Leggendo la recensione di Claudio Gnesutta al libro di Salento-Masino, La fabbrica della crisi e il declino del lavoro, uscita su www.sbilanciamoci.info, ho pensato che fosse importante ri-aprire il dibattito sul futuro delle politiche del lavoro nelle attuali condizioni dell’impresa finanziarizzata, come descritta nel volume recensito.
Gli autori ci consegnano un quadro drammatico dell'impresa di oggi, caratterizzato da decentramenti e delocalizzazioni, da scelte imprenditoriali finalizzate esclusivamente al profitto privato, incurante dei danni sociali, ambientali ed economici che provocano, da un capitalismo definito “predatorio”, che fa tornare indietro di almeno un secolo la società occidentale.
Dunque quel liberismo che avrebbe dovuto soddisfare il benessere di tutti ha invece incentivato interessi speculativi di pochi privati a danno della maggioranza, ha permesso quella diseguaglianza denunciata ormai da diversi anni e da più parti (L. Gallino, 2012; E. Stigliz, 2012).
La perdita di potere del lavoro avviene sia all'interno che all'esterno della fabbrica. Di fronte alle delocalizzazioni assistono impotenti sia i lavoratori e i sindacati che le istituzioni, non più in grado di offrire alternative appetibili in un sistema di libero mercato globalizzato. I danni sociali di imprese che non investono nel nostro Paese ma altrove, non colpiscono solo i lavoratori dell'azienda che vengono licenziati, ma anche lo stesso territorio dove insiste l'impresa, che si deve accollare i danni derivanti dalla gestione della disoccupazione e dalla perdita dell'attività industriale sia dell'impresa che dell'indotto, quindi dall'impoverimento in generale del tessuto produttivo e sociale. Per non parlare dei danni sociali ed ambientali derivanti da scelte imprenditoriali irresponsabili.
Diventa quindi quasi consequenziale ritenere che, alla perdita di potere del lavoro all’interno (e all'esterno) dell'impresa, si debba rispondere con un aumento di potere del territorio sull'impresa. È il territorio, infatti, il luogo su cui insistono le imprese, su cui operano le rappresentanze sindacali e su cui vivono i lavoratori e, più in generale, i cittadini e le istituzioni locali: tutti accomunati dalla necessità che le imprese non solo sopravvivano ma possano aumentare la propria produttività, competitività e capacità occupazionale, in modo sostenibile e responsabile. Tutti questi soggetti devono quindi essere coinvolti e avere voce in capitolo, attuando l'art. 46 e valorizzando il secondo comma, piuttosto del primo, dell'art. 41, oltre che l'art. 43 della Costituzione. Allora è necessario immaginare e sperimentare nuove forme di organizzazione del lavoro (meno gerarchizzate, più circolari e partecipate), nuove frontiere contrattuali (meno “aziendali” e più territoriali, dunque meno categoriali e più “inclusive”), nuove relazioni sindacali (meno unilaterali, più condivise e bilaterali), nuove forme di concertazione se non di co-decisione (con le amministrazioni locali e con comitati di cittadini).
In altri termini, alla de-regolamentazione, de-centramento e de-collettivizzazione del lavoro si può reagire immaginando un nuovo modello di sviluppo, fondato sulla democrazia industriale, economica e politica.
A forme di co-decisione (hard o soft) con sindacati e lavoratori interni all'impresa, tutte ancora da realizzare, andrebbero poi affiancate altre forme di partecipazione degli stakeholder. Peraltro, porre dei limiti a quella discrezionalità manageriale che si è rivelata fallimentare, porta vantaggi alla stessa impresa: come ha ben evidenziato Streek (Streek, 2009), si tratta di “vincoli benefici” se, da un lato, impediscono all'impresa di compiere scelte irresponsabili, dall'altro le permettono di essere sostenuta da una pluralità di soggetti nei periodi di crisi.
All'alba di un nuovo secolo, dopo il crollo delle ideologie che hanno dominato il Novecento, dopo che si sono resi evidenti gli sfasci di un modello di sviluppo affidato solo al libero mercato, diventa urgente oggi immaginare un nuovo modello e scegliere i principi su cui fondarlo. Dei tre principi fondanti la società moderna (liberté, egalité, fraternité) bisogna realizzare ancora una solidarietà che vada di pari passo con la partecipazione libera ed egualitaria. Infatti, nell'era post-fordista, informatica e tecnologica, i lavoratori, così come la società civile, potrebbero disporre, se messi nelle giuste condizioni culturali e socio-economiche, di tutti gli strumenti per conoscere, comprendere, partecipare e decidere.
D'altronde, questa richiesta di partecipazione giunge direttamente dagli stessi cittadini e lavoratori, che negli ultimi anni la reclamano in misura sempre maggiore e insistente. Esempi emblematici sono la nascita di movimenti che rivendicano i beni comuni (dai Comitati Acqua Bene Comune ai No Tav, dalle occupazioni a scopo culturale alle leggi d’iniziativa per la gestione del paesaggio), di forme di solidarietà dal basso (Banca delle ore, car sharing, co-housing e co-working, crowdfunding ecc., e in generale, il progressivo sviluppo bottom-up della c.d. sharing economy), il successo di partiti che fanno della partecipazione diretta dei cittadini, sebbene in alcuni casi in modo populistico, il loro cavallo di battaglia, così come di casi in cui non scandalizza la possibilità di commissariamento di imprese irresponsabili (vedi, in Italia, il caso Ilva) o di rilevamento della fabbrica in crisi da parte degli operai (come l'esperienza argentina delle Empresas recuperadas por sus trabajadores, su cui cfr. A. Marchetti, 2014 ).
La democrazia economica e politica è il primo passo necessario per permetterci di immaginare un nuovo modello di sviluppo fondato su una solidarietà responsabile e partecipata.
Cenni bibliografici:
L. Gallino, (2012), La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza.
A. Marchetti, (2013), Fabbriche aperte - L'esperienza delle imprese recuperate dai lavoratori in Argentina, Il Mulino.
J. E. Stigliz, (2012), The Price of Inequality, Norton & Company.
W. Streek, (2009), Re-forming Capitalism, Oxford University Press.