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Stefano Miliani
Svangheremo dalla crisi ? Ripartiamo da Adriano Olivetti
22 Agosto 2012
Articoli del 2012
Nell’intervista al curatore del Padiglione italiano alla Biennale dell’Architettura, la critica all’attuale modello di governo del territorio. L’Unità on-line, 21 agosto 2012 (m.p.g.)

Eh, no, “non è un anno come gli altri” va ripetendo Luca Zevi, il responsabile del Padiglione Italia della 13esima mostra di architettura della Biennale di Venezia in calendario dal 29 agosto (negli stessi giorni decolla la mostra del cinema) fino al 25 novembre. “Non è certo grazie alla finanza che la svangheremo dalla crisi. Serve un grande progetto per le imprese d’eccellenza del Made in Italy”. Ricordando, non copiando, il modello di Adriano Olivetti del dopoguerra.

Il padiglione italiano si dipana lungo quel magnifico spazio d’antico lavoro e tipicamente veneziano che sono le Tese delle Vergini all’Arsenale e lì l’architetto romano ha approntato un titolo vivaldiano, “Le quattro stagioni” con un sottotitolo esplicativo: “Architetture del Made in Italy da Adriano Olivetti alla Green Economy”. Scandisce il percorso in quattro “stagioni”: la prima appunto su Olivetti; la seconda sull’ “assalto al territorio” a partire dagli anni ’80, documentata da un video; la terza parte su “progetti architettonici d’eccellenza” dell’ultimo quindicennio; infine la puntata su imprese e Green Economy in vista dell’Expo 2015 a Milano. Il modello: rileggere– senza venerare - la lezione di Adriano Olivetti e da lì ripartire per un modello culturale e architettonico a misura di paesaggio, territorio, persone, bisogni.

Architetto, cosa intende con “le quattro stagioni del made in Italy”?

Intendiamo un modello di modernizzazione del paese legato a caratteri costitutivi del paese. Il primo riferimento è ad Adriano Olivetti perché lui ha tentato di dare una stagione modernissima all’Italia delle cento città che è meravigliosa perché ha centri urbani piccoli e medi di straordinaria qualità. Olivetti capisce che il nostro territorio è costituzionalmente policentrico, capisce che l’imprenditore italiano è fortemente individualista e creativo. Di conseguenza si distribuisce sul territorio con una azienda piccola e media, una grande originalità del prodotto e un forte radicamento del territorio , incluso quello agricolo.

Oggi però una miriade di capannoni ha devastato molte zone. Basti ricordare quanto lamentava e denunciava un poeta Zanzotto riguardo alla campagna veneta.

L’invasione dei capannoni avviene anche per l’incapacità della cultura e della politica di seguire quanto succede. E si torna ad Adriano Olivetti: dalla sua scomparsa negli anni 60 un’operazione culturale ancor prima che politica lo ha fatto passare come un personaggio legato all’800 sostenendo invece che la prospettiva è la grande fabbrica, la grande città con il quartiere periferico. Ma questo non era nella genetica produttiva italiana per cui il ciclo della grande fabbrica si conclude in una ventina d’anni. Invece il modello olivettiano si sviluppa in maniera incontrollata: quando le grandi fabbriche entrano in crisi esplode questo processo di piccoli centri produttivi, il territorio viene invaso perché la cultura architettonica e urbanistica non si dà come tema il decentramento produttivo in un’Italia policentrica.

E questo travolge anche l’agricoltura

L’agricoltura ne risente in modo pesante. Il paesaggio italiano è tutto un progetto, è la sua meraviglia, è realizzato e mantenuto con amore dall’uomo. È quindi architettura della stessa qualità delle città che viene invasa dai capannoni a causa di una sottovalutazione della politica e della cultura negli anni del mito dell’industrialismo.

E di cosa parlate quando parlate di Made in Italy?

