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Piero Bevilacqua
Sulla impopolarità della storia del territorio in Italia
5 Dicembre 2007
Recensioni e segnalazioni
Questo saggio è in corso di pubblicazione in: P. Bevilacqua, P. Tino (a cura di), Natura e società, Scritti in memoria di Augusto Platanica, Donzelli, Roma 2005. Apre interrogativi e indica strade che è utile esplorare per chiunque si occupi del territorio. In appendice il testo completo di note

1. Una natura precocemente fatta storia

Ci sono sensibilità, attitudini mentali, modi di essere spirituali, che percorrono come un fiume sotterraneo la storia di un Paese e che lo contrassegnano per secoli con un marchio di straordinaria durata e persistenza. Sono caratteri originali, non facilmente afferrabili, e pur solidi come la roccia, di cui quasi mai si arriva a comprendere l’origine, o l’insieme di cause che hanno finito col generarli e farli durare nel tempo.

Senza dubbio costituisce un connotato profondo della cultura italiana la rimozione che le popolazioni e le loro classi dirigenti(compresi i ceti colti) hanno operato nei confronti della storia del proprio territorio. Una rimozione che a lungo ha riguardato la vicenda del suolo come natura, la cancellazione dalla memoria collettiva degli eventi catastrofici con cui le potenze oscure della Terra hanno scandito la vita delle varie comunità della Penisola nel corso dei secoli. L’Italia, terra tra le più intensamente sismiche del bacino del Mediterraneo, dispone di sempre più aggiornati cataloghi storici dei terremoti che l’hanno ripetutamente colpita, ma non ha mai elaborato una cultura nazionale connotata dalla consapevolezza di questa sua millennaria e inquietante originalità. La memoria storica socialmente più utile, forse la sola in cui effettivamente la registrazione del passato e’ magistra vitae - per quel che ci racconta e prescrive a proposito del suolo su cui viviamo e operiamo - costituisce un dato marginale dei saperi dominanti e della cultura nazionale.

Ma tale rimozione investe più latamente la memoria psicologica e colta delle popolazioni anche per aspetti meno dolorosi e funesti del passato. Gli italiani non solo hanno cancellato gli eventi eccezionali di cui sono stati così frequentemente vittime, ma hanno steso una coltre di oblio anche sui manufatti storici al cui interno hanno edificato i loro insediamenti, elaborato le loro economie, condotto i loro traffici, intessuto le loro relazioni sociali. Mi ha sempre fornito elementi di stupore e riflessione la considerazione svolta alcuni anni fa da Lucio Gambi a proposito della centuriazione romana ancora oggi visibile in tante aree e regioni della Penisola:

“Cito il caso della pianura padana da Cavour a Cividale e da Ivrea a Rimini, dal bacino fiorentino e della Terra di Lavoro dove si è conservata in migliori condizioni la centuriazione romana… La vasta geometria del reticolo viabile, del sistema drenante, delle direzioni e delle sagome dei campi pare che non siano fatti che abbiano lasciato un’impronta incisiva nelle percezioni territoriali della gente che su questi spazi rurali abita. D’altronde, il fenomeno della centuriazione è stato individuato e recuperato alla memoria dalla cultura erudita solo intorno alla metà del secolo scorso. Ma qui si può dire che, per lo meno in alcune delle regioni ricordate, la gente si è finalmente resa ragione di quelle comode e folte maglie di strade ortogonali, solo dopo che le autostrade, scorrendovi in mezzo coi loro imperiosi terrapieni, le hanno ostruite ed occluse”.

