Internazionale, 31 agosto 2017, con postilla (i.b.)
Si è scritto molto sulla foto di Angelo Carconi che ritrae un poliziotto che accarezza una ragazza eritrea durante lo sgombero con gli idranti di piazza Indipendenza, a Roma. Lo sguardo tra i due ci parla di una relazione complicata (ambigua, coloniale, violenta) cominciata verso la fine del diciannovesimo secolo e mai terminata. Tracce di questa storia sono ancora presenti nel quartiere dove è avvenuto lo sgombero, tra piazza Indipendenza e la stazione Termini. Qui si sono intrecciate la storia delle prime migrazioni dal Corno d’Africa e la storia del colonialismo italiano.
Negli anni settanta del secolo scorso il Corno d’Africa era in fiamme. Si scappava dalle dittature. I somali scappavano da Siad Barre, gli etiopici-eritrei dal sanguinario Menghistu Hailè Mariàm. Le terre del corno si tingevano di sangue e l’Italia, di cui molti conoscevano già la cultura, fu considerata naturale terra d’approdo. L’Italia infatti – anche dopo la fine del colonialismo storico – ha avuto su quelle terre una forte influenza ideologica. Basti pensare che fino al 1974 le scuole in Somalia erano italiane, perché dire Italia era come dire Europa. E anche ad Asmara, in Eritrea, portare i figli alla scuola italiana era non solo prestigioso per le famiglie, ma anche una chiave d’ingresso (almeno molti lo speravano) assicurata per il futuro.
Gianni Morandi andava per la maggiore, ma anche Rita Pavone, Peppino di Capri, Mina e successivamente (ma erano già gli anni ottanta) i Ricchi e Poveri o Umberto Tozzi. Uno dei più famosi hotel di Mogadiscio, l’Uruba, per concludere le sue serate danzanti metteva su una serie di lenti e tutti sapevano che quando scattava Ciao di Pupo era l’ora di ritirarsi, il momento di rubare un bacio alla propria bella.
Il Corno d’Africa sognava l’Italia, la considerava la quintessenza della modernità, perché dopo la guerra molti (l’imperatore d’Etiopia per primo, grazie alla realpolitik) preferirono non rivangare quei cattivi ricordi di stragi, eccidi, uso di gas e andare avanti. Quindi basta con il generale Rodolfo Graziani e la sua violenza, meglio ballare sulle note di Adriano Celentano e dei suoi 24.000 mila baci.
Ma il passato se non lo rielabori ti arriva addosso come un boomerang. E se ne accorsero i primi emigranti somali ed eritrei che si trovavano negli anni settanta a passare proprio a piazza Indipendenza il tempo libero. Molte donne lavoravano come colf, ma c’era chi studiava, chi sperava in un futuro migliore. L’Italia non era quella terra del bello che avevano sognato. Niente Gianni Morandi o Adriano Celentano. Era un paese polveroso pieno di problemi, denso di pericoli (c’era il terrorismo) quasi quanto la terra d’origine. E non è un caso che fu proprio in quel momento che il passato coloniale riemerse con tutta la sua ferocia, con le sue idee di razza inferiore e razza superiore, con gli stereotipi di questi neri pigri, di queste nere da mangiare in un sol boccone (spopolavano allora i film sexy con l’eritrea Zeudy Araya). Fu in quel momento che il razzismo colpì con ferocia quei primi migranti.
Fu allora, esattamente nel 1979, che il somalo Ahmed Ali Giama fu bruciato vivo per scherzo da quattro ragazzi italiani annoiati sotto il portico di via della Pace. Il povero Ahmed era reo di essere povero ed essere nero. E lo stesso succederà negli anni ottanta, nel 1985 ad Udine, a Giacomo Valent, figlio di un italiano e di una somala, massacrato dai suoi compagni di scuola con 63 coltellate perché nero, benestante e di una famiglia cosmopolita. Si odiava il ricco come il povero se era nero.
