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Stefano Rodotà: il ricordo di Repubblica
24 Giugno 2017
Stefano Rodotà
«Addio Stefano Rodotà combattente galantuomo». Articoli di Massimo Giannini, Simonetta Fiori, Antonio Gnolo. Le interviste di Liana Milella a Gustavo Zagrebelsky e Giovanna Casadio a Emma Bonino.
«Addio Stefano Rodotà combattente galantuomo». Articoli di Massimo Giannini, Simonetta Fiori, Antonio Gnolo. Le interviste di Liana Milella a Gustavo Zagrebelsky e Giovanna Casadio a Emma Bonino.

la Repubblica, 24 giugno 2017 (m.p.r.)


L'UOMO DEI DIRITTI

di Massimo Giannini
«Ti ricordi cosa rispose Prodi al cardinal Ruini, ai tempi della polemica sulla procreazione assistita, no? “Sono un cattolico adulto”… Ecco, sai oggi di cosa avremmo bisogno? Di tanti “democratici adulti”’, di cittadini che hanno sete e fame di partecipazione, e che hanno voglia di rivitalizzare la democrazia. E guarda, io che giro l’Italia ti dico che ce ne sono tante, di persone così. Persone che si mobilitano, e che non hanno bisogno del leaderino di turno che le comandi, o le strumentalizzi». Passeggiavamo intorno a Via Teulada, quella sera di marzo di un anno fa. Stefano Rodotà era appena stato ospite in studio, a “Ballarò”, a parlare dei suoi cavalli di battaglia: i referendum, i beni comuni, i rapporti tra le élite e il popolo, i migranti. E nonostante stesse già toccando con mano il fallimento imminente di un’altra stagione politica, a ogni passo rinnovava il suo atto di fede illuminista: «Sono vecchio, ma non ho ancora smesso di credere nella ragione umana».
Ora che quel magnifico vecchio di 84 anni se n’è andato, di lui ci resta soprattutto questo. La testimonianza preziosa di un “democratico adulto” che non ha mai rinunciato un solo giorno a battersi per i diritti e per le regole, per l’uguaglianza e per la solidarietà. E di questa missione Rodotà ha riempito tutte le esperienze pubbliche che ha vissuto. Il professore universitario a Roma e il garante di Biennale Democrazia a Torino. Il simpatizzante radicale con Pannella e il parlamentare prima da indipendente del Pci poi del Pds di Occhetto. Il presidente dell’Autorità per la privacy e il direttore del Festival del diritto di Piacenza.
Stefano è stato un “combattente galantuomo”. Uno dei “vecchi più giovani” che io abbia mai conosciuto. Per la modernità con la quale ha affrontato tutte le sue sfide intellettuali. La curiosità che lo ha portato a occuparsi di mille cose. L’umiltà che lo ha spinto a studiare fino all’ultimo. Ne ha passate tante da quel 1933 a Cosenza. Le sfilate del sabato dei balilla e il Partito d’Azione scelto da suo padre. L’amore per Balzac e «le domeniche mattina al cinema con Moravia e Pasolini ». Gli insegnamenti di Arturo Carlo Jemolo e di Max Weber. Il rifiuto dell’offerta di lavoro con Adriano Olivetti («mi chiedo come un uomo così abbia potuto vivere e operare in un Paese come il nostro...») e quel po’ di soldi piovuti «dalla collaborazione con il Mondo di Pannunzio».
Rodotà era un concentrato di tensioni civiche e di passioni giuridiche. Ma non era un giurista di quelli che si limitano a spaccare in quattro la norma: la calava e la faceva agire nella vita quotidiana. Da studenti di legge, alla Sapienza, ci bevevamo i suoi libri. In pochi hanno avuto la sua profondità di pensiero e la sua fluidità di penna. Quando uscì in prima edizione Il terribile diritto, nell’81, per noi fu un’illuminazione. Lì dentro c’era già tutto. La “macchina della proprietà” che comincia a correre «a tutta velocità in un mondo costruito a una sola dimensione, quella del mercato come legge naturale, della riduzione all’economia di tutte le relazioni sociali». La sproporzione proprietaria come motore delle disuguaglianze, che schiaccia qualunque “idea morale di solidarietà”. E poi il successivo fallimento del mercato, l’urgenza di forme di controllo, «il legame sempre più stretto tra i diritti fondamentali e i beni necessari alla loro attuazione», la riscoperta della teoria dei “beni comuni” (dall’acqua alla conoscenza), il loro “uso sociale”, la “costituzionalizzazione della persona”.
