Nessuno ha mai saputo di questo piccolo quaderno nero, non i figli né la compagna né gli amici più intimi. Bruno Trentin l’ha protetto da sguardi e parole indiscrete per oltre sei decenni, lasciandolo scivolare sotto vecchie carte, come si fa con gli oggetti preziosi ma un po’ ingombranti, sepolti nel mucchio e mai dimenticati. È il diario dei suoi sedici anni, un documento privato ma con straordinario valore pubblico, la cronaca minuziosa e lucida dei sessanta giorni che segnarono le scelte d’una generazione, e anche il destino d’una nazione. Un journal de guerre, come titola espressivamente il giovane diarista, che comincia all’indomani dell’armistizio, il 22 settembre del 1943, per interrompersi due mesi più tardi, il 15 novembre, a pochi giorni dall’arresto insieme al padre Silvio. Due le epigrafi poste in prima pagina, «Allons enfants de la Patrie!» e «C’est la lutte finale!», la Marsigliese e l’Internazionale. Per raccontare la sua guerra antifascista Trentin sceglie il francese, "figlio guascone" di esuli italiani.
«Quando Marcelle Padovani me l’ha mostrato, è stata un’emozione molto forte: come ritrovare un tesoro al modo di Stevenson», racconta Carmine Donzelli, che ha deciso di darlo subito alle stampe.
Inusuale anche la veste grafica, nella calligrafia meticolosa, nell’ordinata scansione in paragrafi, perfino nell’accurata illustrazione tra fotografie, mappe e ritagli di giornale: «Anche in questo non comune gusto grafico», dice l’editore, «si riconosce la naturale eleganza dell’autore, una precocità fulminante e quel razionalismo cartesiano respirato nelle scuole francesi».
A Cédon de Pavie in Guascogna Bruno era nato il 9 dicembre del 1926, il padre Silvio un insigne giurista costretto all’emigrazione dalle «leggi fascistissime». Oltralpe dunque crebbe e si formò, guascone nelle radici e nel temperamento, lettore avido di D’Artagnan e ragazzo scalpitante: le foto giovanili ne mostrano l’indole da furetto indomito che pochi anni più tardi troverà una sua più misurata intensità. Inquieta e fremente - racconta Iginio Ariemma nella sua informata introduzione - è anche l’atmosfera respirata a casa e nella libreria paterna di Tolosa, la Librairie du Languedoc, crocevia degli esuli di Giustizia e Libertà e dei volontari andati a morire in Spagna.
«Ma un adolescente ribelle», spiega Donzelli, «può voler di più, magari mostrare ai padri che anche lui ci sa fare, su una spinta che mescola conflitto e assimilazione». Così nel 1942 Bruno appena sedicenne fonda un gruppetto anarchico, tappezza Tolosa di scritte antifasciste, utilizzando per la propaganda la carta intestata della libreria di famiglia... Per caso o per sfida? La polizia lo scopre, finisce in prigione. Di quell’episodio racconterà la visita in carcere della madre e un furente schiaffo sulla guancia: «Se fai il nome di tuo padre, t’ammazzo…». Per Bruno resterà uno dei ricordi più cari.
Quando può rientrare in Italia, dopo la caduta del fascismo, Silvio porterà con sé quel figlio precoce e inquieto. Ne fa il suo braccio destro, lo coinvolge nella sua attività clandestina di leader azionista della Resistenza veneta. L’arrivo è a Mestre, poi Treviso, il 4 settembre del 1943. La guerra sta per cominciare, quella vera, la guerra contro il nazifascismo - come annota Bruno nel diario - il patriottismo autentico contrapposto a quello fasullo di marca fascista... Nel journal il ragazzo trascrive ogni dettaglio, eventi e personaggi, incontri riservati, le prime azioni di sabotaggio, l’organizzazione delle bande partigiane. La cautela del cospiratore appare scossa dalla furia di divorare «conoscenze luoghi e persone», come se la scrittura potesse mimare e sostituirsi all’azione. Le sue fonti sono diversissime, dai quotidiani fascisti a Radio Londra e Radio Mosca, le agenzie internazionali, gli ambienti azionisti frequentati da Silvio. Nulla gli sfugge della scena mondiale, il fronte interno e l’Egeo, il Pacifico e la Russia. La sintonia politico-culturale tra padre e figlio sembra cementarsi, il diario è anche testimonianza d’un genitore ritrovato, «si è costruito quel rapporto che era in parte mancato», confesserà più tardi Bruno.
Resistenza e ancora Resistenza: la parola ricorre tra le pagine quando ancora se ne faceva scarso impiego, fa notare Claudio Pavone nella sua Postfazione. Dall’iniziale scetticismo verso i connazionali, intorpiditi dal ventennio nero, Trentin scopre pian piano una diffusa volontà di riscatto, in un crescendo di giudizi affilati che mescolano lungimiranza - l’eccidio di Cefalonia interpretato come pagina nobile contro il nazifascismo -, patriottica indignazione (il re «miserabile piccolo sgorbio ricoperto d’oro e medaglie finte») e accenti enfatici verso «le gloriose avanguardie dei figli di Lenin» immolate contro la «bestia nazista». Una passione questa sul fronte orientale talvolta raffreddata in un lessico più cauto, in termini come «rossi» e «bolscevichi». Nell’oscillazione lessicale sempre Pavone rintraccia i conflitti politici che agitano la sinistra resistenziale, ma anche «quel groviglio proprio d’una generazione del quale vanno colte sia le contraddizioni e le coerenze che il significato profondo».