Ed ecco che tutta la propaganda sul Corno d’Africa, sui perfidi abissini, di mussoliniana memoria, fece di nuovo capolino sia nelle chiacchiere in famiglia sia nei discorsi pubblici. C’era diffidenza verso questi migranti dalla pelle scura, verso i loro primi figli. Sguardi cattivi, non solo curiosi. E lì ci fu la delusione di molti somali e molti eritrei. Come racconta bene Garane Garane in un libro ormai mitico per gli studiosi postcoloniali, Il latte è buono, il protagonista del romanzo, Gashan, subisce al controllo passaporti il primo colpo:
«Il passaporto per cortesia…
Passaporto? Perché?, chiese Gashan con l’aria incredula.
Perché? Ma siamo in un altro paese. Ci saranno passaporti da voi? O mi sbaglio, disse con stizza il poliziotto.
Sono somalo. Non mi ha riconosciuto?»
Ecco quel “non mi ha riconosciuto” è il segno di una fratellanza mancata. Gashan sa tutto dell’Italia. Ha studiato l’italiano a scuola, ha mangiato i dolci italiani al Hazan vicino alla casa d’Italia dove il pasticcere è italiano, conosce la musica, conosce il cinema, sa cose dell’Italia che nemmeno l’Italia sa di se stessa. Gashan si sente tradito dall’ignoranza dell’Italia su di lui. E via via che il romanzo procede e capisce che nessuno lo conosce, né tantomeno conosce la Somalia, la sua delusione diventa sconcerto. Gashan si sente straniero proprio in quell’Italia che sentiva come casa. L’unico che lo riconosce è la statua di Giulio Cesare ai Fori imperiali, e solo a lui Gashan apre il cuore. Solo le tracce di marmo, solo le tracce nell’architettura conoscono ancora il suo nome. La fredda statua gli dà quell’asilo che l’Italia gli nega.
Lo stesso di fatto è successo con lo sgombero di via Curtatone. Lo sgombero sarebbe stato grave anche se si fosse trattato di romeni, nigeriani, maliani, bengalesi. Ma il fatto che si trattasse di eritrei lo ha reso più grave ai miei occhi. Se gli eritrei, che sono stati i primi a venire in questo paese, ancora si dibattono tra occupazioni e razzismo, come pensiamo di risolvere il problema di tutti gli altri? Vuol dire che c’è una dissociazione con la propria storia. Una volontà di vivere in perenne emergenza. E dire che basterebbe solo fare pochi passi da piazza Indipendenza verso la stazione Termini per capire quanto profonda sia questa relazione.
Piazza dei Cinquecento, Roma, 1950 circa |
Piazza dei Cinquecento, la piazza della stazione, è dedicata ai caduti italiani della battaglia di Dogali, una delle più grandi sconfitte militari che l’Italia abbia subìto in Africa insieme alla battaglia di Adua. Una sconfitta militare che costò caro all’Italia in termini di caduti e di consenso nel paese. Su Dogali gli italiani si divisero e molti si chiesero come mai proprio loro che si erano liberati da poco dal giogo coloniale austriaco ora volevano far subire la stessa sorte a degli africani che nemmeno conoscevano e con cui non c’era nessuna inimicizia.
Quei primi vagiti di colonialismo, voluto da politici e ufficiali (non dal popolo), furono fallimentari e ce lo illustra molto bene lo storico Angelo del Boca nel suo volume dedicato agli italiani in Africa Orientale. Del Boca in particolare spiega che a Dogali la battaglia fu una sconfitta perché gli ufficiali sottovalutarono di fatto il nemico, in quanto africano. Un ammasso di errori di strategia, di pressappochismo, di arroganza e di pensiero razzista portarono a un eccidio. Uno dei fatti che mi ha sempre colpito della battaglia in questione è che, all’interno di una cornice militare, tra eritrei-etiopici e italiani si siano consumate vendette private.