I diritti e i deboli: Rodotà sapeva sempre da che parte stare. L’aveva saputo “senza se e senza ma” nel tumultuoso Ventennio berlusconiano, urlando al mondo il conflitto di interessi, le norme ad personam e le leggi-bavaglio del Cavaliere. Continuava a saperlo in questo confuso decennio di vacuo “oltrismo” identitario. Si indignava: «Basta con questa storia che non c’è più distinzione tra destra e sinistra! La distinzione c’è eccome, per me al centro della politica ci sono la dignità, l’uguaglianza, i diritti, la ridistribuzione delle risorse. Non è sinistra, questa?» Uno così non poteva non incontrare Repubblica lungo la sua strada. Collaboratore fisso dalla fondazione del giornale, nel 1976. E ogni volta che lo chiamavi per chiedergli un editoriale, sapevi che ti sarebbe toccato un quarto d’ora di ragionamento mai banale, sulle cose da dire, sulla posizione da prendere. Ma sapevi anche che dopo un paio d’ore ti sarebbe arrivato un pezzo perfetto, che metteva sempre il giornale al “posto” giusto.
Parlavi di diritti negati nel lavoro? «Primo Levi scriveva: per vivere occorre un’identità, ossia una dignità. Senza dignità l’identità è povera, può essere manipolata. Difendere la dignità delle persone è difendere la democrazia». Parlavi di biotestamento? «Abbiamo il diritto ad esercitare in piena autonomia il ‘governo’ del nostro corpo. Il legislatore italiano, purtroppo, per la convivenza».
Aveva sempre idee forti, da opporre ai “debolismi” e ai populismi. Aveva un stella polare, che era la Costituzione. E in nome di questa si era schierato contro la riforma e il referendum di Renzi. «La pochezza del contenuto di quel testo è imbarazzante… E poi un manifesto come quello che chiede ai cittadini “vuoi diminuire ha il vizio o la propensione ad impadronirsi della vita delle persone ». Parlavi di privacy al tempo di Internet? «Io non voglio sapere che a 40 anni mi verrà una terribile malattia. Ma ci sarà qualcuno molto interessato a carpire questa notizia: un assicuratore o un datore di lavoro. E io devo essere tutelato». Parlavi dell’ondata xenofoba? «La paura del cittadino è comprensibile, ma gli impresari della paura che la cavalcano per lucrare una manciata di voti sono un pericolo il numero dei politici? Basta un sì”, incorpora clamorosamente l’antipolitica».
E se gli facevi notare «però Stefano, non sarete un po’ troppo conservatori, sul piano costituzionale?» lui quasi ti riaggrediva un’altra volta. «Questo lo pensa Renzi, che segue un percorso di riduzione della democrazia costituzionale. Io penso a un orizzonte espansivo di cambiamento della Costituzione». Solo una destra giornalistica cinica e votata al birignao poteva ironizzare sulla sua vana- gloria e sulla sua presunta “deriva grillina”. È vero che nel 2013 Grillò lo chiamò per candidarlo al Colle. Ed è vero che lui accettò. Ma non lo fece per infatuazione politica. «Solo un imbecille si sarebbe potuto illudere di vincere la corsa. Se ci ho messo la faccia lo stesso è perché uno con la mia storia aveva tutto il diritto di dimostrare che un’altra scena era possibile».
Gli si poteva anche non credere. Ma per lui parlano le cose che disse dei Cinque Stelle. Nel 2008, quando già intuiva i pericoli del cyberpopulismo: «Approderemo a una nuova utopia tecnopolitica? Vedremo il presidente.com? Una lettura miracolistica dell’Internet 2.0 e delle sue reti sociali sottovaluta il riprodursi di modelli in qualche modo plebiscitari». Nel 2012, quando ammoniva «Grillo al Nord dice non diamo la cittadinanza agli immigrati, al Sud che la mafia è meglio dei politici, questi movimenti sono estremamente pericolosi». Ci sarà un motivo, se poco dopo il capocomico genovese dettò la scomunica sul Sacro Blog: «Rodotà è un ottuagenario miracolato dalla Rete». Lui neanche gli rispose. Continuavano a sfotterlo a colpi di “Rodotà- tà-tà”, per la sua contraerea sul tetto della “Costituzione più bella del mondo”. Sarcasmo mal riposto, pure quello.
Stefano non aveva affatto il culto dell’intangibilità costituzionale, ma semmai della sacralità del costituzionalismo, che è bilanciamento dei poteri. Sapeva quello che tanti capataz contemporanei, a corto di visione e di legittimazione, hanno ormai dimenticato: la democrazia è limite. E la Costituzione non è un libro polveroso: è materia vivente.
Il “democratico adulto”, purtroppo, non vedrà l’esito delle sue e delle nostre battaglie. Non vedrà la fine dell’eterna transizione italiana. Negli ultimi mesi ripeteva spesso: «Chiudetemi in casa, quando comincerò a dare segni di squilibrio». Lui se ne va, senza aver mai cominciato. Gli altri restano, senza aver mai smesso.