Certamente fanno parte di un fondo antropologico forse inesplorabile le ragioni che hanno condotto le popolazioni italiche e italiane a percorrere i secoli dell’era volgare senza avere, spesso, contezza del carattere eminentemente costruito del territorio da essi abitato. Calcare un suolo già ricco di impronte senza avere la capacità di scorgerle probabilmente è un connotato che deve essere comune a molte culture popolari europee. Ma certo per l’ Italia la situazione presenta elementi di singolare particolarità. Innanzitutto per essere stata, la Penisola, la sede privilegiata della intensa e secolare manipolazione e infrastrutturazione che vi operarono gli ingegneri e gli agrimensori romani. Emilio Sereni ebbe giustamente a ricordare come già Goethe avesse colto il carattere di manufatto civile, per dir così, del territorio italico in età romana. Una sorta - per citare le parole del poeta tedesco - di “seconda Natura che opera a fini civili” sovrapposta al paesaggio naturale e originario della Penisola.

Per due millenni numerose popolazioni, in varie regioni e città, hanno avuto davanti agli occhi o hanno quotidianamente utilizzato spazi urbani, cinte murarie, vie consolari, acquedotti, canali, cisterne, ponti, porti: il lascito evidente dell’ imponente opera di civilizzazione che aveva modellato e reso funzionale il territorio nel mondo antico. Oggi, peraltro, la ricerca storica è in grado di mostrarci anche tracce più profonde e nascoste dell’opera di manipolazione dell’habitat italico portata a termine in età classica. Si pensi, a tal proposito, alla costruzione di briglie e serre realizzate dai romani nell’Umbria meridionale per contenere i processi erosivi di alcuni fiumi. In taluni casi siamo di fonte a opere che sorprendono non solo per la loro imponenza, ma anche per la loro superstite funzionalità. E’ questo il caso, ad esempio, dell’opera, rinvenuta, sempre in Umbria, a Lugnano in Teverina : una “superba briglia in opera poligonale che si segnala non solo per l’interesse strettamente archeologico, ma anche per l’ottimo stato di conservazione, al punto… di consentirne seppure parzialmente il perdurare delle originali attività”

Un territorio dunque in cui la natura è stata ampiamente rimodellata e disseminata di tracce viventi e operanti delle opere dell’uomo. Un habitat originario trasformato in manufatto e dotato di molteplici lingue in grado di raccontare vicende e processi a chi avesse saputo ascoltarle. Un deposito di testimonianze che verosimilmente avrebbe dovuto dar luogo a un culto delle memorie territoriali in grado di alimentare e rendere diffusamente popolare la ricerca archeologica in Italia e, naturalmente, la storia del territorio.

E’ pur vero, ed è largamente noto, che l’impronta romana non si è limitata al solo territorio della Penisola, ma ha marcato anche, in vario modo e misura, l’intero territorio dell’Europa. Come ricordava anni fa Clifford T. Smith:

“E’ paradossale che le città romane abbiano lasciato un’impronta così profonda sulla geografia dell’Europa moderna, nonostante la vulnerabilità dell’economia e delle istituzioni urbane di fronte all’instabilità e al declino che seguirono al crollo dell’Impero. Difatti le tracce delle strutture urbane introdotte dai romani sono di gran lunga più evidenti della influenza delll’agricoltura romana sui sistemi di campi e sull’habitat rurale. Molte delle principali città dell’Europa occidentale hanno nomi di origine classica: in alcune la moderna configurazione urbanistica ha potuto seguire il tracciato di fortificazioni romane o la fondamentale ossatura del cardo maximus e del decumanus maximus; infine, nelle aree mediterranee più profondamente romanizzate, le moderne reti stradali spesso riproducono fedelmente una pianta romana”.

Ma l’Italia conserva caratteristiche più marcate e speciali di formazione storica del suo territorio. Intanto perché la disseminazione dei centri urbani e la loro capacità organizzatrice e plasmatrice dei rispettivi contadi probabilmente non ha comparazioni possibili con il resto dello spazio europeo. Come ricordava Cattaneo, nel noto saggio sulla Città considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858), l’ incidenza della vita urbana sul territorio della Penisola costituisce un elemento di profonda originalità del suo processo di formazione storica. Centri propulsivi di vita economica, di commerci, di controllo politico e di elaborazione culturale, le città italiane hanno irradiato per tutta l’era volgare la loro potente azione modificatrice e organizzatrice sulle campagne con una ampiezza senza precedenti e senza pari in altre regioni dell’Occidente.

