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Paolo Berdini
Tragica sì, fatalità no
1 Giugno 2012
Articoli del 2012
Un dissennato sviluppo territoriale è la ragione prima di tanto disastro. il manifesto, 1° giugno 2012 (m.p.g.)

Anche stavolta, pur di non fare i conti con lo sviluppo dissennato del territorio italiano e delle conseguenze che paghiamo in termini di perdita di vite umane, di distruzione di patrimonio storico e produttivo, si è messa in moto la gigantesca macchina della fuga dalle responsabilità. Di fronte al crollo di interi capannoni industriali con pochi anni di vita alle spalle ecco la scappatoia: si è saputo che l'area era sismica soltanto da un decennio e i capannoni crollati erano precedenti a quella data. Le colpe, dunque, sono di tutti e di nessuno. Non è così. È noto che chi progetta strutture impegnative, come i grandi capannoni industriali, usa ogni prudenza a prescindere dalla sussistenza del rischio sismico. Se il rischio sismico esiste si usano certo cautele e verifiche più complesse e sofisticate, ma è inspiegabile che ci siano stati crolli. Potevano esserci lesioni, cedimenti, ma crolli no perché l'intensità dell'evento non è stata enorme.

Ma la furbesca attribuzione di ogni evento che devasta l'Italia a «tragiche fatalità» una volta tanto ritorna a sfavore dei corifei del tutti responsabili, nessun colpevole.

Se è vero quanto hanno incautamente affermato, e cioè che i capannoni sono crollati perché calcolati sulla base di assenza di terremoto che poi si è verificato, è anche vero che un paese che guarda al proprio futuro doveva porre in essere un piano sistematico di messa in sicurezza dell'esistente. Si è fermata una parte importante del motore produttivo italiano e non si è fatto nulla in via preventiva per proteggerlo. Ancora più grave, se possibile, la questione dell'edilizia storica e abitativa. In questo caso è scontato che essa sia stata prevalentemente realizzata con concezioni e tecnologie inadatte a sopportare i terremoti. Sono decenni che la miglior cultura italiana, le grandi associazioni di difesa del territorio e ambientaliste chiedono, proprio sulla base di questa constatazione, di metterlo in sicurezza. E invece nulla, si continua a espandere le città, a sciupare prezioso territorio agricolo. Poi tutto va a terra e «non ci sono i soldi per risanare e ricostruire».

Non c'è una sola voce - a eccezione forse del ministro Clini - che affermi con la forza necessaria che l'unico modo per far uscire il paese dalla crisi economica in cui lo ha cacciato il liberismo senza regole, è quello di avviare un gigantesco processo di piccole opere che recuperino e mettano in sicurezza città e territori.

Pochi giorni fa, invece, è stato dato il via al piano (l'ennesimo) per le grandi opere per un importo di 100 miliardi. Dietro ognuna di queste opere ci sono le stesse fameliche imprese - tipo Ponzellini-Impregilo, per capirci - che posseggono giornali che strillano su un paese fermo a causa della burocrazia. Tra le opere finanziate, manco a dirlo, ci sono opere inutili come l'autostrada Roma-Latina, la nona tranche di finanziamento al grande scempio ambientale del Mose di Venezia e tante altre. Si continua con le stesse politiche che hanno portato all'attuale disastro. L'assetto anarchico del territorio non è stato causato dall'eccesso di regole: è figlio della cancellazione delle regole e della cultura dello sviluppo senza limiti e delle grandi opere.

È ora di prendere atto che i limiti esistono. Due anni fa il Centro studi dei geologi e il Cresme avevano stimato in sette milioni gli edifici a rischio. Da allora non è stato fatto nulla e il governo continua ad annunciare il «piano città». Per essere efficace questo piano dovrà prevedere sostanziali prerogative pubbliche perché ci vogliono risorse vere per avviare la ripresa. E dovrà affermare due semplici verità: è finita la fase della crescita urbana perché non la possiamo sostenere economicamente e bisogna mettere in sicurezza e innovare dal punto di vista energetico quello che già esiste.

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