GUSTAVO ZAGREBELSKY

“CREDEVA IN UNA SOCIETà FONDATA SUI BENI COMUNI”
Intervista di Liana Milella a Gustavo Zagrebelsky

«Per me è un grande dolore. Per il nostro Paese è un grande vuoto». Il professor Gustavo Zagrebelsky parla di Stefano Rodotà, il giurista stimato e il compagno di tante battaglie a difesa della Costituzione. Nella sua voce c’è commozione e rammarico per un amico di meno.

Cos’era Rodotà per lei, prima ancora che come giurista?
«Sto cercando le parole... Un uomo di grande rigore e grande cultura. Di molta moderazione e di molta costanza nel perseguire i suoi ideali. A ciò aggiungerei uno stile asciutto, e, non sembri una contraddizione, molto dolce».

A me suona ancora nelle orecchie la sua voce roca, sempre pacata anche quando il dibattito pubblico non risparmiava eccessi.

«Molti lettori di questo giornale ricorderanno le sue apparizioni in pubblico, anche in televisione, con questo modo di fare sempre chiaro, legato ai temi, slegato dalle persone con le quali poteva polemizzare».

Ma lui invece è stato oggetto di pesanti aggressioni…
«Sì, ne voglio ricordare in particolare una. Quando fu proposto come possibile presidente della Repubblica fu oggetto di un’ignobile campagna di denigrazione».

Qual è stato il suo contributo alla scienza del diritto?