D’altro canto, una altro elemento di originalità e di distinzione andrebbe rammentato. Già dalla tarda età moderna, il territorio della Penisola mostrava e vantava un lato, per così dire, spiccatamente estetico, che lo differenziava nettamente dagli altri quadri geografici nazionali. Le bellezze naturali e simboliche di tanti siti, talune forme particolarmente suggestive del paesaggio agrario, le tracce monumentali delle grandi civilizzazioni antiche, e la disseminazione di opere d’arte al suo interno ne facevano un habitat del tutto particolare, in cui il calco del passato, la manipolazione umana si esprimeva nelle forme sontuose e uniche delle bellezza artistica. Ciò, com’è noto, era apertamente riconosciuto dalle élites intellettuali europee, tanto è vero che avevano eletto l’Italia a mèta privilegiata del grand tour. Ma almeno dalla fine del XVIII secolo faceva ormai anche parte dell’orgogliosa retorica degli illuministi italiani:

“Questo paese – ricordava Giuseppe Maria Galanti nel 1782 – che forma la più bella regione d’Europa, per la fertilità del suo suolo, e per la ricca varietà delle sue naturali produzioni, è parimenti sopra tutte le altre nazioni pregevole, per gli monumenti delle sue antichità e per li capi di opere d’arte in tutti i generi che racchiude nel suo seno”.

2. Una rimozione di lunga durata.

E tale aspetto basterebbe già di per sé a rendere clamoroso il carattere divaricato della cultura nazionale da una peculiarità di percorso storico materiale che non ha eguali nell’Europa moderna. Un territorio unico per profondità e ampiezza di manipolazione antropica e di modellazione artistica non ha sedimentitato nessuna apprezzabile peculiarità culturale fra le popolazioni e i ceti colti che lo hanno abitato.

Ma c’è ancora un altro aspetto, non meno rilevante da considerare, che ancora una volta distingue la vicenda della Penisola e la contrassegna con un rilievo di originalità profonda, se non di unicità. Come ha ricordato Fernand Braudel, le regioni del Mediterraneo, e in particolare le terre di pianura, hanno conosciuto una forma di colonizzazione agricola diversa da quella realizzata dal lavoro secolare delle popolazioni e dei contadini del Nord Europa. In queste ultime regioni le terre nuove sono state prevalentemente guadagnate all’agricoltura attraverso vasti e ripetuti diboscamenti, mentre nel Sud del Vecchio Continente è stata la bonifica, il prosciugamento degli acquitrini, l’inalveamento di fiumi e torrenti la via maestra per estendere le coltivazioni. Una diversità di strategie che probabilmente è il risultato di una sconnessione temporale profonda ancora oggi poco percepita dagli storici: nel bacino del Mediterraneo il diboscamento era stato già vastamente realizzato nel mondo antico, quando il Nord dell’Europa era ancora coperto dalle sue foreste originarie. E l’opera di bonifica delle terre di bassura è stata probabilmente, almeno in larga parte, una risposta necessaria delle popolazioni agli imponenti processi di erosione delle terre - conseguenza della stessa deforestazione - che già in età classica avevano preso a manifestarsi.

Resta pur sempre vero, tuttavia, che la Penisola italica è stata, per oltre un paio di millenni, il cuore della bonifica mediterranea. Nel suo territorio agricoltura e insediamenti, vale a dire attività produttive e fondazioni di aggregati demografici, sono stati resi possibili da processi più o meno ampi e profondi di trasformazione e di riassetto degli habitat originari. Per lo meno nelle aree di pianura e nel fondo delle valli un preliminare costrutto territoriale li ha preceduti o accompagnati – similmente, ma in maniera del tutto specifica e particolare – a quanto era avvenuto in Olanda. Un processo millennario rintracciabile perfino nelle terre dove l’opera dell’uomo può apparire meno visibile e i processi spontanei della natura piu marcati e dominanti:

