la Repubblica, 5 febbraio 2017
NEW YORK.-L’America riapre. Non sono più sigillate le frontiere con i sette Paesi “proibiti”. Donald Trump incassa la prima seria sconfitta a due settimane dall’insediamento. È un giudice federale di Seattle, di nomina repubblicana, ad annullare il suo ordine esecutivo sigilla-confini: da venerdì sera e con effetto su tutto il territorio nazionale. Il presidente ha una reazione violenta, sabato mattina twitta un primo attacco al magistrato che lo ha bloccato: «L’opinione di questo cosiddetto giudice, che impedisce alla nostra nazione di far rispettare la legge, è ridicola e sarà rovesciata!». Seguono altri tweet che trasudano indignazione: «Quando un Paese non è più in grado di decidere chi può entrare per ragioni di sicurezza – guai grossi! Morte e distruzione». L’attacco personale al giudice che ha sospeso il suo decreto è inusuale per un presidente degli Stati Uniti; ma non per Trump: già in campagna elettorale lui accusò un magistrato che indagava sulla truffa della Trump University di essere «prevenuto perché di origini messicane». Il capo dell’opposizione democratica al Senato, Chuck Schumer, condanna Trump per «il disprezzo verso un magistrato indipendente, la prova di una mancanza di rispetto verso la nostra Costituzione».
Le conseguenze della sentenza di Seattle sono immediate. Il Dipartimento della Homeland Security – che ha la polizia di frontiera alle sue dipendenze – si è dovuto piegare subito e ha confermato il ritorno allo status quo precedente. I cittadini dei sette Paesi che erano stati messi al bando (Iran, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan, Yemen) sono riammessi negli Stati Uniti purché muniti del visto. Cessano i problemi anche per quei cittadini di altre nazionalità, europei inclusi, che la settimana scorsa erano stati bloccati perché avevano visitato uno dei sette paesi della lista nera. Le compagnie aeree, a cominciare da quelle del Medio Oriente come Etihad e Qatar Airways hanno ripreso ad accettare viaggiatori diretti negli Stati Uniti dai sette Paesi.
L’attenzione si concentra sul “cosiddetto giudice” che ha bloccato Trump, e contro il quale è annunciato un contro-ricorso da parte del governo. Si chiama James Robart, 69 anni, dal 2004 presiede la corte federale distrettuale di Seattle nello Stato di Washington. Fu nominato da George W. Bush e quindi è “in quota ai repubblicani”: il sistema giudiziario americano è una complessa sovrapposizione fra magistrati di carriera, cariche elettive, e funzioni di nomina governativa che come tali hanno almeno all’origine una coloritura politica. Robart ha fama di essere un moderato e questo si riflette in parte nella sua sentenza di venerdì, dove c’è un richiamo alle prerogative del federalismo care alla destra repubblicana. Il giudice di Seattle si è mosso in conseguenza di una denuncia degli Stati di Washington e del Minnesota che hanno accusato il decreto Trump di danneggiarli nei loro diritti e nel loro interesse economico, chiudendo le frontiere a un’immigrazione essenziale per le aziende. Dando ragione a quei due Stati, il giudice ha costruito un’argomentazione che può mettere in difficoltà i repubblicani fino alla Corte suprema, dove potrebbe sfociare il contenzioso sull’ordine esecutivo. Nell’immediato la Casa Bianca spinge per avere una contro-sentenza in tempi brevi.
È difficile fare previsioni su chi vincerà, ma intanto il decisionismo su cui Trump ha costruito la propria immagine, si è arenato. L’ordine esecutivo che proibiva gli ingressi da 7 Paesi ha avuto un’esecuzione confusa e pasticciata dall’inizio, fino allo stop completo con la sentenza di Seattle. L’immagine del presidente- imprenditore che demolisce in pochi giorni l’America di Barack Obama, ne capovolge tutte le riforme alla velocità della luce, si scontra con una realtà più complicata da governare. Il sistema politico della più antica liberaldemocrazia occidentale almeno per ora non si lascia comandare come i candidati di un reality-tv. Improvvisazione e dilettantismo cominciano a pesare su Trump, che ha voluto accelerare il passo senza neppure avere attorno a sé una vera squadra: molti dei suoi ministri compreso quello della Giustizia non hanno ancora superato la conferma al Senato. In quanto alla magistratura è un corpo ramificato e con tradizioni di indipendenza, non basta blindare la Corte suprema per avere risolto una volta per tutte l’ostacolo dei contropoteri.