«Io ho conosciuto Stefano Rodotà alla fine degli anni Sessanta (aveva esattamente dieci anni più di me), in riunioni di giovani e meno giovani giuristi, il cui frutto fu la creazione di una rivista che esiste tuttora, con Rodotà presidente del comitato scientifico, il cui titolo è Politica del diritto. Nel gruppo c’erano colleghi che hanno preso le vie più diverse come Cassese e Amato. La ragione fondativa della rivista era una visione del diritto come strumento di trasformazione sociale. Politico in quel senso, non nel senso della politica dei partiti. Nel senso di una visione politico-civile del diritto. In particolare per lui, per la sua strada successiva, il diritto a protezione ed emancipazione dei più deboli».
Un filone che lo ha accompagnato a lungo…
«Sì, fino all’ultimo, fino al fondamentale volume del 2015 dal titolo Il diritto di avere diritti. Rodotà iniziò come un qualunque giurista prodotto dall’accademia italiana, occupandosi di temi classici del diritto civile e della loro, come si dice, dogmatica. I suoi primi studi sono stati dedicati alla responsabilità civile e al contratto: più classici di così! Il terzo era sulla proprietà, il titolo - Il terribile diritto - dice già molto. Sul diritto di proprietà si costruì la società borghese dell’800 con le sue tensioni, le ingiustizie, le divisioni in classi. La proprietà veniva estrapolata dai concetti giuridici per essere immersa nella grande storia dei rapporti sociali. Il punto finale degli studi storico- prospettici di Rodotà è stato il suo interesse per i beni comuni, sottratti alla partigianeria dei proprietari e attribuiti alla gestione degli utenti».
Ma sul tema dei diritti Rodotà è andato molto più in là fino a guardarli anche nella società futura.
«Per l’appunto. Rodotà è stato un pioniere. Negli ultimi decenni si è occupato a fondo di temi come gli aspetti giuridici della bioetica, l’impatto delle nuove tecnologie sull’esistenza delle generazioni presenti e future, lo sviluppo della tecnica e i rischi di disumanizzazione della vita. E infine della disciplina giuridica e dei diritti della circolazione dei dati in rete».
Rodotà garante della privacy, paladino di un uso responsabile delle intercettazioni, senza violare il diritto di cronaca. Giudica la sua una posizione equilibrata?
«Era quella di chi si rende conto che esistono, e oggi esistono sempre più numerosi, problemi difficili, e difficili in quanto presentano diversi lati. È evidente che esiste un lato dell’essenziale libertà dell’informazione e uno della difesa della dignità delle persone. Anzi, a questo proposito, mi viene in mente che negli ultimi anni, l’interesse di Rodotà si era allargato dai temi strettamente giuridici, a quelli più ampi di natura culturale e morale».
A cosa allude?
«Ai suoi studi, piuttosto sorprendenti in un giurista che all’inizio professava un rigoroso positivismo – il diritto è nella legge, e fuori della legge non c’è diritto – a prospettive di natura cultural-morale. Mi riferisco ai suoi lavori sulla persona umana, sulla dignità, sulla solidarietà, in cui va oltre la prospettiva legata al diritto positivo».
L’impegno politico ha mai viziato la sua autonomia di giurista?
«Questa domanda evoca in me un’altra grande figura di giurista, che senza tradire mai la sua radice intellettuale, si è dedicato alla politica, Leopoldo Elia. Rodotà, laico rigoroso; Elia, cattolico rigoroso. Nessuno dei due disposto a compromettere la propria libertà intellettuale ed entrambi legati da un rapporto di stima e di collaborazione feconda».
Contro Berlusconi prima e contro Renzi poi, Rodotà ha difeso con la dottrina e in piazza la Costituzione. Battaglie forti le sue. Era in sintonia con lei, no?
«Sì, ma Rodotà ha attivamente partecipato a scritture e riscritture di testi costituzionali. Penso al suo impegno nell’elaborazione della Carta europea dei diritti e alla sua partecipazione ad alcune commissioni Bicamerali per l’ammodernamento della Costituzione».
Quindi non era un fanatico della Carta immutabile?
«No, non lo era. Infatti era favorevole al superamento del bicameralismo. Questa sua posizione è stata strumentalizzata nel dibattito recente. Quello che voleva Rodotà era il potenziamento della democrazia parlamentare. Si parlava, in quegli anni, di centralità del Parlamento. Ovvio che in una riforma che si potrebbe definire della centralità del capo del governo, Rodotà fosse contrario al depotenziamento del Parlamento che ne sarebbe derivato».
D’ora in avanti ci sarà un vuoto. Pensando a un “compagno di strada” nelle sue battaglie cosa le mancherà di Rodotà?
«Mi mancherà un collega mite, un maestro di quelli d’altri tempi, il cui sguardo era proiettato nell’avvenire. Ce ne fossero di giovani anagraficamente, ma giovani intellettualmente come Stefano Rodotà».

EMMA BONINO “UN LAICO COERENTE

SAPEVA CHE LA LIBERTÀ È FACILE DA PERDERE”
intervista di Giovanna Casadio a Emma Bonino

«Era un laico coerente, non di quelli a giorni alterni. Mancherà per la sua laicità, per le sue battaglie ma soprattutto per la sua coerenza». Emma Bonino, leader radicale, ex ministro degli Esteri, ricorda Stefano Rodotà con il quale ha avuto un dialogo mai interrotto. Rodotà affidò a lei nel 2012 il compito di parlare delle battaglie civili che hanno reso più moderna l’Italia al Festival del diritto di Piacenza, che aveva ideato.


Bonino, cosa ricorda di più di Stefano Rodotà: la laicità, le comuni battaglie per i diritti?