“In effetti – ha scritto in proposito Lucio Gambi – la fascia litorale che chiude ad oriente la pianura padana su di un fronte di 220 km, è l’area ove le modificazioni della topografia originale sono state, da un paio di migliaia di anni in qua, le più imponenti, ampliandosi pure a lato delle grondaie del Po e dell’Adige, fino a più di 150 km dal mare. Queste modificazioni però non sono state opera della natura; o per meglio dire la natura ha fornito solo il materiale ( cioè le ghiaie, le arene, le argille e gli sfasciumi di ogni genere portati giù dai fiumi) che era indispensabile a compierle.Ma la più o meno disciplinata sedimentazione di quel materiale, così come la conservazione in alcune zone dei vasi lagunari, il corso dei fiumi e il profilo della costa come ora ci appaiono – in una parola la configurazione odierna della bassa pianura romagnola, polesana, veneziana e friulana – furono la conseguenza di disegni e iniziative umane”.

D’altro canto, non è senza significato – ed anzi costituisce forse il dato più cospicuo dell’originalità del caso italiano – il fatto che la vasta opera di bonificazione avviata in Italia in età contemporanea abbia dovuto in ogni ambito regionale e locale assumere un carattere di continuazione storica. Come ho più volte sottolineato, la vasta letteratura tecnica e ingegneristica che tra XIX e XX secolo ha affrontato problemi locali di bonificazione si presenta quasi sempre, in via preliminare, come una progettazione che fa i conti con le opere o con le tracce degli interventi operati nei decenni e più spesso nei secoli precedenti. Sia le varie società antiche ( quella magnogreca, quella etrusca e quella romana ) sia i poteri dell’età medievale e moderna ( monaci benedettini, Stati regionali, ecc) si sono impegnati diuturnamente e con vari esiti in un’opera di rimodellamento territoriale che lo Stato unitario ha poi ripreso con più ampia visione di insieme. Ed è riprova di eloquente significato il fatto che allorquando la geografia si è voluta misurare con serietà e profondità di analisi di episodi significativi della bonifica italiana, abbia dovuto collocarli all’interno di una vasta e articolata prospettiva storica.

Infine un altro, ulteriore, elemento di originalità, se non di unicità, ha marcato profondamente il territorio italiano, rispetto al resto degli Stati nazionali, un funesto filo rosso che oggi potremmo definire la prima questione ambientale europea. Mi riferisco, ovviamente, alla malaria. Endemia secolare legata alle condizioni dell’habitat, certamente presente in altre aree del Sud del Vecchio Continente, ma che in Italia ha costituito, sino all’età contemporanea, uno degli elementi più gravemente condizionanti l’abitabilità di estese regioni, la salute umana, l’attività produttiva, le stesse dinamiche demografiche.

Ebbene, questo insieme di caratteri originali non sono riusciti a imprimere nella cultura nazionale alcun tratto di peculiarità, né di distinzione. In essa non si sono riflessi, non hanno trovato accoglienza e rielaborazione i dati di una condizione materiale e ambientale che così a lungo hanno distinto il nostro Paese da altri ambiti continentali. Al contrario, la rimozione dei dati profondi della vita materiale e ambientale della Penisola ha costituito il lato distintivo della cultura nazionale in età contemporanea. Naturalmente una affermazione così impegnativa si può sostenere in questa sede solo per accenni ed indizi. Ma si tratta di accenni ed indizi di grande significato. Si pensi alla nessuna fortuna culturale, per tutto il corso dell’età contemporanea, di un autore come Carlo Cattaneo, portatore di una lettura della realtà e della storia italiana così profondamente legata ai dati della vita materiale, al lavoro, ai caratteri del territorio, alle economie locali, alle risorse naturali. Soprattuto nel corso del XX secolo le culture egemoni sono state quelle filosofico-letterarie e le ideologie politiche. Culture ovviamente importanti, che ci hanno collegato alla restante storia d’Europa e del mondo, ma che hanno come cancellato dallo scenario nazionale le culture tecniche, i saperi alti e anche popolari che stanno alla base della nostra vita collettiva. Gli effettivi costruttori di storia, coloro che hanno elaborato saperi e competenze per modificare la realtà materiale sono stati ricacciati nel fondo dello scenario della cultura italiana: a quasi esclusivo vantaggio dei detentori del potere o delle culture dotate di un linguaggio potentemente comunicativo.