Certo potrei dirvi che la storia coloniale è stata rimossa e finirla qui. Ma il punto non è solo la rimozione (che c’è), ma anche la mancata rielaborazione di cosa stiamo stati insieme nel bene e nel male. Italia ed Eritrea, Italia e Somalia, Italia ed Etiopia, Italia e Libia non si sono mai guardati davvero in faccia e nelle relazioni (parlando dei potenti) c’è un ambiguo proseguimento di vecchi schemi. Una “fratellanza” sbandierata per poi poter fare affari con dittatori feroci (lo vediamo nella gestione della questione migranti con il generale libico Haftar) o per sversare rifiuti tossici in terre un tempo incontaminate. Elvira Frosini e Daniele Timpano nel loro spettacolo dedicato al colonialismo italiano Acqua di colonia dicono non a caso che “qualche affaruccio lo abbiamo combinato pure dopo”, cioè dopo il colonialismo, ed ecco elencati Enrico Mattei e Ilaria Alpi, gli affari sporchi che nel tempo hanno legato Italia e Africa. Come se questo maledetto colonialismo in verità non fosse mai finito.
C’è una mancata rielaborazione. Una mancata decolonizzazione. Un mancato guardarsi negli occhi e raccontarsi. Forse per questo quella foto mi ha colpito. Mi sono astratta e ho cercato di capire se prima o poi nel futuro ci sarà un vero riconoscimento reciproco. E guardando la donna, il suo pianto così dignitoso, ho pensato a un altro eritreo, Zerai Deres. Di lui circola una foto in rete: ha bei riccioli, baffetti ben curati. Una giacca elegante, uno sguardo fiero. Durante il fascismo, almeno secondo le fonti eritree-etiopiche, quest’uomo si rese protagonista di un atto d’insubordinazione contro il fascismo in pieno centro di Roma, zona stazione Termini, presso la stele di Dogali. Zerai Deres probabilmente era uno degli interpreti degli internati etiopici che per rappresaglia furono incarcerati dopo l’attentato al generale Rodolfo Graziani del 1937.
Stele di Dogali, Roma, luglio 2014 |
Il 13 giugno 1938 Zerai Deres si trovava nei pressi del monumento dei caduti di Dogali e guardando negli occhi il leone di Giuda (simbolo dell’Etiopia, trafugato dal fascismo e messo davanti alla stele, restituito all’Etiopia nel 1970 grazie ad Aldo Moro) cominciò a sentire nel petto una rabbia che lo portò prima a inneggiare all’imperatore Hailé Sellasié, poi a inveire contro l’Italia e il fascismo, e infine a colpire con una sciabola quanti più italiani possibile, ferendone alcuni. Qui la storia si fa nebulosa. Zerai Deres era un patriota? O il suo gesto era dettato da questioni personali? Davvero ci fu un atto d’insubordinazione al fascismo nella città di Roma e non ci è stato tramandato nulla?
La donna con le sue lacrime così dignitose mi ha ricordato quel Zerai Deres che si perde tra storia e leggenda. Anche la zona di Roma è più o meno la stessa. Piazza Indipendenza non è tanto lontana da dove si trova la stele di Dogali. Ed ecco che lo spazio tra il poliziotto e la ragazza diventa qualcosa di veramente importante. Lì dentro c’è un vuoto di senso che dobbiamo colmare. Ci si guarda negli occhi, certo, ma ci si riconosce? E questo forse quello che dovremmo fare nel prossimo futuro: riconoscerci come parte di una stessa storia.
postilla
E' difficile affrontare la decolonizzazione, senza cadere nel neocolonialismo, se di quel periodo non si ammettono e condannano gli errori e gli orrori commessi nel nome di una presunta superiorità culturale. Rimangono ancora troppi coloro che considerano quel capitolo della nostra storia un passato glorioso e che oggi ne condividono ancora i valori e gli ideali.