«Con Rodotà la famiglia radicale ha avuto momenti di grandi sintonie e anche di grandi distanze. Però la questione della laicità e dei diritti ci hanno visto insieme in molte iniziative forse con una accentuazione maggiore, almeno da parte mia, del tema dei doveri che sono inestricabilmente legati alla questione dei diritti: ogni diritto di libertà e responsabilità presuppone il dovere di consentirlo agli altri, che la pensano diversamente. E di Stefano voglio sottolineare la coerenza. Perché è raro un punto di vista laico e coerente. A volte ci sono comportamenti - spot, laici qualche volta e meno laici altre. È difficile, appunto, una posizione laica coerente, costa fatica nella vita politica o personale che sia».
È prezioso in Italia un punto di vista laico?
«C’è sempre più bisogno di laicità. Anche la convivenza tra le varie religioni presuppone che ci siano istituzioni laiche che garantiscano diritti e doveri. Per tutti. La libertà di espressione religiosa, di praticare la propria fede religiosa per me, che sono agnostica, è comunque un diritto basilare. Noi tutti siamo tentati di difendere i diritti quando ci riguardano. Questa è una delle debolezze delle battaglie sui diritti civili: ciascuno si occupa del suo».
A cosa pensa in particolare?
«Alla giustizia. Rita Bernardini ne sa qualcosa. A parte gli operatori del settore, ovvero magistrati, avvocati e carcerati, la gente si interessa alla questione giustizia o alle carceri solo quando ci passa.
Questo lo ricordava sempre Enzo Tortora».
Nella mentalità e nella realtà italiana c’è ancora un vulnus in fatto di laicità?
«Dal testamento biologico al fine vita, alla ricerca scientifica, direi proprio di sì. E Stefano è sempre stato sul fronte di queste battaglie. Per non parlare del dramma vissuto in Italia sulla fecondazione assistita, regolata da una legge oscurantista che è stata abbattuta dai ricorsi di alcune coppie le quali non si sono rassegnate ad andare a Barcellona o in altri paesi europei per gli interventi, e grazie alla testardaggine dell’Associazione Luca Coscioni e di Filomena Gallo».

Diceva Rodotà che è dai diritti che si misura la qualità di una società, è così?

«È così. E, aggiungo io, dall’applicazione dello stato di diritto a partire dalle istituzioni coinvolte».

E che i diritti non si acquisiscono tuttavia una volta per tutte.
«Anche perché ci sono nuovi diritti che la scienza ha scoperto e propone. L’eutanasia, ad esempio. Per noi radicali è una battaglia antichissima. Mi ricordo per la prima volta ne parlarono Loris Fortuna e Marco Pannella, a inizio anni Settanta. Il diritto alla scienza e alla libertà di cure, segnalo, è catalogato dalle Nazioni Unite. Tuttavia si evolve il mondo e anche il modo di stare al mondo. Importante è non farsi guidare dallo schema “io non lo farei, quindi tu non lo devi fare”. Che è un atteggiamento di cui non riusciamo purtroppo a liberarci. Penso al dibattito sulle unioni civili. Si stava discutendo di queste e un gruppo di femministe apre il fronte della maternità surrogata, chiedendone la proibizione a livello mondiale invece di percorrere la strada della regolamentazione per evitare il più possibile lo sfruttamento delle donne».
Raccontava Rodotà di essere stato iscritto solo al Partito radicale. Però non accettò la vostra candidatura al Parlamento nel 1979 bensì quella da indipendente nelle liste del Pci. Pannella riuscì a convincere Sciascia a candidarsi con voi, ma non Rodotà?
«Seguivo in quel periodo la prima campagna per l’elezione del Parlamento europeo, quando Sciascia si candidò con noi. Tutto nasceva da una impostazione diversa: Marco riteneva fosse importante riunire forze nelle liste cosiddette autobus, così da scuotere dall’esterno il corpaccione del Pci. Voleva ci fosse anche Rodotà che esprimeva l’area di cultura giuridica di tipo liberal. Mentre Stefano quello scossone voleva darlo dall’interno e puntò sulle candidature indipendenti nelle liste del Pci. Marco al contrario li chiamava “i dipendenti”».
Non fu Rodotà una personalità accomodante. Quanto è difficile oggi non essere accomodanti o scomodi?
«Oggi io mi auguro che si crei una resistenza rispetto ad accomodarsi tutti nella caricatura anti europeista, nazionalista, sovranista, tanto per citare i cliché che vanno per la maggiore e che non danno risposte ai problemi. Una moda che va forte, anche se ha avuto uno stop in Francia con Macron, ma anche in Austria e in Bulgaria. Non essere accomodanti ma partendo dalla realtà, senza suggestioni pericolose e false come le cose che si sono sentite al Senato sullo ius soli. Le immagini vergognose di quella zuffa hanno fatto il giro del mondo».

