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Nadia Urbinati
Su democrazia e populismo: controreplica a McCormick, Del Savio e Mameli
6 Dicembre 2014
Democrazia
Una puntuale risposta ai critici di un articolo della politologa. Il dibattito sulle forme e sulla sostanza della democrazia nell'età del dominio del danaro e della mascheratura populistica.
Una puntuale risposta ai critici di un articolo della politologa. Il dibattito sulle forme e sulla sostanza della democrazia nell'età del dominio del danaro e della mascheratura populistica.

Micromega, 2 dicembre 2014
La democrazia ha dei fondamenti individualistici e procedurali che il populismo non riesce a rispettare e anzi manomette nel profondo. Ma l’errore dei critici del proceduralismo democratico è soprattutto di renderlo corresponsabile di quelle ingiustizie sociali ed economiche che invece sono generate nelle nostre società contemporanee dal dominio incontrastato del capitalismo finanziario.

Rispondo brevemente alla replica dei miei critici ringraziandoli di aver discusso le mie idee con la stessa sincera radicalità con la quale ho discusso e discuto le loro. Non entrerò nel merito delle varie critiche per non scrivere un trattato. Mi limiterò ad avanzare alcune risposte circa il metodo o l’approccio che ci divide. Per esempio, ci sarebbe da discutere molto puntualmente la lettura proposta da Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli della democrazia, delle procedure, del rapporto costituzione/politica, e società/stato. Ci sarebbe anche da discutere – e fortemente dissentire – sulla concezione davvero problematica di rappresentanza che i miei due interlocutori propongono, una visione arcaica e anche, se mi è consentito, poco attenta e con evidenti imprecisioni. Ma, appunto, preferisco rispettare le condizioni che mi sono data: ovvero discussione sul metodo.

Comincerò dalle osservazioni di John McCormick, che questa volta pertengono direttamente al mio libro sulla Democrazia sfigurata, con l’accusa di essere un lavoro polemico nello stile e nelle argomentazioni, e perfino poco magnanimo con gli autori che discute e critica. Devo confessare che non capisco questa critica, per due ragioni almeno. Prima di tutto poiché la critica di essere polemica mi è rivolta da un maestro di polemica: ricordo a questo proposito l’articolo di McCormick “Machiavelli and Republicanism” uscito sulla rivista Political Theory nel 2003, costruito interamente intorno e a partire dalla polemica contro la Cambridge School (sulla cui raffigurazione i membri di quella scuola non si sono probabilmente riconosciuti). In sintonia con quell’approccio contro-argomentativo (che egli chiama polemico) McCormick ha costruito la sua visione del repubblicanesimo di Machiavelli e di quello romano. Dunque, il maestro dovrebbe essere più comprensivo con l’allieva!

In secondo luogo, non mi è chiaro perché egli identifica la critica delle idee con la polemica. Nei mei capitoli critici non inveisco contro alcuno, né offendo nessuno. Isolo invece alcune idee e poi cerco di mostrare perché sono in tensione o in contraddizione con i principi democratici; mostro che esiste una pluralità di interpretazioni della democrazia che rendono le classiche definizioni, per esempio quella solo deliberativa o quella solo schumpeteriana, non soddisfacenti. Mettere in evidenza la pluralità delle interpretazioni e mostrare come le proposte epistemiche, o quelle populiste o quelle plebiscitarie non siano malattie, ma forme della democrazia, sue possibili espressioni facciali, se così si può dire: questo è quel che cerco di fare.

Ovviamente restringere in un capitolo la critica di una corrente di pensiero porta con se il rischio di semplificazione; ma è un rischio che si può e a mio parere si deve correre. Per esempio, per sviluppare l’analisi critica delle teorie epistemiche (che non sono qui un oggetto di discussione ma vorrei menzionare) mi concentro su uno o al massimo due autori distillando dai loro scritti principali il nucleo della teoria stessa che è il seguente: le teorie procedurali puramente politiche falliscono nel giustificare il dovere morale di obbedire alle decisioni collettive perché questo dovere può derivare solo dall’assunto che i risultati politici corrispondono a uno standard oggettivo di “verità”. Se la procedura non è orientata a produrre risultati veri non riesce a essere legittimata, anche se la decisione che genera è formalmente legittima. La parola “verità” è al centro della mia obiezione, che intende sostenere la specificità della deliberazione politica (che al massimo genera verosimiglianza, ma non verità) e la ragione per la quale la democrazia ha bisogno di un’arena pubblica nella quale ciascun cittadino si senta libero di partecipare e tratti gli altri come eguali, e nella quale la sorgente delle opinioni e delle informazioni può portare i partecipanti tutti a cambiare idea e a farlo senza interruzione. La libertà è allora il motore di questo meccanismo, non la ricerca della verità. Questa critica non mi pare oltraggiosa o ingenerosa.

