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Mario Piana
Tra storia e norme. Non solo Fondaco, Venezia non può essere cambiata
2 Marzo 2012
Vivere a Venezia
Ci era sfuggito questo intervento di un autorevolissimo conoscitore dell'edilizia storica veneziana, pubblicato su La Nuova Venezia del 25 febbraio 2012

In merito alla vicenda del Fondaco dei Tedeschi si legge che la società Edizione del gruppo Benetton “ha dato mandato ai propri legali di valutare se iniziative, dichiarazioni e affermazioni (...) possano essere ritenute lesive della propria onorabilità e immagine, così come foriere di danni anche in relazione alle negoziazioni in corso con partners per l’iniziativa imprenditoriale che s’intende riservare al progetto”. Se la citazione del passo riportato dalla stampa è letterale – ma nessuna smentita finora è apparsa – il comunicato della proprietà si configura come un tentativo di intimidazione di chiunque osi avanzare una qualsivoglia critica al progetto, col malcelato intento, di manzoniana memoria, di “sopire, troncare ... troncare, sopire” il dibattito in corso.

È invece giusto e legittimo – oltre che, a questo punto, doveroso – esprimere opinioni e critiche su un’ipotesi progettuale che, sia pure valutabile sulla scorta delle poche informazioni e dello scarno materiale grafico reperibile in rete e sui giornali, presenta drastiche criticità. A tal proposito, sia detto per inciso, il nostro primo cittadino non ha tutti i torti quando lamenta che della questione si parla spesso senza conoscerne termini e vicende. A questo, però, è facile rimediare. Qualche ora di lavoro di un impiegato comunale dovrebbe essere sufficiente per scansionare e pubblicare sul sito del Comune un apposito dossier, che ovviamente non si pretende completo: basterebbero le relazioni progettuali e i grafici dello stato di fatto e di progetto, anche a scala non dettagliata, con le relative tavole di confronto delle demolizioni/nuove opere, accompagnati dalle convenzioni e pareri in merito emessi dall’amministrazione comunale e dall’ufficio di tutela.

Le criticità del progetto, in aperto contrasto con le vigenti leggi e regolamenti in materia edilizia, sono di evidenza palmare: la demolizione di un’intera falda del tetto per ricavare una terrazza affacciata sul Canal Grande, ad esempio, accompagnata dall’innalzamento di qualche metro del tetto centrale in metallo e vetro di fattura ottocentesca e delle falde rivolte sul cortile, trasformate in superfici piane (forse per ricavare un’ulteriore ampia area praticabile di affaccio sulla città?). O la collocazione di scale mobili nel cortile interno, che violerebbero, stravolgendoli, spazialità e valori formali dello straordinaria architettura, oltre che comportare la demolizione di membrature laterizie cinquecentesche e di bancali lapidei colmi (se ne sono accorti i progettisti?) di graffiti: nomi, sigle, segni distintivi di mercatura, simboli religiosi, scacchiere per il gioco, ecc., incisi nel corso dei secoli dai mercanti della nazione tedesca. O ancora l’eliminazione del velario presente nel cortile, sostituito da un nuovo solaio praticabile ad uso pubblico, che comporterebbe un aggravio di carico tale da produrre dissesti certi sulle esili membrature dei loggiati sovrapposti e sicuramente foriero – in questo si è facili profeti – di opere di rafforzamento delle fondazioni tanto imponenti quanto invasive.

Tutti interventi (e forse altri ancora, ma rimaniamo in attesa di conoscere meglio il progetto) che condurrebbero ad alterazioni e trasformazioni inaccettabili di una delle più importanti e significative architetture del Rinascimento veneziano, eretta con il contributo progettuale del grande trattatista e architetto fra’ Giocondo. La variante ‘riduttiva’ di progetto che pare essere stata presentata nei giorni scorsi all’esame degli uffici competenti non attenua minimamente tali criticità: la diminuzione dell’ampiezza della terrazza, con l’installazione di una falda mobile (peraltro rimpiazzata, pare, dall’improvvisa apparizione di un “pontile” sull’acqua di vastissime dimensioni destinato ad accogliere i tavolini di un bar) sarebbe comunque stravolgente e il rendere sollevabile una delle scale mobili non attenuerebbe minimamente il loro impatto sul cortile. E tutto il resto?