DA BIOETICA A PRIVACY,

IL VOCABOLARIO DI UNA VITA
di Simonetta Fiori

Le parole di Stefano Rodotà sono tante, quante ne servono a coprire l’incessante esplorazione in campi diversissimi. Ma non si può comprendere il suo dizionario autobiografico senza un lemma in particolare che ne riassume tutti gli altri. E questa parola è dignità. «Un termine che ha a che fare direttamente con l’umano », spiegava lo studioso. «Il rispetto della persona nella sua integrità».

Dignità. Non c’è aspetto dell’evo contemporaneo che non abbia trovato in Rodotà un interprete rigoroso e fedele al principio della dignità, ritenuta un valore fondante del costituzionalismo tedesco e italiano. Dignità sociale, nel rapporto con gli altri. Dignità nel vivere, dignità nel morire. E se gli si domandava negli ultimi tempi se fosse questa la parola chiave del suo impegno, rispondeva con la consueta semplicità: «Sì, ma l’ho scoperto piano piano: la dignità è un modo antropologico di vivere. Se io riconosco a una persona dignità non posso comportarmi come se questa consapevolezza non l’avessi mai acquisita».
Vita e regole. La vita è un movimento irregolare – scrive Rodotà citando Montaigne – e il diritto non sempre appare adeguato alla sua complessità. L’amore, la sessualità, la nascita, l’intimità, il dolore, la malattia, la fine: in alcune sfere dell’esistenza la norma può risultare inopportuna, intollerante, odiosa. «E allora bisogna fermarsi per tempo. Restituire valore a un diritto che sia al servizio del mestiere di vivere». Il principio di libertà di scelta fu difeso dal giurista nelle sue innumerevoli battaglie per la fecondazione assistita, per il matrimonio e le adozioni di coppie gay, per il testamento biologico.
Bioetica. Fu tra i primi a confrontarsi con la complessità di rivoluzioni scientifiche «che non mettono in discussione solo convinzioni radicate, ma la natura stessa di ciascuno, la sua antropologia». Le tecnologie riproduttive, l’analisi genetica, il diffondersi dei trapianti: per lo studioso la bioetica non si limitava a indicare una serie di temi né poteva assumere un tratto marcatamente normativo, ma doveva diventare «un luogo di elaborazione e confronto» tra discipline e convincimenti diversi.
Diritti. Teorizzò una cittadinanza globale fondata sui diritti. Dunque il superamento di una nozione di cittadinanza come proiezione di un’identità escludente. «Oggi assistiamo a pratiche comuni dei diritti. Le donne e gli uomini dei paesi dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente, lo studente iraniano e il monaco birmano si mobilitano attraverso le reti sociali, si rivoltano in nome dei diritti, scardinano regimi oppressivi». Nuova parola d’ordine mutuata da Hannah Arendt: il diritto di avere diritti.
Privacy. Sollecitato a dare una definizione di privacy, ne distinse i vari passaggi. Da «possibilità di scegliere quando esibirsi o quando rimanersene al riparo», il concetto di privacy si è poi esteso fino a includere «il diritto di poter controllare tutte le informazioni personali raccolte da altri». L’ultimo passaggio è legato alla rivoluzione digitale. «La privacy tutela il diritto di mantenere le mie caratteristiche non solo senza subire alcun tipo di discriminazione ma senza neppure perdere interi pezzi di identità». Il pericolo denunciato dallo studioso è la riduzione della persona a “un corpus di informazioni elettroniche”, primo passo verso la “società del controllo”.
Sinistra. Bussola imprescindibile della sinistra resta per Rodotà la triade “eguaglianza, libertà e fraternità/solidarietà”. Non è certo di sinistra «la riduzione della persona a homo oeconomicus, che si accompagna all’idea di mercato naturalizzato: è il mercato che decide e governa le nostre vite». Inaccettabile il principio che i diritti sanciti dalla carta costituzionale – istruzione o salute – possano essere vincolati alle risorse economiche.
Tecnopolitica. Di fronte alle manipolazioni rese possibile dalla rivoluzione digitale riteneva necessario cimentarsi con una “costituzione per Internet”, «con il modo in cui la tecnologia incontra il tema delle libertà e istituisce lo spazio politico».
Fine. Alla parola “morte” preferiva “fine”. Sosteneva di aver capito il dolore più dai romanzi di Carlo Emilio Gadda che dai testi del diritto. E a Gadda dedicò l’esergo di un capitolo intitolato La fine: «...le moribonde parole dello Incas. Secondo cui la morte arriva per nulla, circonfusa di silenzio, come una tacita, ultima combinazione del pensiero».