La politica, come la discussione pubblica, presume un modello di razionalità che è endogeneamente discorsivo e per questo bisognoso di essere aperto alla diversità non solo come punto di partenza (come pensano gli epistemici) ma anche come punto di arrivo: ci sono differenze di visioni o interessi o di valori che non verranno mai risolti in una unica soluzione. La libertà e il pluralismo sono endogeni, fondamentali. Lo stesso argomento che vale per la democrazia vale per la rappresentanza politica la quale, come anche ha dimostrato Bernard Manin, non può esistere senza una comunicazione aperta e pubblica tra cittadini e istituzioni.

Questa è la figura della democrazia come diarchia alla quale mi riferisco cercando di integrare la concezione procedurale e la concezione deliberativa. Quindi, la valutazione delle procedure democratiche deve essere fatta badando a considerare che cosa esse promettono: non promettono soluzioni vere o corrette ma soluzioni che tengono aperta sempre la possibilità di cambiare, e quindi di rinnovare il dibattito e le maggioranze. Democrazia include il dissenso come sua condizione (il principio di maggioranza presuppone l’opposizione), e questo contraddice la visione epistemica e anche, a mio modo di vedere, la visione populista.

Se il populismo al potere è capace di tener fede a questi criteri di pluralismo e dissenso, allora esso accetta i fondamenti della democrazia rappresentativa, e quindi non è niente altro che una forma più intensa di maggioranza (una larga maggioranza tanto da essere a volte quasi consensuale). Ma allora, come isoliamo il populismo da altre visioni di democrazia? Che cosa esso ha di specifico che ce lo fa riconoscere rispetto a una maggioranza più intensa (un aspetto del libro che non viene discusso per nulla dai miei critici e che a mio modo di vedere è invece un tema molto importante)? Che cos’altro esso è, se non magari un’uscita dai fondamenti individualistici della democrazia costituzionale? E questo mi sembra che i suoi sostenitori vogliono che sia. Ma se così è, allora il populismo ha l’ambizione di creare il governo della maggioranza – questa è la sua vocazione. E qui può essere situata, come a me sembra, l’origine dei suoi problemi rispetto ai diritti e al pluralismo.

McCormick, come Del Savio e Mameli, mi accusa di non riconoscere che il populismo ha avuto diverse coniugazioni. E questo è davvero ingeneroso! Poiché dedico diverse pagine a distinguere tra forme d’essere dei movimenti (popolare e populista non sono la stessa cosa) e poi a riconoscere come il populismo abbia avuto diverse storie in diversi contesti (il caso degli Stati Uniti, per esempio). Più attenzione alla lettura e meno animosità sarebbe stata auspicabile. Di fatto, i miei critici trasformano le mie idee in polemica per poterle controbattere meglio.

Comunque, del populismo m’interessa vedere i problemi, non le cose che sono andate bene (come mi invita a fare invece McCormick). Perché è dalle cose andate male che possiamo meglio vedere gli attriti del populismo con la democrazia costituzionale. Scrive McCormick: “Urbinati è preoccupata dall’inesistenza di meccanismi di accountability iscritti nella logica del populismo, e dunque dalla possibilità che i molti – o più verosimilmente i loro demagoghi – possano usare appelli alla legittimità esistenziale del ‘popolo’ in modo da giustificare l’abrogazione delle norme democratiche e costituzionali. Ma questa preoccupazione è eccessivamente allarmista”. E perché sarebbe “eccessivamente allarmista”? E poi, che cosa vuol dire “eccessivamente”? Quale è il limite dell’allarme affinché di essi ci si debba preoccupare? Ci sono esperienze storiche effettive che devono far pensare alle contraddizioni messe in moto dai movimenti populisti quando diventano forze di governo. Non si tratta dunque di allarmismo (eccessivo o blando) ma di contraddizioni rispetto alla democrazia nella sua complessità, che non è solo regola di maggioranza, ma principio che regola, accetta e rispetta l’opposizione perché il suo fondamento è il rispetto della volontà e dell’opinione del cittadino singolo, non della massa.

Un esempio? La Lega Nord di Salvini: questo è un movimento populista che ha tutti i tratti della democrazia antiliberale. E che dire del movimento che in Ungheria ha conquistato la maggioranza e cambiato la costituzione per darle un carattere maggioritarista (ha McCormick mai letto la nuova costituzione ungherese?). Questi movimenti dimostrano l’esistenza di una interpretazione anti-individualista dei diritti e delle garanzie nel senso che essi interpretano diritti e garanzie come possessi della grande maggioranza, non degli individui (e quindi di chi non ha il potere del numero) perché interpretano la democrazia come il volere del popolo maggioritario, senza possibilmente intralci di diritti e contrappesi. In questa interpretazione, la massa è l’attore, non le sue componenti individuali, non i cittadini appunto (è questa la ragione della mia insistenza sulla dimensione isonomica della democrazia, che la forma rappresentativa non cambia o sovverte).