L'espresso, 10 Luglio 2013
Carlo Gubitosa
E' incredibile quante cose si imparano con una vignetta, soprattutto se arriva da qualcuno che sa rovistare nelle pieghe della storia. E' quello che ha fatto il fumettista Alessio Spataro tuffandosi di testa nell'archivio Youtube della Rai per una "anticommemorazione" illustrata di Indro Montanelli, di cui tra pochi giorni ricorre l'anniversario della morte.
Correva l'anno 1936, e quella che sarebbe diventata una delle penne piu' prestigiose d'Italia scriveva nel numero di gennaio del periodico "Civilta' Fascista" un articolo in cui si sosteneva che "non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà".
Ma evidentemente non tutti i tipi di "fraternizzazione" erano sgraditi a Montanelli, come ha raccontato il diretto interessato in una intervista rilasciata a Enzo Biagi per la Rai nel 1982: "aveva dodici anni, ma non mi prendere per un Girolimoni, a dodici anni quelle li' erano gia' donne. L'avevo comprata a Saganeiti assieme a un cavallo e un fucile, tutto a 500 lire. (...) Era un animalino docile, io gli (sic) misi su un tucul con dei polli. E poi ogni quindici giorni mi raggiungeva dovunque fossi insieme alle mogli degli altri ascari".
L'episodio era gia' stato rievocato in precedenza nel 1969, durante il programma di Gianni Bisiach "L'ora della verita'", in cui Montanelli ha descritto la sua esperienza coloniale: "Pare che avessi scelto bene - racconto' Montanelli - era una bellissima ragazza, Milena, di dodici anni. Scusate, ma in Africa e' un'altra cosa. Cosi' l'avevo regolarmente sposata, nel senso che l'avevo comprata dal padre. (...) Mi ha accompagnato assieme alle mogli dei miei ascari (...) non e' che seguivano la banda, ma ogni quindici giorni ci raggiungevano (...) e arrivava anche questa mia moglie, con la cesta in testa, che mi portava la biancheria pulita. (...) non c'e' stata nessuna violenza, le ragazze in Abissinia si sposano a dodici anni".
Un episodio che getta una pesante ombra sulla memoria del giornalista, ma al tempo stesso permette di fare luce su pagine oscure della nostra storia, che vanno ben oltre quella compravendita di una bambina dodicenne troppo giovane per fare da moglie a chicchessia.
L'occasione per approfondire il clima dell'epoca e' stata la polemica innescata dalla rievocazione di Spataro, dove il fronte degli indignati per quell'azione intrisa di colonialismo e in odore di pedofilia si e' scontrato con la frangia giustificazionista del "cosi' fan tutti" (o perlomeno cosi' facevano tutti all'epoca di quei fatti).
Ma siamo sicuri che fossero proprio tutti a fare cosi'? Sembra di no, visto che dalla nebbia cibernetica dei ricordi, oltre alla moglie bambina di Montanelli (abbandonata al suo Tucul e al suo destino quando il giornalista e' rientrato in Italia) e' emersa tra una replica e l'altra anche la storia dell'"imputato Seneca", l'uomo che ha sfidato per amore le leggi razziali in base alle quali era proibito elevare al rango di moglie vera e propria una "madama" acquistata per i soggiorni nelle colonie.
Il "madamato", infatti, non era un vero e proprio matrimonio con parita' di diritti e doveri, ma una forma di "contratto sociale" segnata dal dominio autoritario del colonizzatore sull'indigeno, dell'uomo sulla donna, dell'adulto sul bambino, del libero sul prigioniero, del ricco sul povero, del forte sul debole. E alla fine avevi qualcosa che era meno di una moglie e poco piu' che una schiava.
Era importante fare in modo che queste relazioni di dominio con le "belle abissine" non sconfinassero mai nel terreno dei sentimenti, e per questo nel Regio Decreto 740 del 19 aprile 1937, dal titolo eloquente "Sanzioni per rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi", si era stabilito che "il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d'indole coniugale con persona suddita dell'Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell'Africa Orientale Italiana è punito con la reclusione da uno a cinque anni".
