Quanti anni sono passati dalla funesta decisione governativa di ammettere l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione versati dai costruttori ai Comuni per le spese correnti...>>>
La crisi comincia nel 2008. Dunque dal 2001 per cinque anni l’opposizione del centro sinistra ha taciuto, come se nel suo insieme approvasse le conseguenze laceranti verso un territorio già ridotto a brandelli. La voce, benché flebile, del Comitato per la bellezza lo certifica: quel tipo di finanziamento è un duro colpo alla “speranza di salvezza per il già intaccato paesaggio italiano”. La conquista del governo da parte del centrosinistra suscita in noi, come nel romanzo di Dickens, “Grandi speranze”. Ma non conoscevamo a fondo la vocazione totalmente centrista se non destrorsa dei partiti che lo costituivano. I governi “nostri” (per modo di dire), invece di cancellare la “porcata” bassaniniana, non solo la confermano ma con la legge finanziaria del 2007 la protraggono di tre anni. Nel seguito, dal 2010, nessun politico accenna al problema; se lo facesse “perderebbe il posto”. Infatti la crisi si spande anche sul settore edilizio riducendone l’occupazione, mentre i Comuni, intendo quelli bene amministrati, si arrabattano fra la diminuzione delle risorse finanziarie a meno di aumentare le tasse già alte e la contrarietà a ridurre le prestazioni dei servizi sociali o a lasciarle in mano ai privati, si sa inaccessibili alle famiglie più bisognose.
Eppure non bisogna arretrare dalla posizione contro l’impiego perverso degli oneri. E, insieme, dire chiaro che la diminuzione delle opere edilizie di ogni genere in un paese distrutto dal costruire costruire costruire, come una rapallizzazione globale, sarebbe il principio da rivendicare e poi da applicare (non c’entra qui la ”decrescita felice”). Gli edifici giunti a tale insensata numerosità, dappertutto, da lasciarsi alle spalle enormi scie di costruzioni vuote, si pensi ai famigerati capannoni, agli uffici nelle grandi e medie città, alle seconde terze quarte case (intanto continuavano a mancare le case popolari pubbliche); le infrastrutture di trasporto tanto più inutili quanto più tronfie, si pensi fra una miriade di casi alla mai abbastanza vituperata, per eccesso di assurdità, TAV Torino Lione, o alla nuova autostrada Bre-Be-Mi, ottima per veloci corse coi pattini a rotelle, tanto è sicura stante l’assenza di traffico motoristico (intanto era trascurato e tagliato il fitto e indispensabile tessuto minore, specialmente quello ferroviario, una volta vanto della nazione): tutto questo è materia del nostro tormento per aver perso tante battaglie urbanistiche pur aspramente combattute, è materia inoltre della vergogna di troppi, istituzioni partiti e persone, per poterli elencare qui e riassumerne forse per l’ultima volta le malefatte.
Ricordo la crisi edilizia del 1965. La congiuntura, estesa a tutto il territorio nazionale, fu quella di un settore industrialmente arretrato in cui per due decenni avevano imperversato gli speculatori sulle aree fabbricabili e no, le nuove immobiliari, gli imprenditori di ogni genere, le imprese di costruzioni: tutte aziende e personaggi che avevano fatto guadagni colossali in regime di bassi salari e sfruttamento di immigrati, sottraendo capitali agli investimenti produttivi. Tuttavia, temendo che la pacchia finisse, si lamentavano cercando di incolpare una legge urbanistica che non c’era, ferma al progetto Mancini, il quarto dopo i tentativi di Zaccagnini, Sullo e Pieraccini, peraltro dimenticato da mesi nei recessi del ministero. La verità era che si era costruito troppo, malamente, brutalmente, secondo l’obbiettivo di moltiplicare e intrecciare rendita e profitto il più rapidamente possibile.
Oggi, la crisi generale sembra comprendere inevitabilmente un settore che invece, anche senza questa situazione, doveva flettere perché, come ancora Berdini ci ricorda, “abbiamo costruito troppo”, “abbiamo il doppio dell’urbanizzato” rispetto ai paesi europei a settentrione. Insomma, indipendentemente dall’indecente, benché talvolta forzoso impiego improprio degli introiti da concessioni di costruire, da tempo sindaci e giunte approfittano dei loro enormi poteri decisionali e della generale debolezza del Consigli (conseguenza della radicale riforma voluta da destra e sinistra poco meno di vent’anni fa), poi degli ulteriori poteri trasferiti dalle Regioni ai Comuni in tema di paesaggio, per dispensare concessioni edilizie che distribuiscono ingiuste ma apprezzate, da essi stessi, extra-rendite. Ad ogni modo troppi sindaci hanno mostrato una tale propensione a edificare indistitamente il territorio che certe lacrime per dover ricorrere agli oneri di urbanizzazione ai fini di bilancio sono sospette. Un’infinità di episodi denunciati anche in Eddyburg hanno rivelato il loro fastidio verso gli strumenti costituzionali o consuetudinari o culturali atti a difendere il territorio (il paesaggio) dagli immancabili aggressori: a curarlo, a conservarlo per le generazioni future.