Puntuale e quotidiano fino al 13 ottobre, nell’ultimo mese il diario acquista un passo più lento e frammentato, spia dell’aumentato rischio dei cospiratori. Il 15 novembre l’interruzione improvvisa, con una frase secca scritta a matita: «Tempo perduto. Ora all’opra!». È l’unica scritta in italiano, una sorta di epigrafe generazionale che riecheggia l’analogo appello di Giaime Pintor e disegna la parabola politica e esistenziale del giovane guascone partito dalla Marsigliese e approdato alla lingua dei padri. Per Bruno comincia una nuova vita. Quattro giorni più tardi l’arresto a Padova insieme a Silvio: nel tragitto verso la federazione fascista Bruno ingoia tutte le carte compromettenti, procurandosi un’occlusione intestinale. La carcerazione non durerà a lungo, ma nel marzo successivo l’attende lo strappo più doloroso, la perdita del padre. Al lutto privato s’aggiunge il peso simbolico della successione. Nell’aprile del 1944 Bruno è già in montagna.
Perché il prolungato silenzio su questo Journal de guerre? «Forse per una scelta di stile», risponde Donzelli. «Tra i dirigenti della sinistra vigeva la regola che non ci si doveva vantare. O forse Trentin è stato trattenuto dalla radicalità dei suoi giudizi giovanili. A me è sembrato sbagliato censurarlo, soprattutto in questi tempi confusi. Il diario ripristina con un’urgenza perentoria l’idea che c’è stata una guerra contro il fascismo, e che non è possibile equiparare i combattenti dell’una e dell’altra parte. È un documento sul valore imprescindibile dell’antifascismo. La Liberazione non è stata liberazione punto è basta, ma liberazione dal fascismo. È bene ricordarlo, altrimenti rischiamo che i miti fondativi della storia repubblicana perdano senso perché fondati sull’equivoco».
BRUNO TRENTIN
pagine dal diario
22 settembre 1934
Sono esattamente 14 giorni che il popolo italiano ha preso coscienza con una gioia trepidante dell’armistizio con le potenze Anglo-sassoni. Gioia ben presto delusa dall’annuncio dell’occupazione integrale dell’Italia settentrionale da parte delle truppe tedesche. Dall’8 settembre 1943, il nord della penisola vive la più terribile e la più penosa delle tragedie.
L’8, mio padre era a casa dei suoceri, mio fratello a casa di amici. Io passeggiavo per caso sulla piazza principale di Treviso (Veneto). Si è radunata una folla confusa e incerta. Corrono delle voci: la Pace... la Pace!... Voci, ma nessuno ne sa niente. Tutto a un tratto, un uomo compare a un balcone e urla: «Italiani! Una grande notizia... Armistizio!... la guerra del fascismo è finita!... Vendetta contro quelli che vi ci hanno trascinato!...». La gente grida di gioia, i soldati si abbracciano, si corre per le strade, si canta. Io, tremante, tesissimo, mi precipito attraverso il dedalo delle viuzze sporche della città bassa. In cinque minuti sono da mio nonno; irrompo nella stanza in cui mio padre sta discutendo con alcuni amici; grido: «Badoglio ha firmato l’armistizio!». Mio padre si alza in piedi, grave, senza inutili esplosioni di gioia; si guardano tutti tra loro... «È la guerra che comincia!».... La guerra vera per l’Italia vera.
Da quel giorno, le nostre volontà: quella di mio padre, di mio fratello e la mia, si sono sforzate di farla, questa guerra, con ogni mezzo.
Il 9 settembre, mio padre va a trovare il comandante della piazza, il generale Coturri. Questi si rifiuta di organizzare la resistenza alle truppe tedesche che avanzano verso Treviso per occuparla. Il 10, un altro generale, tremante di paura, si sottrae. L’11 un terzo generale del «fu esercito italiano» e il prefetto della città non si vogliono compromettere. Paura! Paura! Corriamo di prefettura in prefettura, dall’ufficio dello Stato maggiore al Municipio. La nostra delusione, la nostra amarezza sono grandi; tutti tremano di paura. Lo sgomento, il panico poco a poco si impossessano della popolazione. Qualche giorno prima, urlavano di gioia. L’11 settembre già tremavano per la loro salvezza. I tedeschi si avvicinano a Treviso. I soldati scappano in disordine, buttando le armi, le uniformi, gli ufficiali, in borghese, scappano in macchina attraversando a tutta velocità le vie della città. Di fronte all’impossibilità di organizzare in città una resistenza armata, partiamo a nostra volta per nasconderci in campagna. Comincia in Italia una nuova vita: la vita clandestina.