La ragione di questo divieto alle "relazioni d'indole coniugale" l'ha spiegata Gianluca Gabrielli in un articolo del 2012 pubblicato sulla Rivista dell'Associazione Nazionale degli antropologi culturali:
La legge contro le unioni miste - scrive Gabrielli - vuole punire esemplarmente gli italiani che mostrano di non aver rispettato il codice di comportamento "razziale" dei dominatori. Il dispositivo quindi non è stato varato per colpire direttamente la donna africana, non è lei da educare in senso razzista. È l'italiano che interessa, che deve mantenere una distanza evidente e ostentare superiorità con le popolazioni del luogo, perché la distanza e la superiorità assicurano il dominio.
Ed e' per questo che tra i "capi d'accusa" a carico di Seneca vengono elencati normalissimi gesti di premura verso una compagna, tra cui la colpa "di aver preso con sé un'indigena, di averla portata con sé nei vari trasferimenti, di volerle bene, di averla fatta sempre mangiare e dormire con sé, di avere consumato con essa tutti i suoi risparmi, di avere fatto regali ad essa e alla di lei madre, di averle fatto cure alle ovaie perché potesse avere un figlio, di avere preso un'indigena al suo servizio, di avere preparato una lettera a S.M. il Re Imperatore per ottenere l'autorizzazione a sposare l'indigena o almeno a convivere con lei". Gesti che diventano crimini perche' l'oggetto di queste attenzioni e' un'africana, un'inferiore, un "suddito".
Sfogarsi nelle trasferte comprandosi le "madame" andava bene, ma nella sentenza che condanna Seneca si afferma che "in questo caso, non è il bianco che ambisce sessualmente la venere nera e la tiene a parte per tranquillità di contatti agevoli e sani, ma è l'animo dell'italiano che si è turbato ond'è tutto dedito alla fanciulla nera sì da elevarla al rango di compagna di vita e partecipe d'ogni atteggiamento anche non sessuale della propria vita".
E quando si passa dalle "ambizioni sessuali" ai "turbamenti dell'anima", aggiungendo la sfrontatezza di voler elevare la "fanciulla nera" al ruolo di "compagna di vita" anche fuori dal letto, non c'e' perdono possibile per la cultura fascista. Per i giudici che hanno condannato l'imputato Seneca quella donna non era rimasta un puro oggetto sessuale per "contatti agevoli e sani", ma c'era il rischio che potesse diventare non solo oggetto di affetti, ma anche moglie e cittadina dell'impero, e tutto questo per il colonizzatore e' una sciagura da evitare a tutti i costi.
Per smentire il "cosi' fan tutti" associato alla sottomissione delle donne, all'acquisto di minorenni, alla pratica del "madamato" basta una semplice controprova che sgretola in un attimo quel "tutti" cosi' perentorio. E pur essendo cosa comune a quei tempi comprare persone di cui disporre liberamente, e avere rapporti sessuali con dodicenni, c'e' sempre in ogni epoca della storia qualche "imputato Seneca" che spinge la civilta' lontano dalla barbarie.
E' a questa gente che dobbiamo guardare, e non alla morale corrente: ne' a quella in vigore al tempo delle "madame" dodicenni, ne' a quella attualmente in voga nella nostra epoca di "utilizzatori finali" di diciassettenni.
Ricostruire l'"acquisto" di Montanelli e il contesto in cui e' maturato, assieme all'esperienza speculare di Seneca che cercava una compagna di vita e non una "madama a tempo", potra' sembrare una inutile riesumazione di fatti gia' noti, o una mancanza di rispetto verso una firma storica del giornalismo italiano.
Resto comunque persuaso che il recupero della memoria storica, l'analisi critica dei dati di realta' e i racconti fatti senza piaggeria faranno contento il Montanelli giornalista ovunque egli si trovi, anche a costo di lasciare un po' amareggiato il Montanelli colonialista e acquirente di dodicenni, e i suoi fan talmente appassionati e devoti da perdonargli qualsiasi errore di gioventu', anche il piu' abominevole.