Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2016, con postilla (p.d.)
Dallo scorso aprile in questa prateria da giorni flagellata da un vento glaciale che scende dal Canada, a due ore di macchina da Bismark – la capitale del Nord Dakota – i nativi e gli ambientalisti provenienti da tutti gli Usa hanno alzato le tipiche tende, quelle che abbiamo imparato a conoscere dai film western, cucine da campo e bagni chimici allo scopo di occupare 24 ore su 24 la zona dove dovrebbe passare il segmento locale dell'oleodotto che nella sua interezza misura 2.047 chilometri.
Considerata sacra dai Sioux, questa terra è inoltre ricca di falde acquifere che garantiscono acqua potabile non solo alle tribù native. E ora tocca proprio a loro, pur decimati dall'alcolismo, dalla malnutrizione e dai suicidi dovuti alle pessime condizioni di vita causate dalla disoccupazione, difendere l'oro blu anche per gli usurpatori. Perché anche secondo Greenpeace International, questo oleodotto costruito dalla Dakota Access LLC potrebbe inquinare le riserve idriche.
Qualche giorno fa i più autorevoli media statunitensi e inglesi, nel sottolineare il conflitto di interessi in cui sarà coinvolto il neo presidente Trump, che ha investito circa un milione di dollari nella Energy Transfer Partners, la casa madre della Dakota Access LLC. Kelcy Warren, l'amministratore delegato della società non a caso si è detto “fiducioso al 100 per cento che l'oleodotto verrà costruito sotto la nuova amministrazione”. L'entourage di Trump ha smentito dicendo che il magnate-presidente ha già venduto le proprie quote. Phyllis Young, una delle fautrici della protesta vorrebbe però vedere le carte, pur restando il fatto che, Trump o non Trump, l’opera non s'ha da completare perché “questo è territorio Lakota e a nessun altro, tranne a noi, appartiene la giurisdizione di queste terre”. Amnesty International ha denunciato in questi mesi la violazione del diritto costituzionale di protesta pacifica da parte delle autorità statali e gli arresti arbitrari oltre a numerosi episodi di violenza delle forze di sicurezza.
Un attivista ha perso un braccio e molti altri sono stati ricoverati per ipotermia e intossicazione dopo che la polizia e le guardie private della società costruttrice hanno usato cannoni ad acqua e polveri urticanti per sgomberare il campo. “La cosa che mi fa incazzare di più è che Obama ha fatto tante promesse ai nativi ma non ha bloccato questo oleodotto – dice Prince, un ragazzo di colore che da tre settimane sta manifestando con i nativi – solo Bernie Sanders, che avrei voluto votare, aveva dichiarato che questo ennesimo sopruso contro i nativi andava fermato.
Non solo perché è come se facessero passare un oleodotto in una chiesa o in un cimitero, ma perché potrebbe causare un disastro ambientale di cui milioni di americani subirebbero le conseguenze”. Nella serata di ieri l’US Army Corps of Engineers, l'Agenzia federale composta da civili e soldati che provvedono alla costruzione di infrastrutture nei territori sotto l'egida statale, hanno dichiarato di aver revocato l'ordine di sgombero forzato del campo previsto per il 5 dicembre. Intanto, oltre a un gruppo di soldati veterani di guerra e l'attrice Jane Fonda, anche il musicista Neil Young ha chiesto, attraverso il suo sito, al presidente Obama “di fermare immediatamente le violenze contro i pacifici protettori dell'acqua di Standing Rock”.
postilla
Il disinteresse per le popolazioni locali e i loro diritti, e per gli impatti ambientali; la benedizione da parte del governo nazionale a difesa di interessi unicamente privati; il ricorso alle forze dell'ordine pubbliche in sostituzione dei processi di confronto e partecipazione nelle scelte. Sono tutti scenari che in Italia abbiamo già sperimentato ma che il referendum del 4 dicembre sulla riforma/de-forma costituzionale ha intenzione di istituzionalizzare.
Gli eventi riportati nell'articolo accadono negli Stati Uniti d'America, da molti osannati come la più grande democrazia del mondo. Emerge dalle cronache quotidiane come la democrazia americana non sia affatto perfetta, ma nonostante ciò nessun politico statunitense si è mai permesso di bollare la propria Costituzione come vecchia (anche se è più antica della nostra di oltre 150 anni), da rottamare, da modernizzare per rendere la propria nazione più competitiva (si legga attraente) nel mondo globalizzato.
Per migliorare la nostra democrazia e il governo (non la governabilità) della nostra nazione non occorre una riforma della Carta ma sarebbe sufficiente la piena applicazione dei suoi principi fondamentali contenuti nei primi 12 articoli.