“Riteniamo che il progetto non può essere ulteriormente modificato. Non è possibile sconvolgere il piano dell’architetto Rem Koolhas che invece va valorizzato” ha dichiarato la proprietà alla stampa. Si è forse sparato cento per ottenere cinquanta (o, meglio, novantanove)? Non lo crediamo: sarebbe un atteggiamento più confacente allo stile di un magliaro levantino che a quello di un grande gruppo industriale che si è finora distinto nella promozione di lodevoli iniziative culturali.

Per fortuna, è proprio il caso di dirlo, che c’è la Soprintendenza. L’ente di tutela non potrà certo autorizzare opere confliggenti innanzitutto con i dettami della Carta del Restauro di Venezia, che possono anche essere ignorati dai progettisti e dai committenti, ma che dal Ministero sono stati a suo tempo resi prescrittivi per i funzionari dei Beni Culturali. Carta che all’art. 6 recita: “la conservazione dei monumenti è sempre favorita dalla loro utilizzazione in funzioni utili alla società: una tale destinazione è augurabile, ma non deve alterare la distribuzione e l’aspetto dell’edificio. Gli adattamenti pretesi dalla evoluzione degli usi e costumi devono dunque essere contenuti entro questi limiti”, o che all’art. 13 ricorda che “le aggiunte non possono essere tollerate se non rispettano tutte le parti interessanti dell’edificio, il suo ambiente tradizionale, l’equilibrio del suo complesso ed i rapporti con l’ambiente circostante”.

Opere, oltretutto, in conflitto – e una legge dello stato dovrebbe valere anche per l’amministrazione locale – con le disposizioni della Legge Speciale per Venezia, che nel suo Decreto d’attuazione n° 791 del 1973 all’art. 2 prescrive che gli interventi di restauro debbono garantire “la conservazione della totalità degli assetti costruttivi tipologici e formali” delle fabbriche, assicurare la conservazione “delle coperture a tetto ed a terrazza che debbono restare alla stessa quota”, ed essere tra l’altro volti al ripristino del “sistema degli spazi liberi esterni ed interni che formano parte integrante dell’edificio”. Nessuno, si crede, invoca la liberazione del cortile del Fondaco dall’attuale copertura per restituirlo alla sua primitiva condizione, ma è difficile riconoscere nel solaio proposto sulla sua sommità una sia pur tenue aderenza alle norme. Norme che non possono in alcun caso derogarsi in cambio dei benefici pubblici che si otterrebbero se il progetto venisse realizzato.

Benefici dubbi, peraltro, se è vero quanto riportato dalla stampa. Vantaggi che non possono che considerarsi risibili se posti in termini di garanzia di accesso per il pubblico agli spazi del Fondaco (dato che è presupposto ovvio per ogni destinazione di carattere commerciale), di minima utilità, se intesi come possibilità d’uso concessa al Comune per propri eventi o iniziative (poiché per tali attività non mancano certo altri luoghi in città; quali spazi, oltretutto, e per quanti giorni?), deprimenti se constano nella concessione all’uso di qualche bagno anche a chi non farà alcun acquisto, umilianti infine, se consistenti in una somma di denaro, qualunque ne sia l’importo, che in ogni caso verrebbe incassata dalla municipalità in conseguenza del cambio di destinazione d’uso. Aumenti delle superfici utili, scale mobili, terrazze panoramiche sui tetti e sull’acqua (tutte dotazioni che di certo produrrebbero vantaggi non trascurabili per un centro commerciale collocato nel cuore di una città come Venezia, ma di sicuro effetto dirompente per l’edificio del Fondaco) non potranno essere realizzate? Proprietà e progettista se ne facciano una ragione: la legge non lo consente.

L'autore, docente di Restauro all'Università IUAV di Venezia, è stato per molti anni funzionario e dirigente della Sovrintendenza veneziana.

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