IL GRAN LETTORE DI BALZAC

CHE CREDEVA NELL'UNIONE TRA RAGIONE E SENTIMENTO
di Antonio Gnoli

L’umanità di uno studioso diviso tra l’analisi realistica su come riuscire a migliorare la vita di tutti i cittadini e l’idea che non c’è vera giustizia senza amore per la gente.

Tra le cose ultime che Stefano Rodotà ha scritto ricordo un libro sull’amore. Restai sorpreso. Non era l’amore un territorio che il mondo giuridico aveva tentato di assoggettare (sotto la forma del vincolo matrimoniale) o espungere come esperienza irrazionale? L’attenzione di Rodotà si posò sul fatto che l’esperienza dell’amore fosse dettata dall’incontro e dal conflitto tra la vita e le regole. Il diritto aveva vissuto vari secoli separato dalla vita civile. Rodotà provò a invertire quella rotta oppressiva, consapevole che ogni forma di ordine nasce dal disordine e dalle conseguenze che l’irruzione del nuovo può provocare.
Quando nel 2015, lo stesso anno del Diritto d’amore, uscì Il diritto di avere diritti, mi colpì l’esplicito richiamo a Hannah Arendt. Cosa significava quell’allusione diretta a un’autrice, ebrea tedesca, esule prima in Europa e poi in America? Da apolide, Arendt raccontò la propria ventennale condizione di profuga. Accanto ai panni della studiosa indossò quelli della vittima. Apparve evidente cosa volesse dire, nella sua drammatica semplicità, perdere il lavoro, la casa, la lingua, la famiglia, le radici. Cosa significava, insomma, per una persona essere privata di ogni diritto. Arendt comprese che non esiste diritto umano senza che l’umanità stessa si faccia garante della sua difesa e realizzazione. Di tutto questo Rodotà fu consapevole. Lo fu in quanto giurista e in quanto politico. Nonostante i dubbi, conservò sempre una forma di ottimismo che per lui fu come una seconda pelle. Fu un uomo duttile e colto. Curioso e libero di posarsi sui punti più critici della materia che aveva segnato la sua vita, cioè il diritto.
Credo che nell’educazione sentimentale giovanile gli avesse giovato la passione per la letteratura, esplorata in lungo e largo nella grande biblioteca del nonno. Fu anche grazie alla lettura di Balzac, alla sua Comédie humaine, che comprese la potente rifrazione del diritto sulla società. In un incontro che avemmo a casa sua si lasciò andare a qualche amarezza. Gli chiesi come avesse vissuto ed elaborato la vicenda della sua candidatura al Quirinale che lo vide bersaglio del fuoco mediatico. Rispose che non c’era molto da dire. In realtà, temo, che una qualche forma di delusione l’avesse provata. Aggiunse che in quella vicenda lui ci aveva messo il suo nome non perché pensasse davvero di farcela, ma perché uno con una storia come la sua aveva tutto il diritto di mostrare che un’altra scena era possibile: «Possibile, non probabile», precisò. Ho la netta impressione che nella differenza e nel confronto tra possibile e probabile si sia svolta l’esistenza di Stefano Rodotà. Il probabile come costruzione, calcolo, tecnica; il possibile come speranza, dignità, passione e, appunto, amore. Nell’allarmata visione degli ultimi tempi, si convinse che occorressero tanto la ragione quanto il cuore per combattere i vasti incendi di questo mondo.

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