Ora: è vero che molto spesso, e soprattutto oggi, i movimenti populisti sono il segno di un malessere sociale ed economico. I sistemi liberali sono stati sepolti dai fascismi anche a causa di radicali crisi economiche che hanno impoverito larghe fasce di popolazione. Oggi siamo di nuovo in una situazione di grande sofferenza di molti. È di questa enorme diseguaglianza economica che le democrazie devono preoccuparsi. La politica populista è un segno di questa debolezza, ma dubito fortemente che possa essere la soluzione. Non lo è in Ungheria, non lo è stata in Venezuela. E non credo che la Lega Nord o il partito di Le Pen siano la soluzione che può salvarci dall’ingiustizia economica e sociale. Certo, ci sono anche populismi ‘buoni’ – vi prego di dirmi quali sono e ne discutiamo. In Europa, una democrazia che mette la massa o la nazione o il popolo tutto prima delle sue componenti è un problema, non ci ha mai dato soluzioni buone.

Se ci interessa, come interessa a miei interlocutori e a me, parlare della mutazione antiegualitaria delle società democratiche, dobbiamo portare il discorso oltre la politica e le sue procedure. Dobbiamo evitare di dare alla democrazia responsabilità che sono del sistema economico di capitalismo globale. Il populismo di oggi è il riflesso della debolezza degli stati nazionali, che non hanno più il potere di ordinare, di contrattare, di costruire piani industriali o piani energetici, che non riescono a fare politiche di redistribuzione e di giustizia sociale perché i loro esecutivi e i loro parlamenti sono stretti sotto il ricatto degli interessi bancari. Potremmo dire che le tensioni sociali che crescono ogni giorno sono il segno del compromesso che si è rotto tra lavoro e capitale, un compromesso che, dopo la Seconda guerra mondiale, ha accompagnato la nascita delle democrazie europee. All’interno di quel contesto, quello degli stati nazionali, capitale e lavoro erano due attori sociali ben organizzati e protagonisti di una trattativa non a perdere, non a somma zero.

La fine della Guerra Fredda, che comunque imponeva dei confini al mondo, ha cambiato il volto alle nostre società. Finché sulla mappa c’erano quei confini, all’interno del nostro mondo era possibile da parte di chi lavorava fare richieste e riuscire a ottenere risposte. Non essendo un mondo globalmente aperto, non era possibile accedere alle forze lavoro a costo zero del quarto o del quinto mondo per accumulare più profitti. Quei confini – per coloro che stavano dentro il primo mondo, dove era rinata la democrazia – hanno creato benessere, hanno reso possibile il controllo e l’esercizio del potere democratico, e l’equilibrio tra le classi. Il mondo aperto è un mondo maledetto per chi non ha potere. Un mondo senza confini ha serie difficoltà ad essere governato con l’arma del diritto e a coltivate l’eguaglianza su cui riposa la democrazia. Un mondo senza confini è una buona cosa per chi ha potere economico. È pessima per chi quel potere non ce l’ha. Ad esempio, per quella fascia di popolazione che si trova a competere con altri lavoratori, come quelli cinesi o del sud-est asiatico o africani, i quali potere non ne hanno, e nemmeno diritti sociali e sindacali, e che fanno concorrenza al lavoro occidentale protetto da diritti.

Qui sta il nocciolo del problema che i movimenti populisti mettono in luce, ma risolvono nel modo peggiore possibile quando puntano il dito accusatore contro gli immigrati, e propongono di togliere i diritti a chi non è parte della comunità di identici. Quando ridefiniscono gli spazi della politica in un modo tutto identitario: il pianerottolo davanti casa loro, la vita nel quartiere, nella regione, nella nazione. E allora, il diverso (chi parla un’altra lingua, chi ha una religione di minoranza, chi parla un dialetto non identico) diventa il nemico. E intanto chi ha il potere di manovrare le decisioni resta nell’ombra, lontano e invisibile.