25 settembre 1943
Si è costituito il governo fantoccio di Mussolini. Tra questi ministri, tra questi uomini abietti che non hanno vergogna di incitare il popolo italiano a collaborare con le orde naziste, si ritrovano alcune vecchie conoscenze, già famose per la loro integrità e la loro grandezza d’animo. In particolare, quel caro maresciallo Graziani che si è tanto graziosamente distinto in Abissinia nell’impiegare i gas contro dei negri inermi, ha portato a termine la sua carriera di macellaio sanguinario, mettendosi a servire tra le file nemiche, come ministro della guerra di un governo fascista venduto alla Germania al prezzo più basso, fianco a fianco coi suoi colleghi tedeschi, macellai come lui.
Ma ci sono anche degli ufficiali che hanno saputo lavare nel sangue l’onore così compromesso di questa Italia martirizzata. È il caso del generale della divisione «Acqui» a cui era stata affidata la difesa dell’isola greca di Cefalonia, e che con una fermezza e uno stoicismo ammirevoli ha ordinato ai suoi uomini di resistere ad ogni costo all’invasore nazista. Soverchiato dalla schiacciante superiorità del nemico, insieme col suo stato maggiore rifiutò di arrendersi, cosicché i tre quarti della divisione, con tutti gli ufficiali, furono annientati. I Tedeschi fecero solo quattromila prigionieri. Una pagina gloriosa come questa mostra che c’è ancora della buona genia di Italiani: Italiani che hanno a cuore l’onore del loro paese e la loro libertà.
8 ottobre 1943
L’automobile s’inerpica per uno stretto sentiero di montagna, il tempo è cattivo, piove. Sono in macchina, con mio padre e uno dei nostri. Il nostro obiettivo è di andare a P..., paesino della montagna veneta, per discutere e prendere accordi con i capi di un movimento di patrioti italiani, armati fino ai denti, che tengono le alture. Intorno alle 5, arriviamo in paese. Parcheggiamo l’automobile nel cortile di una locanda che è una delle ultime case di P. «Loro» sono lì, ad attenderci: due giovani ufficiali degli «Alpini» dell’esercito Italiano. La barba lunga, indosso un completo di velluto, l’aria risoluta... Poche parole per presentarci, e ci sediamo attorno a un tavolo, davanti a un bicchiere di vino: siamo soli. Le discussioni che sono seguite sono state di carattere troppo confidenziale perché possa trascriverle su questo diario.
Tuttavia, mentre parlavamo, tra noi, sentivamo qualcos’altro.. un bisogno di essere affettuosi, nonostante parlassimo di questioni terribilmente serie e importanti.
Negli occhi di quei montanari si percepiva una grande aspettativa, un po’ di riconoscenza, per quella gente di laggiù, per quei rappresentanti dei partiti di resistenza, che erano saliti fin lì per provare a creare qualcosa di veramente organizzato... forse anche un po’ di diffidenza per quegli uomini ben vestiti, un po’ pieni di illusioni.
Arriva un capitano degli Alpini, è il capo del gruppo. Pelle abbronzata, baffi corti... doveva avere attorno ai trentacinque anni: il tipico montanaro veneto. I suoi occhi chiari ti frugano dentro e ti spogliano. «... allora è vero, ci sono degli amici che vogliono aiutarci... ci sono altri Italiani che vogliono battersi con noi; allora, non ci sono solo bastardi e traditori?... no, c’è anche un’Italia vera»; e anche noi pensiamo che ci sia un’Italia vera, un vero simbolo di libertà piena di vita e di splendore dentro gli occhi di quell’uomo dagli abiti logori e dalla barba lunga.
Ci sono uomini che hanno pensato come me, che hanno giudicato come me e che vogliono lottare come me contro lo stesso nemico. Non siamo soli! Sotto la maschera consunta e rappezzata, dietro a questa maschera del fascismo, spunta un’altra cosa, una cosa vera, un popolo vero... il vero popolo italiano; non la folla fasulla che urlava «a noi» senza sapere perché... no, un popolo vero... grave, risoluto, splendente di forza e di luce... il popolo libero, il popolo che spezza le sue catene, e che grida altolà!
Quel popolo che era sul Piave contro l’Austriaco, che era a Vittorio Veneto dopo Caporetto, che era anche a Guadalajara contro le Camicie Nere, è nato di nuovo, puro, vergine, inattaccabile...
Abbiamo finito di parlare. Gli accordi sono presi... al minimo segnale devo raggiungerli anch’io per lottare al loro fianco... Stringiamo le mani callose, le stringiamo forte... Addio... L’automobile scende nella notte: un’ora dopo i grandi e sublimi contorni delle Alpi sfumano nel buio... Riscendiamo in città... per occuparci di loro, per riprendere la penna, la carta, l’elettricità, la radio... gli strumenti moderni della guerra... quegli strumenti offerti dalla civiltà...
© Marcelle Padovani e Donzelli Editore 2008