Assai significativamente oggi il lettore italiano, nei dizionari e nelle enciclopedie, trova con facilità notizie e informazioni sulla vita e sui libri di Adolfo Omodeo, apprezzato storico del nostro Risorgimento. Vanamente cercherà non solo notizie, ma persino il nome di Angelo Omodeo, ingegnere lombardo, che non ha lasciato molti scritti, ma è autore di opere imponenti di trasformazione del territorio italiano e di diversi paesi del mondo. Angelo Omodeo è infatti il realizzatore dei tre grandi laghi artificiali della Sila calabrese – un’opera che ha portato la luce elettrica nella casa di milioni di persone del Sud d’Italia – il costruttore del lago Tirso in Sardegna ( il più esteso nell’Europa del suo tempo), un acuto teorico delle bonifiche italiane negli anni ’20 e ’30, l’ideatore di numerose opere di grandi dimensioni in Scozia, in Francia, in Spagna, in Egitto, in URSS, nel Messico.

Chi scrive ha dovuto constatare la quasi nulla popolarità, in Italia, della storia ambientale di Venezia. Quella che è oggi una delle più belle città del mondo è giunta fino a noi per un miracolo di sopravvivenza realizzato dallo sforzo secolare dei suoi governanti e dei suoi cittadini: grazie al controllo, da essi genialmente messo in opera, delle acque lagunari e delle dinamiche territoriali contermini. Eppure una tale vicenda non è mai uscita da una cerchia ristretta di competenti, mai si è trasformata in comune sapere nazionale. Soprattutto non si è trasformato in mito popolare, mancanza che ancor più profondamente denuncia il radicale disancoramento della cultura nazionale dalla vicenda del suo territorio.

D’altro canto, forse la prova più clamorosa del distacco della cultura italiana dai dati originali del proprio habitat è impressa nel carattere marginale e nei limiti conoscitivi che hanno cosi a lungo condizionato la scienza geografica nel nostro Paese. “Regione depressa” ebbe a definirla nel 1962 uno dei nostri maggiori geografi. Una disciplina che prima di ogni altro sapere avrebbe dovuto connotarsi - in Italia, più originalmente che in ogni altro Paese del mondo - come una geografia storica. E che invece a lungo ha incarnato, prevalentemente, un sapere meramente descrittivo. Non è un caso se in Italia non si è mai fatto quel “matrimonio” - come ebbe a notare anni fa Carlo Ginzburg – fra storia e geografia, che ha fatto l’originalità e la grandezza della storiografia francese nel XX secolo. E a testimoniare della distanza fra queste due culture nazionali concorrono anche piccoli segni che talora passano inosservati. Ho sempre considerato, ad esempio, un sintomo di grande significato il fatto che l’opera maggiore di Braudel - nell’originale francese La Mediterranée e le Monde mediterranéen à l’époque de Philippe II (1949)- sia stata tradotta in Italia, da Einaudi, col titolo, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. Di certo avrà fatto orrore agli storici italiani che hanno presieduto all’edizione intitolare un libro di storia a un soggetto geografico, il mare, e fosse pure il Mediterraneo!

Si diceva, dunque, di nozze mancate. E occorre essere onesti: mancate, non solo per la “volontà recalcitrante” della geografia, ma anche per responsabilità della storia. Le discipline scientifiche di una Nazione non sono che rami di uno stesso albero. E l’albero della cultura italiana, per tutta l’età contemporanea – forse per il carattere prevalentemente castale e separato dei suoi gruppi intellettuali - è stato singolarmente distante dalla terra su cui è venuto crescendo.