Per molti populisti nostrani, il nemico è il vicino di casa, l’immigrato, il musulmano, il rom. Il populismo diventa quindi l’uso dell’ideologia del popolo da parte di una leadership determinata, che nel nome di quell’ideologia giustifica politiche di esclusione e autoritarie. Un’oligarchia di pochi, insomma, che cerca l’appoggio di una larga maggioranza, e spesso lo trova, quando questa maggioranza è fatta di cittadini di una nazione che soffrono una decurtazione dei diritti e del benessere. Certo, è un appoggio che si guadagna anche facendo cose lodevoli: Peron ha creato la classe media argentina, ha costruito una forte classe di dipendenti statali, ha creato per loro condizioni materiali di vita dignitose, ha dato loro le scuole … il tutto, a spese di tante altre cose, a partire dalla libertà politica, dalla divisione dei poteri, dal governo della legge … Insomma, il populismo può certamente essere un “grido di dolore”, come scrive McCormick, ma raramente può essere una cura buona a quel dolore.

Se si pensa che la diseguaglianza economica sia il problema, allora occorre andare oltre le proposte procedurali. Torniamo a parlare di lotta di classe: questo mi sembra più pertinente delle proposte molto problematiche come la costruzione per legge di due classi, quella dei pochi e quella dei molti (e quanti gradini sono ammessi tra i molti? E perché la soglia del reddito proposta da McCormick per discriminare pochi e molti dovrebbe essere accettata per buona?). Queste politiche “romane” o massificanti sono problematiche, non meno discrezionali di quelle esistenti e classiste perché introducono altri piani di discrezionalità che forse sono peggiori dei rimedi.

È quindi forviante portare sul terreno delle procedure un problema che è economico e di classe. Si pensa davvero che togliendo il libero mandato si porti giustizia nella società come pensano Del Savio e Mameli? Si pensa davvero che sostituendo il referendum e il plebiscito alle elezioni dei rappresentanti si risolva il problema del dominio del capitalismo finanziario sugli stati? La storia ci dà esempi contrari: alla democrazia plebiscitaria si sono rivolti proprio coloro che nel nome degli interessi del popolo o della nazione hanno tratto profitto per sostituirsi alla vecchia classe dirigente. La posizione di Del Savio e Mameli è oltre che lacunosa, ingenua. Ed è un’aporia. Infatti, da un lato mi accusano di voler usare le procedure per difendere lo status quo capitalistico (!!) e di proporre una democrazia non sostanziale ma formale e procedurale, dall’altro propongono di risolvere la diseguaglianza di classe con soluzioni che sono solo procedurali (Marx li criticherebbe di riformismo ingenuo). Insomma accusano me di difendere il capitalismo, perché difendo il mandato libero e poi, invece di andare con coraggio dove le loro premesse li potrebbero portare (cioè a Stato e rivoluzione di Lenin), propongono semplicemente di riscrivere l’Articolo 3 della Costituzione italiana!

Ma se davvero le procedure sono così di poco conto, se mi si accusa di difendere lo status quo perché sostengo che la democrazia vive nelle procedure, allora non si capisce perché i miei critici finiscano per proporre di riformare le procedure (appunto mandato imperativo e plebiscito). Ma, con buona pace della loro volontà riformatrice, io penso che dobbiamo preferire l’attuale dicitura dell’Articolo 3 della nostra Costituzione. La nuova dicitura è infatti cosi aperta all’interpretazione discrezionale da lasciare ai magistrati o alla maggioranza o alla forza un potere interpretativo esorbitante. Ecco il testo modificato del secondo comma dell’Articolo 3: “E’ dunque compito della Repubblica rimuovere quelle diseguaglianze economiche e sociali che interferiscono con l’eguale partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese…”. L’espressione “quelle diseguaglianze che interferiscono” è una porta spalancata alla discrezione – infatti chi lo decide quali sono “quelle” diseguaglianze che “interferiscono” con l’eguale partecipazione? Una costituzione dovrebbe consentire di risolvere i dissensi non di scatenarli: questa riscrittura sarebbe una iattura e la porta aperta alle ostilità, poiché in una democrazia nessuno ha in mano la bilancia politica per decidere senza ombra di dubbio “quali siano” quelle diseguaglianze che “interferiscono” sulla decisione volontaria di partecipare (o di non partecipare?). Alla riforma dell’Articolo 3 proposta dai nuovi populisti dovremmo preferire la dicitura di Lelio Basso, che non era un populista ma un proceduralista politico, per tanto molto attento alle condizioni della partecipazioni politica. Tra le quali, il denaro.

Secondo i miei lettori, quello del denaro privato in politica sarebbe solo un piccolo problema, anzi un non problema. Eppure, noi stiamo assistendo ad una trasformazione oligarchica della politica che si fa strada immettendo soldi privati: questo si ricava dalla privatizzazione dei partiti, dalla privatizzazione dei deputati eletti, dalla privatizzazione dei mezzi di informazione. Di fronte a questi scempio del pubblico e della politica democratica, i populisti non si scompongono: a loro interessa che si facciano più plebisciti e più referendum!

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