Parliamo del rilancio della piccola e media impresa, dell’agricoltura piccola che ha inventato ad esempio la produzione a chilometro zero o, in città, gli orti urbani: sono segnali non necessariamente coordinati ma ci sono.

Cosa si vedrà nel padiglione italiano?

Proponiamo una rilettura dell’esperienza di Olivetti, non un omaggio. Diciamo: quello era il progetto, l’effimero è stata la produzione massiccia che sembrava la modernità. Con l’invasione del territorio si consolidano circa quattromila piccole-medie imprese con prodotti di eccellenza che diventano leader nel mondo e devono rappresentarsi architettonicamente e realizzano centri di qualità.

Esempi?

Da Aguzzini a Recanati, Cucinelli, la Ferrari, Prada, diventano poli territoriali che condensano interventi più importanti come il chilometro rosso della Brembo a Bergamo fatto da Jean Nouvel. Contemporaneamente, grazie anche alla presenza di Expo 2015, mostriamo anche le cantine firmate da architetti importanti e la centralità dell’agricoltura per una nuova architettura del paesaggio agricolo. Certe politiche europee hanno favorito le monocolture che sono invasive, ad esempio in Sardegna c’è una quantità smisurata di campi di girasole. Anche qui si rilancia valorizzando la caratteristica multiculturale e differenziata del nostro paesaggio.

Documentate l’assalto al territorio?

Lo documentiamo con immagini di questa occupazione indifferenziata: capannoni, impianti petrolchimici, l’Ilva di Taranto. È un modello di sviluppo che ha portato più difficoltà: dagli anni 80 è un fenomeno generalizzato favorito anche da terremoti che hanno moltiplicato i finanziamenti. Al sud si sono finanziati capannoni mai entrati in produzione, ma è successo dappertutto.

A suo parere, come recuperare uno slancio produttivo e un territorio ferito?

Non usciremo dalla crisi con una politica centrata sulla finanza bensì sulla capacità di lavorare creativamente. La nostra vera efficienza è ecologica, è multiculturale e solidale e si fonda su una comunità operosa con un equilibrio sociale: questo è il modello di sviluppo, un grande progetto con caratteristiche che non sono state riconosciute né dalla cultura né dalla politica. E ora in zone come le Marche ogni giorno chiude una di queste aziende. Quindi o nasce un progetto per fare di tutti questi spazi come una grande Olivetti collettiva che manda avanti l’Italia o non saranno le operazioni finanziare per lo spread a salvarci. Dobbiamo assolvere a questi impegni ma serve un grande rilancio produttivo con al centro questi soggetti: non è detto che la svangheremo, se continuiamo a essere banche e finanza non credo.

Il Padiglione Italia così sembra più una proposta di idee.

Il nostro programma non ha un curatore che sceglie architetti perché non è un anno come gli altri. Sarà un Padiglione inusuale perché la crisi è inusuale. Per questo abbiamo chiamato intellettuali di tutti i campi e soprattutto conoscitori dell’Italia vera per delineare una prospettiva in cui lavorare. Viviamo una grande confusione culturale e se non sappiamo quali sono le nostre vere risorse non ne usciamo. L’importante è puntare sui nostri veri punti di forza.

Questo discorso sfiora anche una polemica che Settis ad esempio tiene alta e riguarda proprio Venezia: l’invasione pericolosissima delle mega navi nel delicato e fragile tessuto della città lagunare. A chi critica l’arrivo di questi colossi dell’acqua la risposta è che portano soldi. Lei come la vede?

Sono come cattedrali industriali nel deserto. Se vogliamo un rilancio del made in Italy come lo intendiamo qui allora Venezia deve essere frequentata nel modo giusto. Si faccia un approdo appropriato per le grandi navi creando lavoro dove è giusto che stia ma che non è piazza san Marco o Riva degli Schiavoni. Le grandi navi sono una realtà, ma non è affatto necessario che sbarchino a San Marco. L’economia giri sul modo giusto e ce ne sarà per il turismo e una per il trasporto si spera di qualità.

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