbiamo seguito sentieri diversi, ma ci siamo molte volte incontrati con la curiosità di capire a che punto eravamo giunti nei nostri percorsi di ricerca».

Raggiunto telefonicamente a Milano, Asor Rosa non si sottrae alle domande. Racconta di discussioni, di pagine scritte, di romanzi letti, di un clima culturale che sembra ormai appartenere a un passato remoto, anche se sono passati solo due, tre decenni. «Scrissi una recensione per la Repubblica a Il nome della rosa. Il libro mi piacque e ne scrissi un elogio. Molti, invece, puntarono l’indice contro il romanzo e Umberto Eco. Operazione decisa a tavolino, pianificata per avere il consenso del pubblico: erano queste le critiche frequenti. Il libro invece a me piacque molto. Ne scrissi citando anche un altro grande scrittore, Italo Calvino. Anche verso Calvino le critiche, siamo agli inizi degli anni Ottanta, non erano tenere. Per entrambi sostenni che si erano molto divertiti a scrivere quei romanzi indicati come mera operazione editoriale».
Già, gli anni Ottanta, il decennio degli integrati, dopo che i vent’anni precedenti avevano vissuto il conflitto con gli apocalittici. Sono gli anni che vedono giungere a maturazione quello che Umberto Eco aveva ipotizzato proprio in Apocalittici e integrati, dove analizzava attentamente il ruolo degli allora nuovi media - la televisione soprattutto - nella formazione dell’opinione pubblica. La pubblicazione de Il nome della rosa diede infatti il via a una polemica che ha visto impegnati lo stesso Eco, Franco Fortini, Asor Rosa, Gian Carlo Ferretti (a quest’ultimo si deve l’espressione di «best seller di qualità» per qualificare proprio libri come Il nome della rosa) e molti altri intellettuali. E come spesso accade, le recensioni furono l’occasione per fare il punto del rapporto tra «letteratura e vita nazionale» e sul ruolo dell’intellettuale in una realtà caratterizzata appunto da un ruolo preponderante della televisione, che dagli inizi degli anni Ottanta in poi, sarà il medium che plasmerà l’opinione pubblica, rispecchiandone e amplificandone i sentimenti più profondi e oscuri. Ed è dalla figura e del lascito intellettuale di Umberto Eco che prende il via l’intervista a Asor Rosa.
Qual è l’eredità intellettuale di Umberto Eco?
Difficile dare una risposta semplice, lineare. Eco è stata una personalità intellettuale complessa. Semiologo, filosofo, letterato, giornalista, appassionato docente. Se si guarda alla sua vita intellettuale e la si confronta con l’attuale povertà della ricerca italiana è difficile fare una sintesi. In lui hanno convissuto una dimensione creativa - i suoi romanzi - e una dimensione scientifica (il semiologo, il filosofo). È stata una personalità fuori dal comune. È il primo intellettuale, in Italia, che ha infranto il confine del consumo di massa. Sapeva produrre romanzi e saggi salutati sempre da alti numeri di vendite. Ed è stato uno dei pochi intellettuali italiani molto letto oltre i nostri confini nazionali. Un personaggio autorevole, dalla Francia agli Stati Uniti, per la sua indubbia capacità di dare voce a un «sentire» diffuso e mai acquiescente verso lo la realtà delle cose. Era già accaduto ad altri intellettuali italiani ma Eco è riuscito a essere intellettuale pubblico internazionale in un’epoca caratterizzata da media sempre più globali.
L’espressione presente in alcuni scritti di Eco è proprio intellettuale pubblico. Non intellettuale organico e neppure intellettuale militante. Ma non è mai stato un uomo di cultura che si è rifugiato dentro le stanze rassicuranti dell’Accademia....
È stato un intellettuale pubblico mai compiaciuto di se stesso e del suo ruolo. L’ho letto sin dai suoi esordi. Il libro che però mi ha colpito profondamente è stato Opera aperta, dove Eco affronta il complesso rapporto tra lettore e pubblico e dove si confronta con il nodo delle ricezioni molteplici dei lettori, che possono rendere un romanzo o un saggio cosa diversa da quella pensata dall’autore. Opera aperta è il libro che manifesta una capacità di innovazione unita a una erudizione massima e un distacco ironico dai cliché accademici dello studioso chiuso in una stanza che tiene fuori quanto accade nel mondo. Questo ironico distacco ha permesso a Umberto Eco di avere un pubblico di massa, facendo sbriciolare il muro dell’insofferenza e dell’indifferenza del pubblico verso temi e argomenti da sempre prerogativa dell’Accademia.
Umberto Eco commentava sempre divertito il fatto che i suoi romanzi fossero best seller. Che ne pensa di questa sua capacità di conquistare l’attenzione del pubblico?
Voglio ricordare un episodio del legame intellettuale che mi univa a lui. Quando uscì Il nome della rosa, le reazioni dei critici non furono generose. Scrissi per Repubblica una recensione dove elogiavo la sua capacità di tessere la trama di un romanzo che catturava l’attenzione senza mai essere banale nella definizione dei personaggi, nella ricostruzione storica del periodo e dei temi che affrontava, come la libertà di ricerca in un clima segnato da dogmatismo. Molti lo criticarono anche aspramente per come era stato prodotto e per l’implicita idea della necessaria indipendenza del letterato dalla contingenza politica. Replicai a molte delle critiche con un altro scritto. Erano due gli autori che erano criticati in quel periodo: Umberto Eco e Italo Calvino. Io sostenni che nello scrivere i loro romanzi si erano divertiti. Questo del divertimento non è una faccenda secondaria, perché denota passione, intenzionalità anche politica. Poi, certo, il divertimento può diventare un limite, diventando anch’esso un vincolo troppo forte, minando la qualità del lavoro di scrittura. Umberto Eco può essere stato discontinuo, ma sarebbe improvvido considerare negativamente i suoi romanzi. Come ho detto è stato una personalità complessa, difficile da definire in maniera tranchant.
Eppure la voce di Umberto Eco è stata meno presente nel corso degli anni. Non crede?
Non sono d’accordo. Ha sempre preso posizione per una difesa delle istituzioni democratiche. Senza nessuna indulgenza per il potere e senza derive populiste. Possiamo dire che è stato meno efficace, ma la perdita di efficacia riguarda tutti gli intellettuali di questo paese. Come non ricordare le settimanali «Bustine di Minerva» apparse su l’Espresso. Sono una vera e propria storia del presente dove non ha fatto sconti a nessuno. Potevi dissentire o esprimere consenso, ma sono comunque esempi di una sua presenza vitale nella vita culturale e politica italiana. L’ultima presa di posizione di Eco ha riguardato il processo di concentrazione editoriale che ha avuto nell’acquisto della divisione libri della Rcs da parte di Mondadori..... Mi sembra che la sua presa di posizione sia stata ammirevole. Si è impegnato in una avventura editoriale dagli esiti incerti quando era già ammalato. Mi sembra che questo riveli la sua coerenza di intellettuale libero, quale è stato per tutta la vita.
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