3. Una felice stagione.

Le sparse osservazioni fin qui allineate dovrebbero credo fornire almeno qualche indizio su quanto in Italia, contrariamente a quel che chiedevano i suoi caratteri originali e tutto il suo passato, sia mancata una cultura del territorio e della sua storia. Certo, com’è noto, almeno a partire dagli anni ’70, finalmente anche da noi inizia una felice ma breve stagione storiografica. Per quasi un ventennio, in vario modo, la vicenda di lungo o di medio periodo del territorio nazionale entra nel cerchio magico dell’attenzione degli storici e degli urbanisti. Non è certo questa la sede per una rassegna storiografica, che pure sarebbe utile a sostegno delle mie argomentazioni. E tuttavia, pur nella consapevole parzialità e limitatezza dei rimandi bibliografici, credo che alcuni elementi di riflessione possano essere utilmente proposti.

Non credo che costituisca una forzatura affermare che la storia del territorio viene avviata in Italia, molto indirettamente, come storia del paesaggio agrario. Il testo di Emilio Sereni, del 1961, frutto – com’è noto – della feconda frequentazione dell’opera di Marc Bloch, avvia una tradizione di studi a lungo rimasta senza seguito. Esso, tuttavia, ha di mira non certo la ricostruzione delle strutture del territorio strettamente inteso, quanto, più precisamente, per dirlo con le stesse parole di Sereni, la storia di “quella forma che l’uomo nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale”.

Il territorio che Sereni ci consegna nel suo vasto affresco plurisecolare è in realtà la storia del suolo agricolo molecolarmente plasmato e modellato dal lavoro contadino, dalle tecniche di coltivazione, dalle forme delle piantagioni, dai modelli di impresa, dalle dimensioni della proprietà, dai rapporti di produzione fra le varie figure gravanti sulla terra. L’ambito di trasformazioni di cui ci ha dato conto, prima di altri, questo grande studioso è in realtà solo un geniale capitolo della storia dell’agricoltura italiana. E’ una vicenda che germina dalla cultura storiografica annalistica di metà ‘900 e dal contesto originale dell’Italia della seconda metà di quel secolo. Com’è noto, in quegli anni l’agricoltura e il mondo contadino sono al centro degli interessi della vita nazionale. Le grandi lotte contadine nelle aree latifondistiche del Sud, le vertenze nazionali dei mezzadri, i conflitti bracciantili nelle aziende capitalistiche padane, la riforma agraria del 1950, sono eventi che fanno epoca nella storia del Paese e che lasceranno una impronta politica e culturale profonda, destinata a ispirare le ricerche di più generazioni di studiosi e a fare della storia agraria italiana un capitolo senza dubbio importante della storiografia europea contemporanea.

Naturalmente lo studio dell’organizzazione degli spazi, e dei moduli degli insediamenti al loro interno hanno ricevuto un’attenzione speciale, che forse mai avevano conosciuto in passato. Tuttavia, credo di poter affermare, anche la ricerca che meno indirettamente si è occupata della vicenda del territorio e delle sue trasformazioni, vale a dire la storia delle bonifiche, non è che un capitolo della storia agraria, curvato sul versante della condizione del suolo e delle sue dinamiche. Benché in alcuni casi l’ispirazione di fondo sia venuta da altre domande disciplinari. E così può largamente dirsi, con qualche eccezione, per la storia delle acque e dell’irrigazione.

Certo, l’origine per così dire “agrarista” di tali studi non toglie ad essi valore conoscitivo, né sminuisce l’originalità del loro contributo. Allo stesso modo la storia delle città, che prende un significativo avvio in Italia negli anni ’70, può salutarsi finalmente come un particolare e senza dubbio fra i più originali filoni di storia del territorio italiano. Un episodio culturale in cui, almeno per una volta, alcune “scienze del territorio”, in questo caso il sapere degli urbanisti, ha ispirato e contagiato gli storici, o ha fatto, esso stesso, direttamente storia. Anche se non si può dimenticare che, tranne qualche singola opera, la ricostruzione ha prevalentemente mirato alla storia dei manufatti cittadini e della loro manipolazione nel tempo, quando non è diventata storia economica e sociale dei ceti urbani.

Non andrebbe peraltro dimenticato, in questo fuggevole quadro, il contributo che gli storici, spesso partendo da intenzionalità di storia agraria, o di storia sociale latu senso, hanno dato all’esplorazione del territorio attraverso la ricostruzione del sistema viario e delle comunicazioni.

Bisogna in effetti riconoscere, che la nostra conoscenza della Penisola è uscita notevolmente arricchita da quella straordinaria fioritura storiografica, che occupa la seconda metà del XX secolo. Una fioritura della ricerca europea, che ha visto in posizione egemone la storia sociale, e in cui l’Italia ha avuto un ruolo non marginale.

Tuttavia non si può fare a meno di rammentare il carattere prevalentemente indiretto, il modo talora, per così dire, casuale, con cui gli studiosi sono pervenuti a “scoprire” il territorio e la sua lunga stratificazione storica. Non c’è dubbio mi pare, che nell’esplosione di specializzazioni storiografiche verificatesi tra gli anni ’70 e ’90 del Novecento - storia del paesaggio, dell’agricoltura, della famiglia, della città, dell’alimentazione, della salute, ecc – significativamente non si schiude un ambito specifico per la storia del territorio. Non è mai nato un settore particolare di ricerche che studiasse, nella loro complessità e nelle loro connessioni, l’organizzazione degli spazi, la natura dei suoli, il carattere degli habitat, le trasformazioni antropiche, gli insediamenti, le connessioni infrastrutturali, economiche, sociali e le loro invisibili gerarchie, ecc. Un nuovo racconto pluridisciplinare che avrebbe potuto coinvolgere ingegneri e storici, geografi e urbanisti, demografi e architetti, agronomi e archeologi.

Ma la breve stagione è ormai tramontata. Benché occorrerebbe precisare che in quella fase il territorio è stato popolare per storici, urbanisti, geografi: cioè, pur sempre, per una ristretta cerchia di specialisti. Quanto di quegli studi sia diventato cultura corrente degli italiani costituisce una realtà che ci sfugge e che è assai difficile da stabilire. Quel che si può impressionisticamente constatare oggi è che quella temperie culturale si è come dissolta. Per lo meno a livello di grandi media, soprattutto la TV, la storia – anzi la “grande storia” come pomposamente viene talora reclamizzata – pare definitivamente ritornata ai corrivi fasti della vulgata événementielle. Fascismo, nazismo, leader e lotte politiche del dopoguerra e tutto quanto appare raccontabile in immagini filmiche è il solo passato storico in cui possono rispecchiarsi gli italiani. Sembra l’unico sapere del nostro passato oggi compatibile con la “società dello spettacolo”.

D’altro canto, tornando al versante disciplinare, è anche giusto sottolineare che oggi non appare più proponibile il “vecchio racconto” di un tempo. Una storia del territorio oggi è moneta fuori corso. Se è vero, infatti, che una delle categorie chiavi con cui si è fatta una certa storia del territorio in Italia – quella di paesaggio – oggi è diventata di assai difficile uso, non diversamente si è ormai costretti a dire del termine territorio. E in questo caso non tanto per l’uso polisemico e le volgarizzazioni che esso ha subito, negli ultimi anni, ad opera del linguaggio pubblico corrente. Quanto soprattutto perché oggi tale nozione, alla luce delle scienze dell’ambiente, appare in tutta la sua nuda neutralità e unilateralità semantica. E’ una categoria del vecchio vocabolario geografico. Come si può ormai fare storia del territorio dimenticando che esso, in ogni sua manifestazione, é intessuto di vita biologica, ricco o povero di risorse naturali, condizionato dal clima, contrassegnato da biodiversità, soggetto a proprie leggi di trasformazione su cui gli uomini pongono il loro calco? Il territorio, nel frattempo, è diventato ambiente ed esso richiede oggi, per essere indagato e storicamente ricostruito, una nuova e più complessa strumentazione culturale e concettuale.

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